(Tutti) casti sì, (tutti) continenti no

È comparso un documentato articoletto di Enrico Cattaneo dedicato al celibato dei preti sul sito La Nuova Bussola Quotidiana.

L’autore ripercorre la storia del sacramento dell’ordine in relazione alla prassi celibataria, giungendo fino alle più recenti disposizioni canoniche. Le conclusioni a cui perviene sono in larga parte patrimonio della tradizione della Chiesa. L’ordinazione di uno sposato nel rito romano (latino) attualmente viene considerata illecita. In principio la scelta dei candidati avveniva anche tra gli sposati, ma ben presto si cominciò a chiedere che gli stessi sposati osservassero la “continenza” perfetta, fino al punto di doversi astenere dai rapporti con la propria moglie e perfino dalla coabitazione.

Cattaneo giunge ad affermare che “in definitiva, dal punto di vista della Chiesa antica, il problema non era se ordinare persone sposate o celibi, ma come vivere autenticamente la castità sacerdotale“. Egli quindi assimila – “di fatto” – la “legge (ecclesiastica) del celibato” alla “legge della continenza” e sostiene che quest’ultima si possa anche definire “castità” quale virtù.

La tesi finale è che la “legge della continenza”, fatta risalire ad una volontà apostolica e incarnata dal Signore Gesù, sia la via migliore per l’esercizio del ministero ordinato in quanto “radicale” scelta di sequela.

Alcune precisazioni

L’articoletto mi pare molto utile per approfondire l’argomento. In primo luogo vorrei fare alcune precisazioni.

Nessuna indicazione normativa

L’assimiliazione tra “celibato” e “continenza”, proposta dal testo, è – ovviamente – frutto di una riflessione storica successiva alla prassi. In effetti all’inizio dell’esperienza ecclesiale si poteva attingere a fondamenti teologici ripensando all’esempio del Signore circa il celibato e alle sue stesse parole sugli eunuchi per il regno dei cieli (cfr Mt 19,12) circa la continenza perfetta. Tuttavia era chiaro allora, e ancor più oggi alla luce di una serena critica teologica, che nulla di normativo viene mai espresso e recepito riguardo la prassi dell’esercizio dell’ordine sacro fuori o dentro al matrimonio fondandosi sui citati esempi e testi. Nel panorama storico della chiesa nascente la scelta di condurre una vita “stoica” in alternativa ad uno stile “epicureo”, di proporre un “sacerdozio santo” in opposizione ad un “sacerdozio gaudente”, di sacralizzare il matrimonio che laicamente era inteso quale mero contratto; tutti questi elementi non potevano che contribuire a disegnare un ordine sacro con contorni ben precisi di distacco, astensione dal mondo, rifiuto del piacere.

La castità difende l’amore. Di tutti

Lo stesso articoletto propone l’uguaglianza tra “continenza” e “castità”, laddove per continenza si intende l’astensione dai rapporti sessuali; tale pretesa identificazione però non mi pare più sostenibile alla luce dello sviluppo della teologia spirituale. La castità, infatti, ha assunto sempre più i contorni di una virtù globale della persona umana abbandonando quelli che un tempo erano gli angusti confini dell’esercizio della genitalità entro i quali era stata costretta. In tal modo è stato possibile persino pregare per l'”unione casta e feconda degli sposi” in relazione alla generazione dei figli (cfr II Prefazio del Matrimonio), astraendo così dall’aspetto più squisitamente sessuale senza per questo sublimarlo né disincarnarlo ed esaltando la castità come “virtù che difende l’amore”.

Alcune considerazioni

In secondo luogo mi sembra che si possa completare il pensiero dell’autore con alcune considerazioni, sia di carattere storico che di carattere teologico.

