“E se i giusti fossero solo dieci?” Omosessualità e dintorni

5. Le unioni

Fin dall’inizio di questo post ho dichiarato di essere propenso ad accettare le unioni tra le persone dello stesso sesso con il cuore del padre della parabola del figliol prodigo. Credo di aver raccolto e mostrato tutti gli elementi, o almeno la parte più utile, perché chi legge si formi un’idea di quanto vado sostenendo. Ora non resta che affrontare in modo puntuale l’argomento delle unioni tra persone dello stesso sesso evidenziando alcune criticità.

Matrimonio e famiglia sono istituzioni in crisi

Dal mio punto di vista, considerato il debito della nostra cultura occidentale attuale nei confronti della cultura cristiana, sarebbe difficile per chiunque immaginare un tipo di unione che prescinda dal modello del sacramento del matrimonio. Si pensi, ad esempio, al fatto di limitare a due sole il numero delle persone partecipanti all’unione. In una coppia tradizionale si parlerebbe di un uomo e una donna; introducendo altre forme di unione si parlerebbe di due uomini o di due donne. Ma perché limitarsi a due? Perché non ammettere, come accade per altre culture, il fenomeno della poligamia e/o della poliandria? Ho fatto cenno nel mio post sul gender al fenomeno del poliamore: si tratta della posizione di chi ammette che ciascuna persona possa avere una molteplicità di relazioni intime, escludendo alla radice il concetto di monogamia, come anche quello di fedeltà ed adulterio. Ma sono proprio questi concetti ad essere stati introdotti e rafforzati dal cristianesimo!

Se il concetto di indissolubilità è già stato duramente attaccato nei fatti, si potrebbe chiedere però per quale ragione non sia possibile generare, far crescere ed educare i figli all’interno di coppie alternative a quella tradizionale. Del resto solo per limitarci all’Italia e solo comprendendo gli ultimi 50 anni sappiamo di aver assistito all’introduzione di tecniche sempre più raffinate sia per non avere figli (preservativi, contaccettivi, abortivi) sia per averli (procreazione omologa ed eterologa, utero in affitto) sia una volta avuti per offrire loro ambienti idonei al loro sviluppo (adozione, affido); e soprattutto abbiamo assistito alla trasformazione radicale della famiglia (tradizionale), con la prassi della convivenza senza stabili o codificati legami, con la riduzione sostanziale dello stigma verso le ragazze-madri / i ragazzi-padri, con l’equiparazione totale dei figli nati dentro e fuori del matrimonio, con l’aggregazione di vari nuclei familiari attraverso l’unione di monconi di famiglie provenienti da precedenti matrimoni al punto da giungere a parlare di “famiglie allargate”. In questo senso è difficile trovare unanimità nel definire la famiglia secondo la tradizione cristiana: si potrebbero più facilmente ritrovare, all’interno della mentalità corrente, elementi che afferiscono al concetto di clan o a quello di poligamia/poliandria.

Il timore espresso in molteplici passaggi dei documenti ecclesiali circa l’omosessualità e le unioni tra persone dello stesso sesso che un clima troppo favorevole ad esse inneschi un processo di svalutazione del matrimonio, e della famiglia, non trova secondo me fondamento nel panorama contemporaneo. Il matrimonio, nel suo concetto più comune, è già entrato in crisi da molto tempo. Mi sono occupato a più riprese dell’argomento del matrimonio nel mio blog. Fin dal 2010 esponevo tutte le mie perplessità intorno alle modalità di celebrazione del sacramento in questo post; nel 2013 ho ironizzato sugli effetti delle unioni civili con questo post; ho ribadito la mia avversione al matrimonio concordatario nel 2014 con questo post; sempre nel 2014, ammettendo che il nominalismo contemporaneo ha svuotato di significato il termine “matrimonio“, proponevo di chiamare il sacramento del matrimonio “sacrimonio” (qui). Pure il concetto di famiglia, sottoposto ad una attenta analisi, ne uscirebbe con qualche seria difficoltà, come ho cercato di evidenziare in un mio post del 2014.

