16 apr 19 – Santità, conformazione a Cristo e sacramento di unità

Testo: Lumen Gentium 11

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Credo che siamo tutti consapevoli che i luoghi, gli spazi non siano tutti uguali. Questa chiesa è uno spazio sacro nel quale ci si ritrova per pregare, per accostarsi all’eucarestia, per ricevere il conforto della fede. Non è la stessa cosa dello spazio di una discoteca, ovviamente, dove si va per altre ragioni, legittime: ci si diverte, si balla, si ascolta musica. Non è nemmeno la stessa cosa di un ristorante, dove si va per mangiare e stare in compagnia allegramente. Gli spazi non sono tutti uguali.

E così non sono tutti uguali i tempi. Forse questo è meno evidente. Ma riflettendoci con attenzione possiamo renderci conto che i tempi presentano le stesse differenze degli spazi. Osserviamo le nostra età: il tempo della fanciullezza non è stato quello dell’adolescenza, come non è stato quello della maturità; anche all’interno di un breve periodo di tempo, per l’orologio non ci sono differenze tra ora e ora, ma per noi no: c’è l’ora di pregare, l’ora di mangiare, l’ora di lavorare.

Processione del Venerdì Santo, foto di archivio, Museo de Pasos de Bilbao

Questa settimana è un tempo santo. La chiamiamo settimana santa. Non è uguale a tutte le altre. Tutte le altre sono semplicemente settimane. Questa è una settimana santa perché in questa settimana c’è il cuore della nostra fede, custodito all’interno di questa settimana come in uno scrigno che gradualmente si apre e ci mostra i tesori della fede. Il tesoro principale è Cristo che muore e risuscita per noi. Questo tempo è davvero santo. Sappiamo bene che nella visione della Chiesa il Signore ha santificato tutto, e quindi tutto il tempo è santo. Ma approfittiamo della santità per antonomasia di questa settimana per restare un po’ contagiati dalla sua santità, per assomigliare al tempo nel quale Cristo nostra Pasqua è Risorto.

Nel richiamo alla somiglianza a Cristo Crocifisso e Risorto ci collochiamo ancora nel tema della Lumen Gentium; nel somigliare a Cristo Crocifisso e Risorto infatti portiamo a compimento la missione propria di tutta la Chiesa. La Chiesa ha la missione di proseguire, dilatare, estendere nel tempo e nello spazio i benefici di questa settimana santa. La Chiesa nel tempo e nello spazio dilata l’opera salvifica di Cristo.

Nella precedente catechesi abbiamo cercato di inquadrare la complessità del numero 11 chiarendo un fatto. Sia il Concilio Vaticano II che il Concilio di Trento rispondono ad una domanda ben precisa sui sacramenti della Chiesa. Il Concilio di Trento si chiede “Quanti e cosa sono i sacramenti?” e dà la risposta che conosciamo bene dal catechismo. Il Concilio Vaticano II guarda lo stesso argomento da un altro punto di vista e si chiede: “A cosa servono i sacramenti?”. La risposta finale la troviamo nel numero 11 della Lumen Gentium, contenuta all’interno di due parentesi.

Il paragrafo inizia affermando che il carattere sacro del popolo di Dio si riconosce nell’attuazione dei sacramenti e delle virtù. E conclude facendo il riferimento al fatto che muniti di così tanti strumenti di grazia diventiamo anche noi un po’ più santi. Anzi per la precisione aspiriamo ad una santità perfetta quanto quella di Dio. Non ci possiamo contentare di mezze misure. O diventiamo santi come Dio o rischiamo di perdere tempo. Per fortuna c’è Dio con la sua grazia a venirci in soccorso, da soli non ce la faremmo mai. Il riferimento alla santità è costante nei primi capitoli della Lumen Gentium, ma gli sarà dedicato estesamente un intero capitolo, il capitolo quinto. Non a caso, perché il tema della santità è il terreno cruciale sul quale si gioca la credibilità della Chiesa.

