Il prete in una chiesa in uscita

Ultimo aggiornamento: 13/04/2020 18:20

Il 9 aprile scorso si è tenuto un convegno presso la Pontificia Università Lateranense dal tema Il prete in una chiesa in uscita (website · mirror pdf). Non sono potuto andare, ma una sintesi delle relazioni e alcune registrazioni, che ho ascoltato, sono state caricate sul citato sito del Servizio per la Formazione Permanente del Clero (il “Servizio Permanente per la Formazione del Clero” che compare nei video è certamente un refuso, cfr qui).

Il titolo riprende l’espressione (chiesa in uscita) la quale – secondo la biografia proposta dalla rivista Catholica – venne coniata da padre Marie-Dominique Chenu nel 1937 in un’opera successivamente messa all’indice. Papa Francesco dedica al tema della chiesa in uscita un paragrafo dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (fonte).

Quindi il convegno intendeva concentrarsi sulla figura del prete nella chiesa in uscita ponendosi due domande: (1) che cosa lasciare e che cosa tenere di quello che si è ereditato dalla tradizione e (2) che cosa lasciare e che cosa tenere di quello che oggi il mondo offre.

Tante le suggestioni ricevute, ma mi soffermo – da non addetto ai lavori – su due soli punti, il primo dalla relazione di Asolan, il secondo da quella di Reali.

Asolan: la leadership del pastore

La tesi di Asolan è che si debba riformulare ruolo e identità del pastore a partire dalla leadership: “il pastore non sia più, o non più soltanto, un manager ma diventi leader… valorizzando il contributo dei suoi interlocutori, coinvolgendoli nelle decisioni, curando cioè l’empowerment” e vigilando ed eventualmente correggendo “il rischio di ridurre la sinodalità ad una semplice tecnica di governo o ad un modello puramente organizzativo della vita ecclesiale, nutrendola piuttosto dell’intreccio inscindibile tra cultura di comunione e strutture di partecipazione“. In passato ho sostenuto anch’io tesi simili, vagamente rintracciabili nel mio intervento del 1996 ad un Convegno di formatori a Guarcino, intervento orientato a ripensare drasticamente immagine e ruolo dei preti e della parrocchia, funzione degli “operatori pastorali” e qualità della pastorale stessa. Una strategia che tenga assieme la pretesa di essere leader e l’esigenza di agire in modo coordinato tra vari soggetti valorizzando le espressioni individuali si potrebbe sintetizzare alla latina con l’espressione simul et singulis, insieme e se stessi, che è pure il motto della Comédie-Française (website · mirror pdf).

 

Reali: prete credente

La tesi di Reali (buttando là una serie di spunti, di provocazioni sperando che possano essere utili) è che la contrapposizione tra mondo secolare (= non religioso) e mondo religioso (= non secolare) sia una falsa questione. La realtà è che nessun prete può sottrarsi al compito “di leggere i fenomeni culturali del mondo in cui vive ed è chiamato a svolgere il suo ministero”. Ma la lettura del mondo da parte del prete “deve essere da credente, teologica, nel senso che si interpreta a partire da Dio. Il punto di riferimento è Dio, la sua Parola, la sua azione“. Sul tema mi posi a suo tempo alcuni interrogativi relativi agli strumenti di cui dotare un prete per realizzare tale lettura, arrivando alla conclusione che ad un prete non potesse mancare l’apporto delle scienze umane, per consentirgli un adeguato confronto con la inevitabile secolarità della sua azione; così argomentai in un mio intervento davanti a Papa Giovanni Paolo II nel 1997. A distanza di qualche anno trovo quel mio pensiero un tentativo di soluzione all’incursione nel saeculum del prete in quanto credente grezzo e primitivo, forse appropriato ai tempi di allora ma non più completamente sostenibile oggi.

 