Unioni non sono causa ma effetto del disagio intorno a matrimonio e famiglia di origini cristiane

Tutto ciò mette chiaramente in luce che allo stato attuale della nostra esperienza i concetti di matrimonio e di famiglia possono assumere al massimo un valore analogico, quasi evocativo, piuttosto che rispecchiare il significato reale proveniente della cultura cristiana, che – peraltro – ricorrendo agli strumenti filosofici di “natura” e di “retta ragione” per giustificare l’universalità di un modello matrimoniale/familiare basato sulla coppia eterosessuale e sulla sua fecondità non commette un’indebita inferenza, diventando invece difficile comprendere il fenomeno qualora si adottassero strumenti di altro genere (come per esempio quelli del “diritto”). Si deve infatti riconoscere onestamente che la questione intorno ad esperienze matrimoniali diverse da quella tradizionale (un uomo e una donna, matrimonio indissolubile, fedeltà coniugale, fecondità) affiora solo di recente nella consapevolezza sociale, in modo prorompente, certo, ma decisamente irrazionale. Fino ad oggi, da che mondo è mondo, l’essere umano è venuto alla luce accolto da una madre e da un padre uniti in una stabile comunità umana.

Bisogna perciò riconoscere che l’attuale favore riservato alle unioni tra persone dello stesso sesso, e anche alle unioni non impegnative quanto il matrimonio e alternative ad esso, deve essere considerato non tanto la causa quanto l’effetto di una confusione circa la natura, i fini e l’essenzialità del matrimonio come proposto dalla cultura cristiana, che affonda le radici della sua riflessione nell’osservazione dell’universalità del fenomeno leggendolo alla luce della filosofia e della teologia. In altri termini il matrimonio, così come ereditato in occidente dalla cultura cristiana che su di esso ha profondamente inciso, non trova più un universale consenso e quindi è possibile osservare un risoluto processo di revisione, iniziato in modo plateale con l’ammissione della possibilità che almeno uno degli elementi costituenti, quello dell’indissolubilità, fosse aggirabile attraverso il divorzio, processo ancora non concluso.

Nuzialità omosessuale: dall’esperienza numeri non significativi

C’è un altro motivo che mi spinge a ritenere abbastanza ingiustificato, per quanto comprensibile, il timore che le unioni tra persone dello stesso sesso possano contribuire a modificare la mentalità intorno alla natura del matrimonio. Alcune nazioni europee, quali la Francia e la Spagna, con l’adozione di norme di legge che hanno introdotto le unioni tra persone dello stesso sesso, rappresentano un utile riferimento per la valutazione dell’incidenza delle unioni stesse sulla società civile.

La Spagna in particolare consente i matrimoni del mismo sexo fin dal 2005 e a distanza di 10 anni si deve prendere atto che essi rimangono al di sotto del 2% del totale dei matrimoni celebrati, meglio però di quanto avviene in Portogallo dove si attestano sull’1%. L’Olanda, paese precursore nell’apertura del matrimonio tra persone dello stesso sesso, mostra percentuali simili a quelle spagnole; uno studio condotto tra la popolazione omosessuale olandese conclude affermando che 9 persone omosessuali su 10 dichiarano di non avere interesse verso un matrimonio istituzionalizzato (fonte: Neodemos – Popolazione società politica).

I numeri non significativi e il trend in discesa (mentre si cominciano ad avvertire i primi segnali di una crisi espressa attraverso separazioni e divorzi, più frequenti nelle unioni tra persone dello stesso sesso che nei matrimoni tradizionali, qui) fanno pensare che quella dei cosiddetti “matrimoni gay” sia un’esperienza di nicchia, peraltro nelle stesse intenzioni di molti contraenti con caratteristiche molto distanti dall’idea stessa di “matrimonio”.

Sotto un certo profilo voler proporre una sorta di equiparazione tra unioni tra persone dello stesso sesso e matrimoni tradizionali è comprensibile: si cerca anche in questo campo, o forse attraverso questo campo, di superare le distanze, le disuguaglianze, le obbiettive differenze osservabili tra i due generi di coppie, omosessuali da una parte, eterosessuali dall’altra a tutto beneficio dell’equilibrio umano e psichico di quanti soffrono o hanno sofferto sentendosi “diversi”. Nondimeno in tale accostamento si coglie tutta la densità di un desiderio che pone in essere un malinconico simulacro, senza poter mai giungere (per limiti intrinseci) alla pienezza di significato del matrimonio tradizionale, dove la complementarietà dei coniugi e la “naturale” espressione dei rapporti non possono essere facilmente messi in dubbio (se non in virtù di funambolismi logici ed emozionali) ed escono vincitori da qualsiasi confronto.