A questo punto abbiamo già una prima parte della risposta alla domanda “A cosa servono i sacramenti?”: servono a renderci un po’ più santi. E siccome il Figlio di Dio è il Santo, i sacramenti servono a farci assomigliare un pochino di più a Gesù, il Figlio di Dio, il Santo. Diventiamo più santi assomigliando a Gesù con la sua fede, con le sue opere, con quello che Gesù ha fatto, con quello che Gesù è stato. Si tratta forse di una identificazione di tipo psicologico? Ovvero ci sediamo e pensando a come Gesù si è comportato, cerchiamo di immedesimarci nelle sue intenzioni e nel suo modo di pensare, proponendoci di essere buoni come lui… sì, è anche questo, ma non basta. Si tratta allora di una conformazione di tipo morale? Ovvero, dal momento che Gesù è stato buono, misericordioso, ha perdonato, anche noi dobbiamo fare lo stesso, essere simile a lui nella bontà, nella misericordia, nel perdono… sì, ma non basta.

Non vorrei complicare le parole dei padri,  che sono abbastanza chiare e semplici. Ma riflettendo sulla santità come conformazione a Cristo mi torna alla mente un episodio della vita di Santa Teresa di Calcutta. Ho avuto la fortuna di conoscerla, di stringerle la mano, di parlare con lei. Lei mi disse una cosa, ero seminarista allora: “Dite ai vostri parroci di fare l’adorazione eucaristica”. Seguendo la sua indicazione, facevo fare l’adorazione eucaristica ai giovani della parrocchia una volta al mese. Sapete che la missione iniziale di Madre Teresa di Calcutta non era quella di soccorrere i poveri, ma i poveri più poveri. Tra le prime azioni della sua opera si trova l’assistenza a quelle persone che morivano abbandonate per strada, non importa se fossero cristiani o musulmani o indù. Soprattutto nella mentalità indù, poi, morire in modo rituale riveste una grande importanza perché così si può finalmente uscire fuori dal ciclo della reincarnazione e della sofferenza; il rito prevede la cremazione del corpo e la dispersione delle ceneri nel Gange. Insomma la credenza non era cristiana, ma Teresa la conosceva bene e aveva preso a cuore l’esperienza umana delle persone povere che morivano senza che nessuno si prendesse cura di loro. Perciò decide di raccogliere le persone povere moribonde, dare una dignità alla loro morte e dare il seguito alla loro volontà (cfr la casa Kalighat per i morenti poi chiamata Nirmal Hriday, casa dei puri di cuore, qui). Teresa viene a sapere che in una capanna ai margini della città viveva una persona lebbrosa che stava per morire, quindi si reca da lei con una consorella; essendo un lebbroso aveva anche enormi disagi fisici; inoltre si racconta che fosse arrabbiato, che urlasse e bestemmiasse. Madre Teresa senza scomporsi lo accudisce con la sua consorella, lo lava, ripulisce la capanna, gli porta da mangiare. E così per quei due o tre giorni in cui questa persona riesce a sopravvivere. Arrivato in punto di morte si dice che abbia rivolto queste parole a Madre Teresa: “Io non so se il tuo Dio esiste, ma se esiste deve avere il tuo volto” (qui brevissimo riferimento all’episodio in una versione leggermente diversa, nella sostanza uguale).

Leggenda di San Francesco: 15. predica agli uccelli, Giotto di Bondone (1297-1299), Basilica Superiore di S. Francesco, Assisi

Quando si parla di santità come conformazione a Cristo si intende esattamente questo, che attraverso il tuo volto si veda il volto di Cristo. Qualcosa di simile scrive San Francesco nella lettera al ministro dell’Ordine al quale dice: “Che non ci sia alcun frate al mondo, che abbia peccato, quanto è possibile peccare, che, dopo aver visto i tuoi occhi, non se ne torni via senza il tuo perdono, se egli lo chiede; e se non chiedesse perdono, chiedi tu a lui se vuole essere perdonato. E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attrarlo al Signore; ed abbi sempre misericordia per tali fratelli” (fonte).

