Ferite d’amore, ovvero la riconciliazione con Dio

Il presente post rappresenta il testo del primo dei due interventi in occasione del ritiro della Parrocchia S. Gregorio VII (Roma) del 9 marzo 2019 dal titolo: “Riconciliarsi con Dio e tra noi. «Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1Cor 2,1-5)”.


 

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Rivolgo subito un pensiero grato al vostro Parroco, padre Saul, e al caro amico Paolo che mi hanno chiesto di condividere con voi questa tappa del cammino della vostra comunità San Gregorio VII. Conosco la vostra Parrocchia da vari anni essendo stato viceparroco della vicina Parrocchia dei Santi Protomartiri Romani tra il 1997 e il 2000 e avendo avuto la grazia di predicare alla vostra comunità gli Esercizi Spirituali nel 2011.

Per completare la piccola presentazione, sono prete del clero di Roma dal 1991 ed attualmente svolgo il servizio di Cappellano presso la Struttura Residenziale Psichiatrica “Samadi”. Nel presentarmi amo aggiungere: felice Cappellano, in quanto il dono del servizio che sto svolgendo rappresenta il tesoro forse più prezioso del mio ministero.

In questo ritiro mi è stato chiesto di sviluppare un tema relativo alla riconciliazione: “Riconciliarsi con Dio e tra noi. «Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1Cor 2,1-5)”. Come è noto, il tema fa parte di un più ampio programma diocesano che sta coinvolgendo tutte le realtà romane nel percorso apertosi nel 2017 con il confronto sulle malattie spirituali, proseguito nel 2018 con il rimedio della memoria, oggi giunto al passaggio della riconciliazione e che successivamente a Pasqua 2019 confluirà nell’ascolto della Città.

La premessa è che io non conosco abbastanza la vostra comunità e le vostre persone per rivolgervi parole più appropriate di quelle che ho preparato. C’è da dire che almeno da 15 anni non ho più un contatto approfondito con la pastorale delle Parrocchie. Il rischio, quindi, è che quanto vi dirò possa apparire poco pertinente o troppo astratto. Faccio appello alla vostra benevolenza e vi chiedo di accogliere i miei due contributi come il frutto della preghiera e dell’esperienza personali che metto al vostro servizio; dunque potete farne quanto meglio credete, anche non ritenerli utili affatto. La grazia del Signore farà il resto e ricompenserà ugualmente tutti noi per lo sforzo sincero di voler camminare alla sua presenza.

Il primo intervento prevede di sviluppare la riconciliazione con Dio. Dividerò il primo intervento in tre parti. Nella prima cerco di approfondire il significato della riconciliazione, nella seconda vi annuncio e vi presento il mistero pasquale di Cristo, nella terza tento di tracciare un percorso di riconciliazione con Dio. Come potete vedere dal foglio che vi è stato distribuito, ci accompagneranno tre immagini e altrettanti esercizi per la riflessione affidata a ciascuno di noi, durante la preghiera, ma anche nei prossimi giorni. Il testo del mio intervento attuale, come quello dell’intervento del pomeriggio, saranno disponibili e scaricabili dal mio blog personale all’indirizzo che trovate sullo stesso foglio fin dal termine dei due interventi.

Il significato della riconciliazione. I due modelli

Partiamo dall’esplorazione del significato di riconciliazione. Il termine viene dal latino, lingua nella quale il verbo conciliare significava propriamente riunire. Poi il significato si è arricchito di sfumature: rendere amico qualcuno, cattivare il favore di qualcuno. Vi propongo di confrontarci con due diversi modelli di riconciliazione. L’immagine di questo confronto potrebbe essere quella di un bivio. Il bivio implica una scelta e alla fine della presentazione vi suggerirò anche un esercizio da fare.

Il primo modello di riconciliazione è il modello ciceroniano. Cicerone, nella sua opera De officiis afferma qualcosa che ha attinenza con la riconciliazione. Nel libro II,16 il retore romano sostiene che l’uomo possa recare agli altri uomini il maggior bene come il maggior male e perciò nel libro II,17 afferma: “Dal momento che questo punto non lascia sussistere alcun motivo di dubbio che gli uomini aiutino, ma anche ostacolino moltissimo gli altri uomini, ritengo proprietà della virtù conciliare gli animi degli uomini e trarli ai propri vantaggi”. In altre parole Cicerone ci sta dicendo che esercitare la virtus (la qualità dell’uomo, del vir, che manifesta il suo valore con azioni nobili e degne di lode che da sole bastano a dare la felicità) unisce gli uomini intorno ad un obiettivo comune e li porta ad ottenere un bene condiviso, quindi a superare le divisioni e a “conciliarsi” tra loro.