Il faticoso cammino di comprensione dell’ordine sacro

L’autore infatti non può dimenticare che il percorso di definizione e comprensione del sacramento dell’ordine è stato il frutto di un faticoso e a volte contrastato cammino ecclesiale. Solo per citare due esempi, ricordiamo l’istituzione dei diaconi a seguito di un incidente interno alla prima comunità apostolica (cfr At 6,1-6) e la difficoltà di Luca e Paolo di distinguere correttamente tra episcopo e presbitero (cfr gli “anziani” di Efeso posti da Dio come “vescovi” At 20,17.28). Per quanto la tripartizione del sacramento in diacono – presbitero – vescovo sia già presente alla fine dell’epoca apostolica, solo negli anni (secoli) successivi si arriverà ad averne un compiuto pensiero. Vale la pena osservare qui che le denominazioni dei membri dell’ordine sacro ancora oggi in uso vennero prese in prestito dal greco della vita sociale dell’epoca. Il “diacono” era il servo tout court, il “presbitero” era l’anziano amministratore locale e il “vescovo” era il funzionario sovrintendente. Anche con questa scelta si mostrava il chiaro segno della chiesa esordiente di volersi distinguere dall’abitudine consolidata sia tra gli ebrei che tra i gentili di “sacralizzare” il ruolo e la figura del “sacerdote”, sottolineando maggiormente le funzioni di ri-presentazione, quindi “sacramentali”, degli uomini chiamati a svolgere un ruolo da ministri ordinati nella comunità cristiana.

La “fuga mundi“, il diavolo e il piacere

L’altro grande momento di maturazione nella vita della chiesa rispetto al sacramento dell’ordine sacro si manifesta con l’apparire di quella che oggi viene chiamata “vita consacrata”. Si tratta cioè di una condizione di vita orientata da uno speciale obiettivo (il “carisma”) verso il conseguimento della perfezione evangelica (povertà, castità, obbedienza) nella vita presente, quale anticipazione della condizione umana nella vita futura. In altri termini sul finire del IV secolo e con la conclusione del periodo delle persecuzioni, gradualmente si andò affermando la ricerca di uno stile di santità favorito dall'”uscita dal mondo” (fuga mundi), considerato peccaminoso e alieno da Dio, rifiutando ogni compromesso con il piacere, compreso quello sessuale, visto addirittura quale tentazione demoniaca.

Una ponderata riflessione sul piacere dovrebbe ormai essere chiara anche nella Chiesa, che non considera più il piacere in se stesso un elemento negativo. Il piacere infatti si ricollega direttamente all’atto creativo di Dio, il quale ha circondato di piacere tutte le attività umane, spirituali o materiali, indispensabili per il bene e il perfezionamento della creatura umana, attività che però per la loro ripetitività (per esempio mangiare), per l’impegno richiesto (per esempio apprendere-studiare) o per la necessità di relazionarsi con altri (per esempio l’atto sessuale) senza il piacere sarebbero risultate noiose, faticose, sgradevoli e senza appeal. E quindi per essere realizzate avrebbero richiesto un sacrificio che non tutti e non sempre ci si sarebbe sentiti spinti a compiere. Di converso (e per inciso), come per qualsiasi altra cosa quando se ne perde di vista la finalità, ricercare il piacere per se stesso provoca inevitabilmente un danno, di carattere sia fisico che morale e spirituale.

Dignità del matrimonio e castità

Con tutto ciò forse non è completo affermare che “dal punto di vista della Chiesa antica, il problema non era se ordinare persone sposate o celibi, ma come vivere autenticamente la castità sacerdotale“, come fa Cattaneo. Il problema fu invece come arrivare a concepire un “sacerdozio” tipicamente cristiano e a coordinarlo con i diversi stati di vita, matrimoniale e consacrato. La tendenza più forte fu quella che vedeva nel matrimonio (considerato “remedium concupiscentiae“, rimedio della concupiscenza) una condizione di seconda fila, una concessione alla debolezza umana, una necessità della natura; mentre alla consacrazione povera, casta e obbediente venne attribuito pacificamente il modello più vicino a Cristo e alla salvezza, la “parte migliore” evangelica (cfr Lc 10,42). Quasi che si volesse (e si potesse) assomigliare al Signore più abbracciando la povertà, la castità e l’obbedienza e meno coltivando l’amore coniugale, fondando una famiglia, servendo la vita nascente (e morente). E dimenticando la grande differenza che esiste tra “consacrazione” e “sacramento” (richiamare la differenza non costituisce pregiudizio di alcuna realtà teologica).