Quattro aspetti per un (ulteriore) dibattito

Non avendo partecipato al Convegno non posso sapere quale sia stato l’esito del dibattito. A mio modesto avviso su almeno quattro aspetti esistono però ancora ampi margini di discussione. Anzitutto la distinzione tra prete diocesano e prete religioso non andrebbe sottovalutata. Il Convegno ha messo in evidenza la figura di un prete dai contorni sfumati, con una identità in movimento (Palmieri), missionaria e paraclita (De Donatis), in cura d’anime (Reali), pastorale (Asolan), senza mai entrare davvero nella diversa attuazione storica della tradizione della Chiesa lungo i due filoni regolare-religioso e secolare-diocesano. In questo senso, e in secondo luogo, il tema della secolarità, in un mondo post secolarizzato (Reali), andrebbe considerato il terreno fertile sul quale il sacerdote diocesano gioca la sua identità e il suo ruolo nel terzo millennio cristiano. In tale tema non si potrà evitare di inserire il ruolo e la responsabilità della comunità, il popolo (Palmieri) da cui un prete viene preso e in mezzo a cui serve. Il deciso cambio di terminologia a cui assistiamo (con l’affermazione del termine “popolo” così caro al sudamericano Bergoglio, mentre a Roma prevaleva fino a non molti anni fa il termine “Chiesa”, cfr Libro del Sinodo) sembra rispondere maggiormente alla visione conciliare di Popolo di Dio: ciò da una parte facilita lo smarcamento dei meno convinti rispetto alle esperienze movimentiste del secolo scorso, dall’altra, con la lettura attenta del II capitolo della Lumen Gentium, apre però orizzonti straordinari in gran parte inesplorati (cfr la serie di catechesi sulla Lumen Gentium). In terzo luogo non si può più rinviare ancora per molto la partecipazione di uno sguardo femminile o almeno la riflessione sul ruolo della donna in rapporto al ministero ordinato e al suo esercizio. Infine sarà necessario pianificare uno slancio ecumenico del ministro ordinato non solo attraverso il confronto e l’arricchimento con testimonianze ed esperienze diverse, ma anche con l’esplorazione di modelli condivisi di pastoralità ecumenica dei diversi ministri ecclesiali.

Leadership del prete e suo confronto con il saeculum alla prova della storia

Se la questione di fondo, quindi, è – semplificando – (1) la pretesa del pastore di essere leader e l’esigenza di agire in modo coordinato tra vari soggetti valorizzando le espressioni individuali e (2) l’incursione nel saeculum del prete in quanto credente, non si può dire che in passato siano mancati esperimenti concreti che vale la pena ripercorrere rapidamente con qualche esempio per ricavarne – se possibile – dati utili al dibattito.

Il confronto con la secolarità del mondo ha dato vita in passato all’esperienza rudimentale e pionieristica dei preti operai, come don Nicolino Barra o don Antonino Ruffolo, esperienza più complessa e articolata nel primo caso, più silenziosa e umile nel secondo.

Il tentativo invece di far incrociare vita religiosa e sacerdote diocesano è stato messo in atto dalla Congregazione dei Figli dell’Amore Misericordioso (Colvalenza), la cui fondatrice volle si prendesse cura della loro solitudine e pensò di istituire una forma straordinaria di appartenenza all’istituto (sacerdote diocesano con voti).

Anche il tentativo di far convivere vocazioni diverse come quella laicale e quella sacerdotale ha conosciuto la sua stagione.

Sul fronte laicale ci hanno provato Focolarini (p.e. Movimento Gen’s), Comunione e Liberazione, gli stessi neocatecumenali (p.e. itineranza), per certi aspetti l’Azione Cattolica (legame con la gerarchia): nessun movimento o associazione si è mai potuto sottrarre all’evidente gap tra laici e sacerdoti, interpretando ciascuno a suo modo la relativa integrazione.

Sul fronte clericale nei Legionari di Cristo, da una parte, e nell’Opus Dei, dall’altra, si riconosce la risposta anticipatrice e visionaria all’esigenza di non perdere influenza sui laici, naturali esponenti del saeculum, e quindi attraverso di loro sul saeculum stesso, favorendo le relazioni tra le due diverse vocazioni in modo molto strutturato e verticistico. I Legionari di Cristo battono il terreno della leadership e del management pastorale assumendo un modello di sacerdote ben addestrato al confronto con la vita sociale e con il governo del laicato. L’Opus Dei radica la sua attività nel sodalizio quasi inscindibile tra potere religioso-clericale e potere secolare-laicale espresso a livello lavorativo, culturale, economico, politico, ecclesiale.

Ciascuna di tali esperienze e ciascuno di tali tentativi presentano positivi aspetti carismatici insieme ad ombre che si allungano e appesantiscono quanto più appare chiaro che l’azione pastorale privilegia benefici particolari del soggetto che la propone invece di mirare al bene comune della Chiesa e dell’umanità. Nonostante tutto, ogni esperienza e ogni tentativo citati possono avanzare la pretesa di farsi riconoscere come chiesa in uscita nella quale – simul et singulis – i pastori sono leader, agiscono in modo coordinato valorizzando le espressioni individuali e interpretano l’incursione nel saeculum del prete, diocesano o religioso, in quanto credente.