Queste riflessioni dovrebbero contribuire a ridurre in modo importante gli allarmismi che risuonano da più parti della Chiesa cattolica, circa gli effetti negativi che le unioni tra persone dello stesso sesso potrebbero avere sulla società e sulla nozione stessa di matrimonio. La Chiesa cattolica dovrebbe essere consapevole che se meno del 2% della popolazione nuziale riesce a scardinare il sistema sociale e il paradigma matrimoniale tradizionale vuol dire che il problema risiede nel restante 98%, che in questo caso appare così fragile e incoerente da far dubitare del buon esito di secoli di formazione cristiana delle famiglie.

In effetti il lento declino della nuzialità (vedi in Italia, fonte ISTAT), l’emorragia di matrimoni-sacramento con l’aumento dei matrimoni solo civili che ormai superano il 42% (in Italia, fonte ISTAT) mostrano che l’interesse verso il matrimonio-sacramento conosce una profonda battuta di arresto, indipendentemente dal configurarsi di nuove forme di unione.

Devono far riflettere i massicci numeri di separazioni e divorzi tra matrimoni tradizionali come anche di richieste di nullità matrimoniale canonica, i quali, per quanto in calo negli ultimi anni (in Italia, fonte ISTAT), sono un chiaro indizio di criticità umane e religiose le quali attendono ancora risposte di carattere pastorale.

Non torno più sull’argomento, se non per ribadire quanto da me sostenuto: tutto ci dice che è necessario da parte della Chiesa cattolica ripensare globalmente il suo approccio alla formazione dei credenti al sacramento del matrimonio.

C’è un limite alla rivendicazione di diritti, presunti o reali?

Ma i numeri e l’esperienza degli ultimi (almeno) dieci anni offrono un’indicazione anche intorno alla riflessione sulle unioni tra persone dello stesso sesso. La disincantata lettura dell’evoluzione storica dei movimenti di liberazione omosessuale con la loro esplicita rivendicazione del riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali deve far comprendere che i fenomeni attuali fanno parte di un percorso inevitabile. Occorre prendere atto da parte di tutti, in primis da parte della Chiesa cattolica, che le sofferenze e a volte le autentiche violente persecuzioni delle persone omosessuali nel mondo (a causa di leggi ingiuste spesso molto repressive, come anche a causa di un malizioso stigma sociale) sono la prima ragione dell’urlata, variopinta, accesa pretesa di rispetto del diritto alla non discriminazione e alla felicità.

In questo senso occorre pure comprendere che l’avversione alla Chiesa cattolica da parte dei movimenti di liberazione omosessuale non sempre appare ingiustificata, se un’istituzione che dovrebbe farsi paladina dei deboli e degli oppressi non è riuscita a spendere una parola autorevole al fine di far cessare discriminazioni e persecuzioni. Con un parallelismo per certi versi non appropriato, si deve osservare che mentre sono tanti nella Chiesa cattolica a lottare per l’abolizione della pena di morte, alla quale di norma vengono condannate persone che si sono macchiate di crimini orrendi, allo stesso tempo non si sentono che flebili voci in difesa di persone omosessuali che la legislazione di varie nazioni del mondo opprime in modo tale da mettere a repentaglio la loro stessa sopravvivenza. La Chiesa cattolica non può sottrarsi alla responsabilità di difendere la persona umana, chiunque essa sia, soprattutto la più debole e marginalizzata. La colpa di Caino è grande, ma non tanto da impedire che Dio stesso lo difenda (cfr Gn 4,13): “Nessuno tocchi Caino“.