Che abbia peccato quanto è possibile peccare”. Io non so quanto sia possibile peccare, ma l’obiettivo di Francesco è chiaramente il perdono: “dopo aver visto i tuoi occhi, non se ne torni via senza il tuo perdono”.

Questo è il volto di Dio. Questo è lo sguardo di Dio. La conformazione a Cristo ci rende santi perché ci rende come lui, in un certo senso indistinguibili. Chi vede te, vede Cristo. Chi vede Cristo vede il Padre.

In che modo può accadere questo? Attraverso i sacramenti. Il Concilio, dopo i sacramenti dell’iniziazione cristiana, presenta il sacramento della riconciliazione. Riconciliazione è parola che viene dal latino, conciliare significa riunire. Osserviamo che nel paragrafo il concetto di unità si trova tra le pieghe di molte espressioni: riconciliazione vuol dire riunificazione, rimettere insieme le cose; il matrimonio fa l’unità dei coniugi; è l’unità quella che fa l’eucaristia. Riecheggiano continuamente nella Lumen Gentium le parole che abbiamo ascoltate all’inizio: la Chiesa è sacramento di unità e i sacramenti realizzano questa ricerca forte di unità nell’unità con Dio e nell’unità tra le persone.

La riconciliazione viene vista da Lumen Gentium non solo sotto l’aspetto della riconciliazione con Dio, ma anche sotto l’aspetto della riconciliazione con la Chiesa, intesa come Popolo di Dio, perché – sostengono i padri – il peccato ha ferito non soltanto il nostro rapporto con Dio ma anche il nostro rapporto con la Chiesa. La quale però coopera alla riconciliazione del penitente, in latino adlaborat, cioè lavora per raggiungere un fine. La Chiesa lavora per la riconciliazione, il Popolo di Dio è un popolo che riconcilia di continuo, perché è un popolo che lavora per la riconciliazione. Lavora. Perciò se vogliamo capire come si fa a conformarsi a Cristo e come possono riconoscersi i cristiani, occorre assomigliare a Cristo che lavora per la riconciliazione, di continuo.

Quindi i padri conciliari aggiungono anche in che modo la Chiesa lavora: con la carità, l’esempio e la preghiera. Essendo prete io confesso pure. Un mio maestro di spiritualità mi diede un importante insegnamento in proposito; mi disse: “Come confessore quando dai una penitenza falla insieme al penitente, perché la chiesa che tu rappresenti in quel momento prega insieme con chi si sta riconciliando con lei, non è lasciato solo. La penitenza sacramentale non è un esercizio di umiliazione, come se il confessore dicesse: fammi sentire come preghi. No, è un «preghiamo insieme». E siccome devi pregare con il penitente, se gli dai una penitenza troppo grossa la devi fare pure te! Quindi, fai come faccio io, come penitenza dagli un’Ave Maria“. Come?!, risposi, un’Ave Maria solamente? “Sì, perché se uno non è pentito gli puoi dare pure tre rosari, non cambia niente. Ma se uno è veramente pentito, basta un’Ave Maria per entrare in Paradiso“.

Pregare insieme con il penitente! Questo fa la chiesa, che non abbandona mai nessuno, ancor meno quando una persona che ha sbagliato, che ha peccato quanto è possibile peccare, prova di nuovo ad unificare la propria vita, con Dio e con i fratelli. Semmai dobbiamo chiedere perdono noi come Chiesa per le occasioni in cui la comunità dei credenti si è dimostrata incapace di combattere il male e di perdonare, condannando tante persone innocenti nel triste girone della maldicenza e della calunnia.

Abbiamo ascoltato oggi per la seconda volta il numero 11 della Lumen Gentium e vorrei sapere da voi se i padri parlano di estrema unzione. Non mi dite di sì, perché altrimenti vi rimando a settembre! I padri non parlano di estrema unzione, parlano di unzione degli infermi. E il sacramento dell’unzione degli infermi non viene nemmeno citato nemmeno per ultimo; l’ultimo sacramento menzionato è il matrimonio, quella è davvero l’estrema unzione!

