Digital Priest: l’evoluzione della specie

Prevedere il futuro, per quanto eserciti sempre un fascino irresistibile, non si può. Al massimo si possono fare ipotesi su come, date certe condizioni, ci si possano attendere certi risultati. A volte per vedere oltre il presente occorre rivolgersi al passato.

25 anni or sono…

Se ripenso al mondo di 25 anni fa (primi anni ’90), quando divenni prete, non posso non sorprendermi di come sia evoluto, addirittura al di là di ogni previsione possibile. Lo ricordavo nel mio intervento durante la celebrazione dell’anniversario:

Internet non esisteva; il primo sito www punto qualcosa viene messo online il 6 agosto 1991. Ma era da solo…
La tecnologia non era cosa tanto diffusa… MediaWorld per esempio apre in Italia il 24 ottobre 1991.
I centri commerciali… se si escludono i mercati di Traiano, il primo centro commerciale a Roma è stato aperto solo nel 1988, esiste ancora, è Cinecittà2.
I telefonini… i telefonini stavano appena appena apparendo, erano una cosa d’élite. Pensare che gli appuntamenti si prendevano ancora con il fisso e raramente si mancavano… ci si fidanzava e ci si lasciava guardandosi in viso, mica per sms… e talvolta penso a come faceva la gente a guidare la macchina, senza poter parlare tenendo il cellulare all’orecchio o senza poter scrivere messaggi lasciando il volante… eravamo pazzi, allora…

 

Il ciclostile del prete che mi ha battezzato

Ancor più evidente diventa il salto generazionale se consideriamo che io sono nato agli inizi degli anni ’60. Per il prete che mi ha battezzato (e che non poteva sapere che avrei seguito le sue orme…) i touch screen e la rete satellitare GSM erano pura fantascienza. Né lui avrebbe saputo cosa farsene per la pastorale. A quel prete era sufficiente saper usare il ciclostile (sapete cos’è? Io l’ho usato, era divertente!) per diffondere il suo giornalino parrocchiale cartaceo e nulla immaginava di siti internet e di fotocopiatrici. Quando voleva inviare un documento, quel prete doveva scrivere una lettera, imbustarla, acquistare un francobollo, infilare il tutto in una buca postale e attendere… Altro che email.

Giovani preti nella modernità

I giovani che oggi diventano preti (intorno ai 25 anni) sono quelli che potrei aver battezzato io. Qualche tempo fa andai ad una ordinazione sacerdotale in Vaticano (quella della pic, io sono lì nelle file dei preti che si vedono sullo sfondo) e mentre attendevamo l’inizio della celebrazione mi impressionai del fatto che preti molto giovani fossero perfettamente a loro agio con i paramenti indossati e il cellulare o il tablet in mano a chattare e scattare selfie a pochi metri dall’altare della Confessione.

Ad un giovane di 25 anni appare del tutto naturale scambiarsi messaggi istantanei attraverso internet, acquisire immagini e riversarle nella rete, rendere partecipi delle proprie emozioni le persone che non sono presenti qui ed ora. La crescita disordinata di internet e il ritardo accumulato nei sistemi scolastici, seminari compresi, (mai dimenticare la fisiologica inerzia dovuta alla senescenza degli educatori) intorno ad una educazione alla digitalità forse non hanno aiutato lo spirito critico della generazione di mezzo, quella posta tra noi vecchi – sorpresi, entusiasti ma impreparati di fronte a tanta improvvisa novità – e i nativi digitali, i millenials che sono permeati di tecnologia integrata indissolubilmente e stabilmente nelle loro relazioni e nella loro vita.

Salvator Dalì – Mulini a vento

Come sostiene il caro professore Piero Dominici, “il futuro sta nelle mani di chi saprà unire la dimensione umanistica con la tecnologia” (qui l’intervista) e ancora di più si fa viva la necessità di ripensare l’educazione (#digitale) per la Società Ipercomplessa (qui l’articolo):

I “vecchi” confini tra formazione scientifica e formazione umanistica sono di fatto completamente saltati, in conseguenza delle straordinarie scoperte scientifiche e delle continue accelerazioni indotte dall’innovazione tecnologica che rendono ancor più ineludibile l’urgenza di un’educazione/formazione alla complessità e al pensiero critico (logica). Tuttavia, le resistenze ad un cambiamento così radicale di prospettiva (modelli, pratiche e strumenti) sono fortissime, arrivano soprattutto dai “luoghi” ove si produce e si elabora conoscenza e sono legate a motivazioni di diversa natura: logiche dominanti, modello sociale feudale, questione culturale, primato della politica in tutte le dimensioni, familismo amorale, culture organizzative, climi d’opinione etc. Fondamentalmente, soprattutto perché, come affermato in tempi non sospetti, in qualsiasi campo della prassi individuale e collettiva, innovare significa mettere in discussione saperi e pratiche consolidate, immaginari individuali e collettivi, rompere equilibri, spezzare le catene della tradizione, abbandonare il certo per l’incerto con rischi (opportunità), anche percepiti, notevolmente superiori. In altre parole, rendere, almeno temporaneamente, più vulnerabili i sistemi e lo spazio comunicativo e relazionale che li caratterizza. Una questione strategica e decisiva per il complesso processo di costruzione, sociale e culturale, della Persona e del cittadino e, quindi, dello spazio pubblico, che riveste un ruolo di fondamentale importanza anche in considerazione del costante e rapido mutamento del contesto, locale e globale, di riferimento (Società Ipercomplessa)

E aggiungerei a questa citazione dal pensiero suggestivo e sfidante: questione strategica per il complesso processo di costruzione ecclesiale della persona, del cristiano, del prete.