Naturalmente la rivendicazione dei diritti porta con sé valutazioni di carattere molto ampio, impossibili da sviluppare nel presente contesto. Infatti si dovrebbe determinare se i diritti reclamati sono diritti di carattere universale, connaturali alla persona umana, inalienabili e non opponibili da un ordinamento positivo. Oppure se invece si tratti di diritti di carattere legale, che nascono cioè a seguito di un contratto sociale e di una norma con forza di legge. I primi ovviamente indiscutibili, i secondi – per quanto importanti – soggetti come ogni altra cosa ad un libero dibattito e a possibili limitazioni.

Se in linea teorica si potrebbe dire che non esiste un limite alla rivendicazione dei (propri) diritti, tuttavia si deve riconoscere che la rivendicazione di un diritto può mascherare una forma di egoismo, soprattutto quando assume i contorni del capriccio e della volubilità. Solo per fare un esempio, il diritto alla felicità (non codificato né codificabile e forse nemmeno annoverabile tra quelli universali) quando assunto con responsabilità, come ogni altro diritto, fa sorgere degli obblighi sia di carattere morale che di carattere giuridico. Tra i primi quello di assicurare alle persone con le quali ci si pone in relazione e i membri della propria comunità sociale un diritto analogo. Ma in tali obblighi è inscritto anche lo spirito di sacrificio e di abnegazione, la capacità umana di farsi carico delle proprie difficoltà e di condividere quelle degli altri, il senso di rinuncia e di compromesso per un bene superiore. Senza ripensamenti né recriminazioni.

I movimenti di liberazione omosessuale dovranno trovare di certo un equilibrio tra la propria rivendicazione di diritti (per evitare che diventi “ubriacatura di rivendicazioni”) e il giusto riconoscimento dei diritti fondamentali i quali, in modo urgente e non negoziabile, si devono applicare anche alle persone omosessuali.

Un passaggio diverso ma non secondario, inserito proprio nel quadro della rivendicazione dei diritti (reali o presunti), riguarda la genitorialità all’interno delle coppie dello stesso sesso, la cosiddetta “omogenitorialità” (OdPL 2013, pp. 281-289). La domanda se una persona omosessuale può essere un buon genitore rischia di apparire priva di senso. Di fatto esistono già genitori omosessuali o con tendenze omosessuali (bisessualità); è noto che anche all’interno di matrimoni tradizionali (uomo-donna) si sono verificati casi di omosessualità/bisessualità conclamati (qualche anno fa fece scalpore la notizia di un noto politico laziale sposato e con figli ricattato per le sue frequentazioni con transessuali). Non pare che nei casi conosciuti tali tendenze abbiano rappresentato un handicap alla genitorialità.

Del resto pure sotto il profilo teologico bisogna ammettere che il peccato (qualsiasi peccato), per quanto ferisca gravemente la persona umana, non è in grado di annullare in modo completo né la somiglianza con Dio né quei doni (anche di natura) con i quali il Creatore ha voluto abbellire la creatura affinché attraverso di loro essa potesse crescere e perfezionarsi. Tra questi la genitorialità. Storia umana ed esperienza ci insegnano che tra i genitori la stragrande maggioranza dei quali è eterosessuale molti hanno dimostrato di riuscire a sostenere il loro compito (e non solo biologico) pur trovandosi in oggettive difficoltà morali. Come d’altra parte bisogna prendere atto che molti genitori, per mancanza di equilibrio psichico, per ignoranza grave o per errori di valutazione e comportamento, sono stati la causa di veri e propri traumi dei figli.

Le principali obiezioni all’omogenitorialità nelle unioni tra persone dello stesso sesso

Le obiezioni principali alla genitorialità nelle unioni tra persone dello stesso sesso non si trovano pertanto sul piano della omogenitorialità; piuttosto occorre fare alcune considerazioni relative al bene superiore dei figli. Il criterio ispiratore non potrà che essere quello di sempre: la difesa del soggetto più debole, il bene fondamentale della vita nascente.