Manuel Bortuzzo e Beatrice Bebe Vio

L’unzione degli infermi esiste per ungere la sofferenza. Non c’è una persona che non conosca cosa sia la sofferenza. Per carità, io auguro sempre a tutti una vita lunga, felice, senza problemi, senza sofferenza; però sappiamo bene che è una specie di illusione consolatoria, la realtà è diversa, un pizzico di sofferenza, fosse pure una delusione di amore in gioventù o una piccola malattia, ce l’abbiamo avuta tutti. Non possiamo pensare, ragionevolmente, che nel futuro qualcosina non spetti pure a noi; perché agli altri dovrebbe accadere e a me no? Non c’è ragione. Spesso si sente dire il contrario: perché proprio a me? Ma non è vero, la domanda giusta è: perché a me no? E agli altri sì?

Anche nella sofferenza c’è spazio per riconoscere la santità di Cristo. Quando la sofferenza viene unta, torniamo all’unzione cristica. Assomigliamo a Cristo nella sofferenza quando quella sofferenza non è una maledizione, non è maledetta, non è una sofferenza che fa rinnegare Dio e la vita, ma è una sofferenza che ha un’unzione, ha un significato, ha una promessa dentro di sé. Non dimentichiamo che tutti siamo nati nella sofferenza. Sicuramente la sofferenza di nostra madre; le nostre madri ci ricorderanno fino alla nausea le ore di travaglio per metterci al mondo. Tutti siamo nati così. Esiste anche la sofferenza del bambino di essere espulso e distaccato violentemente dalla madre, quel momento nessuno lo ricorda, ma è stato un momento traumatico, nascere è un trauma. Eppure una sofferenza che sembra tanto grande, di una madre che mette al mondo un figlio e di un figlio che deve cominciare a vivere da solo, però è vita. Ha una sua unzione. Altrimenti avremmo chiuso da tempo, nessuno nascerebbe più se non avesse questa unzione di vita. Dentro la sofferenza c’è un’unzione di vita che i padri conciliari identificano così: contribuire al bene del Popolo di Dio. A volte i malati e gli infermi si domandano cosa possono fare per il bene della Chiesa. “Sono immobilizzato su di un letto”. Ungi questa sofferenza, dice la Chiesa. “Sono diventato anziano, non riesco più nemmeno a badare a me stesso”. Ungi questa sofferenza, dice la Chiesa. Falla diventare il bene del Popolo di Dio. La sofferenza è il parto di una nuova vita. Come si fa a riconoscere sul volto del cristiano il volto di Cristo? Quando unge la sua sofferenza, quando l’infermità non è maledizione ma è promessa di vita nuova.

Tralascio di commentare il sacramento dell’ordine sacro; vi torneremo quando, nel prossimo capitolo terzo della Lumen Gentium, affronteremo la costituzione gerarchica della Chiesa. I padri conciliari infatti hanno voluto dedicare a questo argomento un intero capitolo, lì sarà possibile tornare sul tema dell’ordine sacro.

Fermiamoci invece sul sacramento del matrimonio. Il breve testo proposto dalla Lumen Gentium 11 non è proprio lineare. I padri conciliari stanno cercando di coniugare visione tradizionale del matrimonio con le esigenze di una migliore comprensione alla luce del modello di Chiesa Popolo di Dio. Il matrimonio è un bel sacramento. Faccio la preparazione dei fidanzati al matrimonio sempre più raramente e celebro sempre meno matrimoni, anche perché l’ultima coppia che si è rivolta a me li ho quasi scoraggiati… Il sacramento del matrimonio è un sacramento serio e domando: perché volete sposarvi in Chiesa? “Perché sono credente“, dice lei. E tu, lui, perché ti vuoi sposare in Chiesa? “Perché voglio fare un piacere a lei, io non sono credente né praticante“. Bé, figli miei fermatevi un momento, cerchiamo di capire, non è tanto logico sposarsi in Chiesa perché tu fai un favore a lei alla quale piace il matrimonio con il vestito bianco… insomma, cerchiamo di capirci… non mi hanno più chiamato… fa parte della vita.