Lasciare, tenere. E adottare, no?

Con queste premesse ci si deve chiedere se si sta volgendo lo sguardo verso il futuro – e quindi muovendo passi verso l’ignoto in gran parte – o se invece si sta operando per sedimentare il presente rendendolo così inattaccabile e impermeabile alle trasformazioni.

In realtà mi pare che ci siano argomenti validi per l’una e per l’altra cosa. Tutto dipende da quel che si vuol raggiungere. La pecora perduta mettendo le 99 al sicuro o la difesa dell’esistente garantendo la sopravvivenza delle istituzioni.

Mia personalissima opinione è che l’accelerazione dei cambiamenti generazionali dovrebbe dar vita a modelli plastici di sacerdote, adattivi e resilienti, in grado di reinterpretare il proprio ruolo e la propria missione in relazione all’hic et nunc. I modelli anelastici, rigidi e opponenti, sono destinati ad essere sgretolati nel breve periodo e ad andare a ingrossare le fila dei nostalgici di una chiesa morta affetti da vittimismo e identificati nelle varie forme del mai abbastanza stigmatizzato tradizionalismo cattolico.

Per concludere, riguardo al sacerdote secolare voglio infine dare alcune risposte (poche) alle domande, cosa tenere e cosa lasciare, aggiungendone una terza che non è stata presa in considerazione: quali novità adottare.

Lasciare il paternalismo clericale. Sul paternalismo clericale ho scritto molto e non vorrei ripetermi. Rimando al mio post se si è curiosi. Altrimenti qui basti dire che autoritarismo, confusione dei fini e mortificazione di autonomia e di autodeterminazione non fanno per nulla bene alla chiesa.

Lasciare la ricerca di leadership. La chiesa è debole ogni qualvolta non intende rinnovarsi o fa solo finta di cambiare. Anche il tema dell’esercizio dell’autorità merita una rilettura in cui però il posto più rilevante sia occupato dal tema del servizio e del suo esercizio, secondo lo spirito evangelico che vuole che il primo si faccia servo di tutti. In effetti sarebbe persino auspicabile abbandonare una terminologia che evochi qualsivoglia riferimento al potere. Mentre sarebbe da far proprio il progetto pedagogico developing leadership through “serviceship”.

Tenere la secolarità. Il prete diocesano è connaturalmente secolare. Ne ho dialogato con il Paziente della 113, parlando di malattie spirituali. Il modello ottocentesco del prete, isolato su una torre d’avorio, piuttosto simile a un monaco, in teoria sembra superato. Ma nei fatti l’isolamento fisico, spaziale, ha ceduto il passo all’isolamento antropologico: il prete, asessuato, senza sentimenti, senza passioni, non ha bisogno di sporcarsi le mani che con gli affari di chiesa, è persino stipendiato per farlo, e fa comodo un po’ a tutti pensarlo angelicato. Una mal intesa religiosità (= non secolarità) è alla base di una mal intesa sacerdotalità (= individualismo comodo).

Adottare modelli di partnership. Sono sicuro che il prete del terzo millennio sarà principalmente un collaboratore della felicità dell’essere umano (cfr 2Cor 1,24), della fede, della speranza, dell’amore. Come Dio si è voluto rivelare quale partner dell’uomo standogli accanto e stringendo con lui un’alleanza (cfr mia catechesi su Lumen Gentium 9), così il prete del terzo millennio cristiano saprà essere partner di tutti: dai confratelli ai laici della propria comunità cristiana, dai credenti di altre confessioni agli atei, dalle associazioni ecclesiali a quelle civili. Essere nel saeculum, senza essere del saeculum, sviluppando l’abilità di lasciare che l’altro incontri Dio attraverso la propria partnership, discreta, umile, generosa.

Nota finale

Ho scritto buona parte di questo post nella cappellina della struttura in cui opero e mi ha fatto compagnia Federico, che intanto mi raccontava i suoi deliri e le sue allucinazioni.

Giunto al termine gli ho domandato cosa pensasse lui del tema che avevo affrontato, il prete in una chiesa in uscita, e ci desse il suo messaggio. Mi ha chiesto se il prete ero io, gli ho risposto che valeva in generale, per tutti i preti, non solo per me. Allora ha detto senza esitazioni:

Il vostro lavoro pastorale collima con tante zone architettoniche. Uscite fuori e incontrate il Signore.

Quindi ha concluso: “Va bene così?“. Sì, Federico, va bene così, molto bene.