Anzitutto è necessario puntualizzare che in una coppia dello stesso sesso il concepimento della vita non potrà seguire da un atto umano. Si dovrà obbligatoriamente ricorrere ad un atto di sofisticata tecnologia medica: procurandosi almeno uno dei due gameti da un soggetto donatore esterno alla coppia, attraverso la procreazione assistita si procederà all’impianto nell’utero di una donna che non necessariamente deve essere la madre genetica dell’embrione (cosiddetto “utero in affitto”). Ci troviamo in un capitolo affatto nuovo, che apre ad imprevedibili risvolti di ordine umano e morale ma anche giuridico di fronte ai quali l’impreparazione e il ritardo delle legislazioni rischia di creare drammi ulteriori. Il problema del destino degli embrioni sovrannumerari non è ancora definito e resta un grave vulnus dell’intera procedura sanitaria. Ma la questione principale è la violazione del diritto del nascituro per via della separazione artificiale della genitorialità biologica dalla genitorialità affettiva. Ad ogni persona umana deve essere garantito il diritto a non moltiplicare in modo arbitrario e insensato le figure parentali di riferimento, ma in particolare a conoscere e ad amare quanti attraverso la gratuita e amorevole disponibilità del loro patrimonio genetico le hanno permesso di vedere la luce. La riduzione dell’atto del concepimento ad una mera tecnica sanitaria (tecnica che non sarebbe un male in sè) produce una situazione di intrinseco conflitto in quanto spinge a orientarsi moralmente verso un bene inferiore (genitorialità per mezzo di tecniche mediche) pur potendo scegliere un bene superiore (genitorialità per mezzo di atti umani).

Non esiste – almeno a mia conoscenza – un “diritto ad avere figli comunque”, né universale né legale. Esiste il diritto al matrimonio e alla protezione della famiglia (Dichiarazione Universale dei Diritti Umani art. 16) come esiste il diritto delle madri e dei bambini ad essere protetti (DUDU art. 25). Ai minori di 18 anni, poi, la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza riconosce particolare favore: l’interesse del minore deve considerarsi preminente (art. 3); i bambini hanno diritto a crescere con i loro genitori (art. 7) e di vivere insieme a loro (art. 9); gli Stati devono proteggere i bambini da ogni forma di violenza, anche quella dei genitori (art. 19); ai bambini deve essere assicurato uno stile di vita sufficientemente buono (art. 27); gli Stati devono proteggere i bambini da qualsiasi forma di sfruttamento (art. 36).

La genitoralità, pur essendo un sentimento apprezzabile ma non un diritto riconosciuto e forse riconoscibile, non può prescindere dal tenere presenti le impegnative esigenze del bene superiore del bambino e dell’adolescente. Nello specifico l’omogenitorialità non pare possa assicurare il rispetto del diritto del bambino a vivere con i propri genitori (atteso che il concepimento avvenga con il ricorso a tecniche di fecondazione assistita di tipo eterologo), mentre potrebbe configurarsi come “violenza” nei suoi confronti il privarlo di una figura di riferimento paterna o materna a seconda dei casi; è ancora dibattuto quanto possa considerarsi buono lo stile di vita di un bambino inserito in un nucleo umano dove siano presenti solo persone dello stesso sesso; ed infine occorre intraprendere un’attenta valutazione (dalla quale non sono escluse le famiglie tradizionali) affinché nessun nucleo umano “sfrutti” la propria genitorialità per fini diversi dalla gratuità di un dono di vita. Il desiderio di una coppia omosessuale a voler vivere felici con un figlio non può compiersi a scapito del desiderio del figlio (ancorché presunto o presumibile) a voler vivere felice con i propri genitori naturali che siano per lui padre e madre.

Riassunto
Non pare plausibile, dai dati in possesso oggi, la tesi della Chiesa cattolica secondo cui dall’istituzione delle unioni tra persone dello stesso sesso possa derivare un danno all’istituto del matrimonio e alla società stessa. In realtà matrimonio e famiglia di ispirazione cristiana soffrono già da molto tempo di una crisi alla quale urge dare risposte pastorali sicuramente attraverso la revisione dei modelli di formazione cristiana. Nel rivendicare i propri diritti fondamentali le persone omosessuali dovrebbero trovare al loro fianco la Chiesa cattolica. Tuttavia occorre rifuggire dall’ubriacatura delle rivendicazioni, per assumere un atteggiamento responsabile e obbiettivo, in particolar modo per la difesa dell’infanzia e dell’adolescenza. In questo senso appare ancora non sufficientemente sicuro che l’unione tra le persone dello stesso sesso sia la garanzia che un eventuale figlio possa godere del rispetto di tutti i diritti del bambino.