La ri-conciliazione, sotto questa prospettiva, si presenta come la conseguenza di un atteggiamento morale della persona che pone rimedio ad un evento di frattura tra gli uomini, i quali si possono aiutare ma anche ostacolare moltissimo tra di loro. Vi faccio osservare che Cicerone non pare molto interessato ai sentimenti che sono messi in gioco nei processi di conciliazione e di riconciliazione. Secondo lui il mancato esercizio della virtus, fonte della frattura tra gli uomini, è uno svantaggio per tutti, al di là dei sentimenti di frustrazione, di rabbia, di rivalsa, di sofferenza che richiederebbero conciliazione e riconciliazione.

Il secondo modello di riconciliazione è il modello paolino. Sul terreno neotestamentario infatti è San Paolo, un centinaio di anni dopo Cicerone, a fare della riconciliazione il suo cavallo di battaglia nell’esprimere l’opera realizzata da Cristo. Il brano principe, in questo senso, proviene da 2Cor 5,17-21

Se uno è in Cristo è una creatura nuova… Tutto questo però viene da Dio che ci ha riconciliati a sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione.

In nome di Cristo siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.

Come è facile osservare, San Paolo è ben lontano dal perseguire il volontarismo ciceroniano della virtus. Alla litigiosa comunità di Corinto San Paolo non propone come rimedio di unità azioni nobili e degne di lode, ma l’invito a prendere in considerazione la riconciliazione con Dio, il quale non imputa agli uomini le loro colpe, anzi (con un’immagine ardita) permette che il Figlio sia trattato come un male da estirpare, così da travasare la sua santità (giustizia) in ciascuno di loro. Nel pensiero paolino l’attore principale è Dio. Fa tutto lui: rende creature nuove in Cristo, riconcilia a sé in Cristo, non imputa agli uomini le loro colpe, tratta Cristo da peccato in nostro favore, fa diventare gli uomini giustizia di Dio. All’uomo è richiesto solo di “lasciarsi” riconciliare con lui. Con San Paolo avvertiamo il calore dell’invito, anzi della supplica. A differenza dell’algido Cicerone, San Paolo vuole entrare nei sentimenti dei Corinzi. Tutta la lettera trasuda sentimenti ed emozioni. Davanti a Dio e alla sua opera di salvezza in Cristo si avvertono l’ammirazione e lo sbalordimento dell’Apostolo, spinti fin quasi all’estasi, alla mancanza di parole.

Ora vi chiedo di riflettere su questa domanda: di che riconciliazione siete? Proviamo a rispondere alla domanda come davanti a un bivio, per proseguire occorre prendere una delle due strade. In passato cosa avete fatto? Avete mai preso la strada della (ri)conciliazione ciceroniana, quella che in considerazione dei vantaggi derivanti dall’esercizio della virtus, fossero pure vantaggi spirituali come la conversione o il premio del Paradiso, si nutre di azioni nobili, anche un po’ fredde ma che già da sole sono sufficienti a garantire la felicità? Dove vi ha portato? Oppure avete mai scelto la strada della riconciliazione paolina, quella che in ginocchio non chiede altro che di lasciarsi accogliere, preceduta e accompagnata da tutti i doni di grazia (gratuità) possibili e immaginabili? E dove siete arrivati?

Avete scelto la strada della riconciliazione dei virtuosi o la strada della riconciliazione dei peccatori? Non è di secondaria importanza la scelta della strada di riconciliazione, potremmo chiamarlo metodo di riconciliazione. Ciascun metodo implica una mentalità di fondo, uno stile di vita e obiettivi da raggiungere. San Paolo certamente ci spingerebbe ad abbracciare il metodo della riconciliazione dei peccatori. In effetti proprio questo cerca di scrivere ai Corinzi riguardo alla redenzione di Cristo.

Il Crocifisso Risorto e le ferite di amore

È il momento quindi di passare all’annuncio e alla presentazione del mistero pasquale di Cristo. Fa parte esattamente del tema che mi avete assegnato: “Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso”. L’immagine di questa seconda parte è l’olio. Comprenderemo meglio il motivo di questa immagine dopo aver parlato del mistero pasquale di Cristo.