I padri conciliari stanno cercando di superare la visione tradizionale del matrimonio secondo cui il fine è solo quello procreativo. L’atto sessuale era visto come cosa negativa, così il matrimonio si proponeva quale rimedio della concupiscenza; i figli erano l’unico aspetto positivo per cui il matrimonio veniva giustificato. Non è così. Quella visione era una semplificazione medievale, con eco provenienti da un’antropologia meno elaborata rispetto a quella odierna. I padri conciliari innovano questa visione. Non escludono il discorso dei figli, ma affermano che l’amore dei due coniugi mostra l’unità di Cristo con la Chiesa, concetto di matrice paolina molto più aderente alla rivelazione di Dio. Con tali premesse si ritrova pure il valore primordiale della famiglia. Il sacramento del matrimonio non ha banalmente la finalizzazione di porre rimedio al peccato, ma è il costruire la famiglia umana.

Il tema della famiglia umana è molto caro al Concilio Vaticano II e viene affrontato nel documento Gaudium et Spes. Su questo argomento sappiamo come nei tempi recenti si stia deteriorando la discussione. Sembra quasi di assistere alla contrapposizione di modelli diversi di famiglia. Noi cristiani riconosciamo come voluto da Dio il modello di famiglia che nasce dal sacramento del matrimonio. Però mi piace pensare che trovandosi in presenza di valori umani Dio non mostri disprezzo verso nessun modello di famiglia. È quanto mi sono sempre sentito di rispondere a coloro che alla mia domanda: perché ti sposi in Chiesa? hanno risposto: “Per avere la benedizione di Dio“. Sì, avere la benedizione di Dio è una cosa bella. Ma il contrario non è plausibile, cioè che chi non si sposa in Chiesa non venga benedetto da Dio o sia addirittura maledetto. Dovremmo aspettarci che due indù sposati con riti indù – sono spettacolari – dal momento che non sono sposati in Chiesa non siano nemmeno guardati da Dio? E che Dio sarebbe questo? Ogni valore tipicamente e fortemente umano è benedetto da Dio. La Chiesa, sacramento di unità, non è autorizzata a mettere in contrapposizione modelli diversi di matrimonio e di famiglia.

In ambito cristiano possediamo un modello di famiglia, originata dal sacramento del matrimonio, il quale serve per assomigliare di più a Cristo. Non si tratta di confrontare modelli, uno meno bello, l’altro più bello, uno meno buono, l’altro più buono. Si tratta invece di saper usare bene lo strumento immenso attraverso cui Dio consente all’uomo e alla donna di assomigliare di più a suo Figlio Gesù unito alla Chiesa. E i figli? Si sarebbe tentati di dire che col matrimonio cristiano si mettono al mondo nuovi cristiani. Il Concilio non è di questo avviso, ma afferma che dal matrimonio cristiano origina la famiglia da cui “nascono nuovi cittadini della società umana“. È il primo passo. La Chiesa del Concilio non ha davanti a sé un’umanità fatta a pezzi, qui i buoni, là i cattivi, qui i cristiani, là gli indù. Ha davanti a sé l’umanità, perché la Chiesa è sacramento di unità anche dell’umanità. La Chiesa non può fare a pezzi l’umanità. Perciò il Concilio afferma che dal matrimonio cristiano come sacramento non vengono prodotti cristianucci che poi crescono, ma nascono uomini e donne cittadini della società umana. I quali successivamente, con il sacramento del battesimo, diventeranno anche cristiani.

Ringraziamo il signore per tutte le meraviglie che apprezziamo conoscendole attraverso la Lumen Gentium. Andando via da questo luogo, da questo spazio portiamo con noi anche l’augurio di una felice Pasqua per tutti. Il Signore risorto rechi nuova vita dentro di noi e nei nostri quotidiani rapporti umani. Amen