Digital Priest

Cosa accadrà con la prossima generazione di preti rispetto alle nuove tecnologie? Cosa si può prevedere riguardo ai digital priest, quei preti della generazione che per prima avrà completato la transizione verso un mondo informatizzato, robotizzato, iperconnesso? In che modo dobbiamo attenderci sapranno servirsi degli strumenti a loro disposizione per la missione che devono compiere (indimenticabile la chiesa televisiva di Chuck & Nora, coniugi protestanti che negli anni ’80 riempivano gli schermi di mezza Italia sfruttando le timide aperture delle cosiddette televisioni private)?

Un primo scoglio da affrontare sarà quello di una formazione seminaristica che cerchi di perpetuare un modello presbiterale rivolto al passato. In questo senso le parole provocatorie di Alberto Melloni che in un suo recente articolo annuncia la fine (un po’ prematuramente, invero…) di un “grande ciclo: quello del prete” vanno accolte come invito al superamento di un modello stantio e inefficiente di prete, che Melloni identifica forse troppo frettolosamente con il modello tridentino (in realtà la spiritualità del prete moderno si conforma maggiormente al modello vagheggiato da Pierre de Bérulle, allacciato alla tradizione che passando per la visione monacale del sacerdozio stabilita da Gregorio VII si spinge a ritroso fino all’esperienza comunitaria inaugurata da Sant’Agostino; Trento affrontò la natura teologica del sacerdozio e cercò di disciplinare e correggere, dando vita ad una visione piuttosto legalistica e ipostatizzata dell’ordine sacro, sulla spinta del e ispirando il modello sacerdotale dell’alter Christus). Superare – val bene ricordarlo – non significa escludere ma inglobare, non vuol dire relativizzare ma rendere tutto utile in vista del traguardo successivo.

Un secondo scoglio da affrontare riguarderà invece il rapporto tra il prete e la comunità cristiana. Ha ancora senso un modello formativo dove la comunità cristiana, quella reale fatta di uomini e donne, giovani e anziani, laici e religiosi, non abbia nulla da dire in prima persona sui giovani che intendono diventare preti ma “deleghi” semplicemente strutture professionali create allo scopo? La stessa vocazione è davvero solo una voce interiore o non è anche la chiesa-comunità che sceglie e invia i suoi figli per una missione?

Tablet e sacramenti

Dentro questa cornice il digital priest, il prete dell’era digitale, sarà un giovane che come tutti i suoi coetanei e contemporanei avrà esperienza di totale immersione nella connessione globale. Sarà un prete che, a dispetto dell’attuale valutazione della CEI, non avrà timore ad utilizzare un tablet al posto del messale e del lezionario (qui), perché troverà più ragionevole e meno oneroso evitare di moltiplicare libri cartacei rendendosi molto più libero di seguire inevitabili aggiornamenti ed integrazioni.

Meno campane, più app

Il digital priest suonerà meno le campane e utilizzerà più le app per raggiungere tutti i suoi parrocchiani, ovunque essi siano, in modo diretto e riservato per ricordare impegni e appuntamenti o farsi presente nei momenti più delicati della loro vita o essere presto disponibile quando si rendesse necessario.

Predicazione sui tetti di internet

Il digital priest saprà utilizzare social e network per la catechesi e la formazione, per il counseling, per la replica di omelie e meditazioni. Sarà un web influencer credibile, dotato di autenticità e capacità di digital storytelling. La sua predicazione del vangelo non sarà mai un fatto abitudinario e privo di appeal ma raggiungerà il cuore di un gran numero di persone grazie al click-to-click.

Semplificazione del lavoro pastorale

La connessione dei digital priest tra di loro, con teleconferenze e scambio di documenti e materiali, non solo favorirà il lavoro pastorale, ma potrà semplificare procedure amministrative (si pensi alla digitalizzazione degli archivi parrocchiali con possibilità di consultazioni online), diminuire tempi di attesa e diffondere in modo rapido e sistematico il lavoro comune, stimolare confronto pastorale, collaborazione, stima reciproca.

Soluzioni alla digital addiction

Il digital priest sarà anche molto consapevole dei rischi legati ad una società iperconessa e agli effetti della dipendenza da internet (digital addiction) su di sé e sulle altre persone. Perciò avrà le cybercompetenze sufficienti per strutturare programmi digital free, adattati sul modello dell’esperienza monastica e della fuga mundi, in cui offrire tempi e spazi di rigenerazione umana e spirituale.

L’errore più grande che si potrebbe commettere in questo momento storico da parte della comunità ecclesiale sarebbe di non comprendere che su questo terreno si gioca non solo il futuro dell’essere preti per i prossimi cento anni, ma anche quello dell’essere chiesa nel futuro. Si è chiuso un ciclo per i preti, è vero, ora la Chiesa deve rapidamente ridisegnare l’attrezzatura spirituale e disciplinare per rispondere alle mutate esigenze del nuovo millennio.