Sotto il segno di abele

Articolo apparso su Vivere in Sintonia, Gennaio-Febbraio-Marzo 1996, Anno X – n. 1

Il 24 marzo viene proposta a tutti i credenti una giornata di preghiera e di digiuno ricordando i missionari uccisi nel corso del loro servizio. Non penso che tale momento sia ispirato a sentimenti di autocelebrazione di una chiesa dinamica e quasi intrepida nel pericolo apostolico, o a rigurgiti di vittimismo nei confronti di un mondo che non ci accetta. Né penso che i richiami alla esemplarità e le spinte all’emulazione possano rappresentare un motivo sufficiente per ricordare i nostri fratelli caduti.

Questa giornata di preghiera sollecita anche altre considerazioni. Amore e violenza convivono sotto lo stesso cielo, spesso nelle stesse persone. I carnefici dei nostri fratelli avranno pur amato qualcuno. Rimane perciò ancora più misterioso il motivo per cui, nonostante questo, essi siano arrivati a compiere un gesto tra i più sbalorditivi, il gesto di Caino. Cosa spinge un uomo a sopprimere il debole, l’innocente, l’indifeso? Per Caino poteva trattarsi di invidia, tra l’altro di un genere abbastanza inedito, l’invidia per Dio. La morte di Gesù di Nazareth richiede di ipotizzare motivi diversi: paura (Erode), opportunismo (il Sommo Sacerdote), menzogna (i falsi testimoni, ma a che pro?), indifferenza (Pilato), irrazionalità (la folla), denaro (Giuda).

La morte violenta di questi ed altri innocenti credo custodisca un grande segreto. In una certa misura è lei a lasciar presagire un’esistenza imprigionata entro gli angusti confini di un segmento di tempo abbastanza ristretto, smaniosa esistenza, insoddisfatta, amareggiata dalla consapevolezza della fine certa, impaurita da tutto ciò che potrebbe configurarsi come pericolo.

L’uomo si ribella naturalmente ad una tale catastrofe. Ogni uomo, di fronte alla morte, anche la più naturale, si sente un debole, un innocente, un indifeso ingiustamente defraudato di un suo diritto e decide la ribellione. La rivolta dell’umanità contro la sua caducità è segno di grande carattere. Il gesto di Caino, in questa prospettiva, assume i contorni di un gesto salvifico: Caino, con la morte del fratello, intendeva riappropriarsi di uno spazio vitale e di una qualità di rapporto che avvertiva in dissoluzione. Caino ha cercato di salvare se stesso. Questo è il segno di Caino.

Un proverbio abbastanza conosciuto ha canonizzato tale atteggiamento: mors tua, vita mea, la tua morte è la mia vita. Tutti i carnefici di ogni luogo hanno deliberatamente o inconsapevolmente applicato alle situazioni contingenti il principio lì espresso. Anche i martiri conoscono questo principio. La differenza sostanziale tra il carnefice e il martire è che il martire dice lo stesso principio con una diversa espressione, e finisce per dettare un principio nuovo: mors mea, vita tua, la mia morte è la tua vita. I martiri hanno donato la morte per riscattare la vita dei loro fratelli.

Ecco allora configurarsi tra le nebbie di un quesito irrisolto (perchè il fratello uccide il debole?) il disegno divino del riscatto e della ribellione alla caducità. Anche Dio è un ribelle. Anche Dio non riesce ad accettare il rovinoso compromesso della vita con il flusso del tempo limitato e limitante. La rivolta di Dio produce un effetto fondamentale per l’uomo: Dio iscrive la vita nell’orizzonte della sua eternità, la morte cessa di avere il carattere di confine invalicabile, all’uomo non è più impedito lo spazio vitale di cui si sente espropriato con la morte. L’uomo non è più costretto a vivere a spese del fratello, dal momento in cui Dio si è fatto carico di aprire ai suoi figli il varco verso l’immortalità. Questo, i martiri, l’hanno compreso. Cristo, incarnazione della ribellione di Dio, ha donato la sua morte perchè la nostra vita straripasse dentro la vita divina. La morte sua è ancora oggi la vita nostra. La salvezza dell’uomo, questo i missionari uccisi l’hanno compreso bene, non risiede nella sua capacità di conquistarsela, ma nell’incontro con qualcuno desideroso di donargliela. Questo è il segno di Abele.

Se celebriamo qualcosa il 24 marzo, celebriamo la festa dell’incontro di migliaia di persone con uomini e donne capaci di donare vita, e vita eternamente. Celebriamo il disegno redentivo di Dio nel quale la vita ha senso perché la morte ha senso. Celebriamo uomini e donne generati sotto il segno di Abele: capaci di guardare negli occhi il fratello consapevoli che solo loro possono donargli qualcosa, la salvezza da una esistenza soffocante. Celebriamo, in certo modo, la pasqua dell’uomo.
Forse non tutti giungeremo davanti alla violenza omicida di altri uomini, ma certamente tutti e soprattutto i giovani dovremo chiederci sotto quale segno riposa la nostra vita. O il segno dell’autodifesa, o il segno della premura redentiva. O Caino, o Abele. Ed essere pronto a dare la vita per i fratelli non s’improvvisa: o vivi per vivere, o vivi per far vivere. E da qualche parte del mondo qualcuno attende di conoscere una risposta.