Cosa spinge San Paolo a scrivere nella sua prima lettera ai Corinzi che la sua unica certezza è la conoscenza di Cristo crocifisso? Non sappiamo esattamente i motivi, ma possiamo farcene un’idea dal contesto dell’espressione, facendo un po’ di tara del linguaggio a volte iperbolico a volte retorico di Paolo.

L’Apostolo si rammarica di alcune divisioni interne alla comunità di Corinto, segnalategli da persone a lui vicine, che evidentemente se ne erano lamentate con lui. Paolo si smarca dalle varie fazioni ricordando che il suo mandato, ricevuto direttamente da Cristo, era rappresentato dalla predicazione del vangelo e non dall’amministrazione dei sacramenti. Ed è su questo punto che la sua vena retorica gli fa agganciare il rifiuto della sapienza e dell’intelligenza a beneficio della stoltezza e della debolezza di Dio, che si è manifestata in Cristo Gesù “il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto, chi si vanta si vanti nel Signore” (1Cor 1,30-31).

Quindi Paolo riprende il racconto della sua esperienza tra i Corinzi, ai quali sostiene di essersi presentato per annunciare il mistero di Dio con debolezza, con timore e trepidazione, rifiutando l’eccellenza della parola o della sapienza. È in questo contesto che egli fa notare di non sapere altro se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. Il rifiuto della sapienza (sofia) – ricordiamoci che i Corinzi erano pur sempre greci – si fondava sulla scelta di basare la predicazione sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza. Sappiamo da altre fonti che ai tempi della predicazione apostolica spesso lo Spirito si presentava in forma sensibile e che le conversioni avvenivano numerose e irrefrenabili.

Dunque San Paolo sembra spinto verso l’unica certezza della conoscenza di Cristo crocifisso sia a causa del suo rapporto del tutto speciale con lui, che lo ha inviato a predicare, sia per una scelta metodologica, preferendo il Pneuma alla sofia, lasciando che a convincere i Corinzi fosse lo Spirito Santo e non la sua riconosciuta abilità oratoria. In effetti Paolo non rinuncia affatto ai discorsi persuasivi ma vuol in realtà dirottare l’attenzione dei suoi ascoltatori verso il nodo centrale della sua predicazione. Quasi a dire: voi Corinzi vi vantate di appartenere all’una o all’altra scuola teologica, dove sperate di seguire il predicatore più illuminato o il pensatore più sapiente, ma così vi perdete l’unico vero vanto, cioè la santificazione e la redenzione in Cristo.

Per Paolo il mistero di Dio si compie nel mistero pasquale di Cristo: attraverso la croce, con tutto il suo significato simbolico di sofferenza, espiazione, sacrificio, fino alla risurrezione, con tutto il suo significato simbolico di rinascita, ri-creazione, vita nuova, Dio ha voluto riconciliare a sé gli uomini, cancellando il male che avevano compiuto e trasformandolo in ferite di amore. Ovviamente non c’è nulla di misterioso in Dio e nel Crocifisso Risorto, e se un tempo poteva esserci qualcosa di incomprensibile adesso non è più così. Oggi è lo Spirito Santo a incidere nel cuore degli uomini quelle ferite di amore ben rappresentate dalle piaghe del Crocifisso Risorto. Lo Spirito Santo, come un’unzione che tutto permea e in profondità lenisce la sofferenza, mette l’uomo di fronte al Dio che non condanna ma costantemente, pazientemente, ritrova – attraverso perdono e redenzione – le vie per continuare ad amare l’uomo e a farsi amare da lui.

L’immagine dell’olio si spiega così. Riuscite a sentire come il balsamo dell’amore di Dio guarisce interiormente la nostra umanità ferita dal peccato? Il peccato incattivisce (rende schiavi, captivi), rende tutto più amaro e sofferto, dentro di noi e nei nostri rapporti con Dio e con gli altri. Riuscite a percepire la ferita di amore che siamo ciascuno di noi per Dio, che vuol liberarci dal peccato, dal male che ci incattivisce, ci amareggia e ci fa soffrire? Vi siete mai lasciati ungere dallo Spirito Santo, che porta a contatto delle nostre piaghe l’amore lenitivo di Dio? San Paolo sa che ciò che guarisce l’uomo non sono i discorsi sapienti, quelli servono per nutrire una fede solida, matura, non per guarire dal male. La riconciliazione con Dio si attua solo a partire dall’unzione dello Spirito Santo, che avvolge la creatura e porta nella profondità del nostro cuore la forza riparatrice delle ferite di amore di Dio.