Papa Gregorio VII, XII sec. (Anonimo - Weltgeschichte - Eine Chronik, ISBN 3-88703-814-2)

Papa Gregorio VII, XII sec. (Anonimo – Weltgeschichte – Eine Chronik, ISBN 3-88703-814-2)

Un monaco impone il celibato ai preti

La vittoria definitiva del modello sacerdotale celibatario in occidente si afferma grazie all’incisivo intervento di un papa, Gregorio VII. Come molti suoi predecessori Ildebrando Aldobrandeschi di Sovana era monaco. Semplicemente monaco, in un’epoca in cui era considerato più “santo” chi si chiudeva in monastero rispetto a chi viveva nel mondo. Infatti, eletto papa con il nome di Gregorio a furor di popolo il 22 aprile 1073, divenne prete solo il 22 maggio e vescovo il 30 giugno dello stesso anno. La sua mentalità da monaco permeò l’intero ministero petrino e lo portò ad azioni molto forti verso quei vescovi che permettevano l’ordinazione degli sposati fino al punto di sciogliere dalla loro obbedienza e di privare del sostentamento i preti sposati.

Non sfugge però a nessun attento osservatore che l’intenzione di Gregorio VII fosse quella di “monacizzare” l’intero clero, forse travalicando il suo stesso scopo, sicuramente mancando di rispetto alla molteplicità delle vocazioni che lo Spirito suscita nella Chiesa. Il suo intervento finiva per riflettere la mentalità, ancora oggi presente nelle chiese che hanno conservato il sacerdozio uxorato, secondo cui i preti “secolari” (oggi si dicono “diocesani”) sposati fossero in fondo preti di “serie B”. Pur trattandosi di una lodevole iniziativa, volta a “moralizzare” il sempre esuberante clero “secolare” (“diocesano”), tuttavia quella di Gregorio VII appare non priva di contraddizioni. Infatti, come è noto compito dei pastori è quello di armonizzare le vocazioni, non di spadroneggiare sul gregge mortificandone la vitalità.

Per un approccio corretto, facciamo chiarezza

Probabilmente al giorno d’oggi la riflessione è abbastanza matura per superare incomprensioni, contraddizioni, oscurità che possiamo aver incontrato nel breve spazio di questo articolo e in definitiva  concludere che:

  • è insostenibile la visione di un “mondo” (saeculum) negativo e anti-Dio dal quale fuggire per essere santi
  • non esiste nessuna opposizione e incompatibilità tra sacramenti (per esempio matrimonio e ordine sacro)
  • il sacramento del matrimonio ha una sua dignità inalienabile e non è una banale concessione
  • il sacramento dell’ordine sacro, costituito storicamente al servizio della comunità cristiana, ha meno valore “clericale” e più valore “secolare”
  • la vocazione del “sacerdote diocesano” e quella del “sacerdote religioso”, pur nell’unità del ministero ordinato, sono diverse nella loro intima natura
  • il celibato ecclesiastico è un dono per la Chiesa, non meno del sacerdozio uxorato
  • la virtù della castità ha valore per ogni persona umana in quanto tale e non privilegia la continenza o il celibato

Dunque va bene, facciamo chiarezza.

Castità? Sì, per celibi e nubili, per mariti e mogli, per giovani e vecchi, per preti e laici.

Continenza (e celibato)? Solo per coloro che vi sono chiamati in vista del regno dei cieli.