Quante unzioni abbiamo ricevuto nella nostra vita! Siamo stati unti con i sacramenti, ma siamo stati unti anche dai nostri genitori, dai nostri coniugi, dai nostri figli. Ci hanno unto con la loro vita, ci siamo lasciati penetrare un po’ dalla loro umanità, e questo ha prodotto in noi ferite e gioie. Ci hanno unto amici e fratelli nella fede, ci hanno unto nemici e persecutori, tutti ci hanno unto con le loro azioni, hanno provocato la nostra reazione, a volte sofferta a volte riconoscente. In questo esercizio vi propongo di ritornare con la memoria alle unzioni del passato. Quale delle tante unzioni ricevute vi ha salvato, vi ha redento, vi ha reso cristi? Quale tra le tante unzioni ha prodotto in voi le ferite di amore, le stesse del Crocifisso Risorto? Saremo cristi (unti) solo se – come Cristo – saremo crocifissi-risorti.

Riconciliati sul serio con Dio

Nell’ultima parte vorrei parlarvi della riconciliazione con Dio. Ci accompagnerà l’immagine del mandorlo fiorito. Si tratta di una bellissima immagine usata dal profeta Geremia per ricordare al suo popolo che, come il mandorlo vigila-veglia sulle stagioni e fiorendo precocemente avverte l’imminenza della primavera, così Dio vigila-veglia sulla sua parola, per portarla a compimento al tempo debito (Ger 1,11-12). E in un certo senso anche Geremia, il profeta, è chiamato a vigilare sulla Parola di Dio, a interpretare i segni dei tempi, a compiere gesti che la rendessero sacramento, cioè segno efficace, in mezzo agli uomini.

Geremia, discendente di una famiglia sacerdotale decaduta, sapeva bene che il fiore di mandorlo costituiva anche uno degli elementi decorativi del candelabro d’oro a sette braccia posto davanti all’Arca dell’Alleanza che Mosè descrive nel libro dell’Esodo, prima in visione poi realizzato dagli artigiani: “Farai anche un candelabro d’oro puro. Il candelabro sarà lavorato a martello, il suo fusto e i suoi bracci; i suoi calici, i suoi bulbi e le sue corolle saranno tutti di un pezzo. Sei bracci usciranno dai suoi lati: tre bracci del candelabro da un lato e tre bracci del candelabro dall’altro lato. Vi saranno su di un braccio tre calici in forma di fiore di mandorlo, con bulbo e corolla e così anche sull’altro braccio tre calici in forma di fiore di mandorlo, con bulbo e corolla. Così sarà per i sei bracci che usciranno dal candelabro. Il fusto del candelabro avrà quattro calici in forma di fiore di mandorlo, con i loro bulbi e le loro corolle: un bulbo sotto i due bracci che si dipartano da esso e un bulbo sotto gli altri due bracci e un bulbo sotto i due altri bracci che si dipartano da esso; così per tutti i sei bracci che escono dal candelabro.” (Es 25,31-35; 37,17-22).

Secondo la tradizione ebraica, la presenza di elementi decorativi tratti dalla natura evoca il giardino dell’Eden, dove Dio passeggiava alla brezza del giorno ed era in piena comunione con l’uomo, almeno fino alla caduta originale (Gen 3,8). Ma allo stesso tempo il profeta Zaccaria (cap. 4) vede nei sette bracci del candelabro d’oro “gli occhi del Signore che scrutano tutta la terra” (v. 10). È interessante leggere già in Zaccaria parole simili a quelle che San Paolo scrive ai Corinzi: “Non con la potenza né con la forza, ma con il mio spirito, dice il Signore degli eserciti” (v. 6) Zorobabele ricostruisce il tempio di Gerusalemme al ritorno dall’Esilio babilonese, inaugurando così l’avvento del regno di Dio e il pronto arrivo del Messia.

L’immagine del mandorlo in fiore ci rinvia, dunque, al senso escatologico della vigilanza. Sappiamo che nel parlare della Chiesa il Concilio Vaticano II ha dedicato un intero capitolo, il VII, alla sua indole escatologica:

Il Cristo, quando fu levato in alto da terra, attirò tutti a sé (cfr. Gv 12,32 gr.); risorgendo dai morti (cfr. Rm 6,9) immise negli apostoli il suo Spirito vivificatore, e per mezzo di lui costituì il suo corpo, che è la Chiesa, quale sacramento universale della salvezza; assiso alla destra del Padre, opera continuamente nel mondo per condurre gli uomini alla Chiesa e attraverso di essa congiungerli più strettamente a sé e renderli partecipi della sua vita gloriosa col nutrimento del proprio corpo e del proprio sangue. Quindi la nuova condizione promessa e sperata è già incominciata con Cristo; l’invio dello Spirito Santo le ha dato il suo slancio e per mezzo di lui essa continua nella Chiesa, nella quale siamo dalla fede istruiti anche sul senso della nostra vita temporale, mentre portiamo a termine, nella speranza dei beni futuri, l’opera a noi affidata nel mondo dal Padre e attuiamo così la nostra salvezza (cfr. Fil 2,12) (LG 48).

A volte ci lambicchiamo alla ricerca delle soluzioni ai nostri problemi e trascuriamo il fatto di averle sottomano. “Riconciliamoci con Dio”, si dice. Ma, se pensiamo al peccato, noi siamo già riconciliati con Dio in Cristo, non dobbiamo fare nulla di più per attirarci il suo favore. Eppure San Paolo supplica i Corinzi: “Lasciatevi riconciliare con Dio”. Possibile che i Corinzi non abbiano preso sul serio la riconciliazione con Dio? O avevano travisato il significato di riconciliazione? Le parole di San Paolo sembrano la supplica di chi, davanti agli occhi, ha un popolo di ri-conciliati sempre uniti a Dio, come Cristo; in confidenza con lui nel giardino dell’Eden, come Adamo; vigilanti sulla sua Parola, come Geremia; portando a termine l’opera a noi affidata dal Padre, come Zorobabele.

Qualsiasi predicatore potrà indicarvi tutte le qualità della ri-conciliazione con Dio, io vorrei soffermarmi su queste quattro. E proporvele come esercizi di revisione di vita per una effettiva riconciliazione con Dio.

  1. Unione con Dio: come in Gesù Cristo la volontà umana aveva abbracciato completamente quella divina, così l’unione con Dio significa non riservare per sé nulla ma alimentare i propri desideri della santità di Dio. Per esempio, abbiamo rinunciato davvero a tutte le superstizioni e ai giudizi superficiali sulla Chiesa, in politica… per distinguerci come sale del mondo?
  2. Confidenza con Dio: Adamo, prima della caduta, non temeva di restare nudo davanti a Dio ed entrambi vivevano nello stesso spazio. Essere in confidenza con Dio vuol dire condividere la propria vita con lui, conoscerlo e incontrarlo negli spazi quotidiani che occupiamo. Per esempio, abbiamo superato un rapporto devozionale e rituale con la religione per entrare in continuo dialogo con l’umanità di cui siamo parte, con lo straniero, con il non credente…?
  3. Vigilanza sulla Parola di Dio: Geremia si era lasciato scrutare da Dio (Ger 17,10) e come profeta aveva imparato a riconoscere i segni dei tempi. Vigilare sulla Parola di Dio non vuol dire semplicemente studiarla e saperla citare, ma soprattutto porsi in ascolto di Dio che parla nella storia. La nostra comunità cristiana, per esempio, è davvero comunità profetica, capace di annuncio credibile e di coraggio nel rinnovamento delle prassi e delle strutture?
  4. Compimento dell’opera affidata da Dio: Zorobabele ricostruisce il tempio di Gerusalemme, noi siamo chiamati a costruire e ricostruire continuamente la Chiesa come popolo di Dio che prolunga nel tempo e nello spazio l’opera salvifica di Cristo. Esistiamo per questo, il nostro fallimento sarebbe ripiegarci sulla nostra autocontemplazione. La nostra comunità cristiana, per esempio, ha chiaro il suo compito missionario, che non è banalmente un compito di proselitismo?

Riconciliarsi con Dio, che ci ha riconciliati a sé in Cristo non imputando a noi le nostre colpe, si esprime in azioni concrete frutto di una profonda convinzione interiore, che coinvolge seriamente il modello di testimonianza della fede da noi abbracciato.