Tre Papi, omelie a confronto

La presenza nella Diocesi di Roma di diverse strutture destinate alla formazione dei sacerdoti (i cosiddetti “seminari”) ha creato per diverso tempo alcuni paradossi. I seminaristi del Pontificio Seminario Romano Maggiore venivano ordinati tutti insieme, ma in una data diversa da quelli degli Oblati della Madonna del Divino Amore, che peraltro seguono un loro specifico itinerario formativo. I seminaristi per la Diocesi di Roma che frequentavano l’Almo Collegio Capranica a causa del loro numero spesso ridottissimo venivano ordinati nelle rispettive Parrocchie, mentre il nuovo Collegio Diocesano Missionario “Redemptoris Mater” per la formazione di sacerdoti provenienti dal Cammino Neocatecumenale ha cominciato a sfornare preti destinati più o meno a tutte le Diocesi del mondo.

Antefatto

Mentre il Cardinale Ugo Poletti, Vicario Generale di Sua Santità per la Diocesi di Roma, era solito presiedere tutte le celebrazioni di ordinazione, sia diaconali che presbiterali, dal 1991, con l’arrivo nella Diocesi di Roma del nuovo Cardinale Vicario, Camillo Ruini, si cercò gradualmente di cambiare registro. L’impegno per le ordinazioni diaconali di tutti i candidati della Diocesi di Roma fu mantenuto dallo stesso Vicario, mentre il Papa cominciò in prima persona ad ordinare tutti i candidati al presbiterato incardinati nella Diocesi di Roma in un’unica occasione a San Pietro durante il tempo di Pasqua.

L’ordinazione dei sacerdoti per la propria Diocesi da parte di un Vescovo non è un atto qualsiasi,  ma rappresenta una delle più alte missioni del Pastore per il suo popolo. I sacerdoti sono i primi e diretti collaboratori del Vescovo, esercitano per suo mandato l’ufficio di insegnare, di santificare e di reggere, gli fanno da corona in quel presbiterio che – in una qualsiasi normale Diocesi di tutto il resto del mondo – si ritrova insieme, nessuno escluso, nel giorno solenne dell’ordinazione ad accogliere fraternamente il nuovo presbitero nella comunità sacerdotale.

Analisi

Ho provato a mettere una accanto all’altra le tre omelie che sono state pronunciate dagli ultimi tre Vescovi di Roma (Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Francesco) in occasione della loro prima presidenza della celebrazione delle ordinazioni presbiterali per la Diocesi di Roma. In relazione a Giovanni Paolo II, per quanto fosse al governo della Chiesa già da qualche anno e quindi avesse presieduto già diverse celebrazioni di ordinazione, ho scelto quella del 1991 come fosse la prima, proprio per il ruolo giocato dal Cardinal Vicario nel mutamento della prassi.

Ne è venuto fuori un quadretto interessante. Come però non sarebbe legittimo attribuire ad una sola omelia lo stile e l’impronta che un Vescovo vuole dare al suo ministero e ciò che poi in definitiva si attende come risposta dai suoi ascoltatori, allo stesso tempo non si può dimenticare che l’omelia per l’ordinazione è un apax per chi viene ordinato, è qualcosa di irripetibile, accade allora e mai più, e allo stesso tempo dice qualcosa intorno al pensiero di chi la pronuncia. Seguendo i link è possibile leggere il testo ufficiale di ciascuna rispettiva omelia.

Giovanni Paolo II (26/5/1991)
Benedetto XVI (7/5/2006)
Francesco (21/4/2013)

La prima differenza che salta all’occhio è la diversa lunghezza delle tre omelie. Statistiche alla mano, nell’omelia di Giovanni Paolo II si leggono 675 parole, in quella di Benedetto XVI 2126 parole, nell’omelia di Francesco 705 parole.

Formalmente Giovanni Paolo II apre la sua omelia con le parole del Salmo, e si rivolge immediatamente e direttamente agli ordinandi chiamandoli “cari Figli”. Benedetto XVI, con maggiore sobrietà, apre con “Cari Fratelli e Sorelle” ma non dimentica l’esplicito riferimento ai “cari Ordinandi” ai quali si rivolge direttamente per tutto il prosieguo dell’omelia chiamandoli anche “cari amici“. Francesco sceglie di non scrivere una sua omelia ma di leggere quella standard proposta dal Pontificale Romano nella versione italiana che si apre con un “Fratelli e sorelle carissimi” rivolgendosi agli ordinandi come a  “questi nostri fratelli e figli chiamati all’ordine del presbiterato” e proseguendo sempre in terza persona (“stiamo per elevare“) fino ad un monitorio: “Quanto a voi, fratelli e figli dilettissimi, che state per essere promossi all’ordine del presbiterato“.

Papa Giovanni Paolo II

Lo stile dell’omelia di Giovanni Paolo II con il suo andamento “circolare” (inizia dal termine grazia e si chiude con il termine grazia), nel confronto con altri scritti riconducibili alla penna del Pontefice, sembra del tutto coerente per sostenere che lui ne è l’autore materiale. Il pensiero espresso appare originale. Segue un itinerario che parte dalla grazia Trinitaria della chiamata battesimale, si muove nella vocazione all’ordine sacro che manifesta una “speciale” relazione con lo Spirito (tema molto caro a Giovanni Paolo II), termina con una visione di speranza teologale fondata su Cristo. Nel complesso un’omelia wojtyłiana nel periodo della maturità del suo ministero petrino.

Papa Benedetto XVI

L’omelia di Benedetto XVI appare la più complessa e articolata delle tre. Lo stile è certamente quello riconducibile al teologo Ratzinger. Si coglie la tensione verso un messaggio che senza indulgere nel patetico ed emozionale, riesca a delineare in modo efficace il modello di sacerdote che il Vescovo di Roma si aspetta e vuole per la sua Diocesi. Il cuore dell’omelia è l’analisi e la presentazione del “pastore”, sia ripercorrendo la Scrittura dalla Prima alla Seconda Alleanza, dove la figura di Gesù Pastore finisce per imporsi in modo determinante, sia nel complesso svilupparsi del significato dell’allegoria. Servizio, donazione di sé, unità, preghiera, spiritualità, libertà, conoscenza amorosa, missione, preghiera: l’immagine del pastore offre al Pontefice l’occasione per toccare, in modo del tutto originale, aspetti diversi e coincidenti del ministero ordinato.

Papa Francesco

Nel corso della lettura dell’omelia standard Francesco si discosta solo tre volte dal testo formale, parlando a braccio. Dice: “Ricordate le vostre mamme, le vostre nonne, i vostri catechisti, che vi hanno dato la Parola di Dio, la fede…. il dono della fede! Vi hanno trasmesso questo dono della fede“; in seguito: “E oggi vi chiedo in nome di Cristo e della Chiesa: per favore, non vi stancate di essere misericordiosi“; infine: “Siete Pastori, non funzionari. Siete mediatori, non intermediari“. Il resto dell’omelia, essendo la formula standard prevista dal Pontificale, è un semplice elenco delle funzioni del ministero sacerdotale con qualche esortazione ad una immedesimazione spirituale e morale.

Conclusione

Significativamente i tre Papi presi in considerazione non sono giovani neo-cardinali chiamati ad occupare la sede che fu di Pietro, ma Vescovi con grande esperienza umana, culturale, pastorale. Ogni confronto tra le persone sarebbe destinato ad un fallimento. Ciascuno di loro possiede caratteristiche che lo rendono unico e utile al servizio della Chiesa.

Nondimeno il ministero dalla parola, tipico del ministero episcopale, richiede profonda riflessione. Perché presenta grandi paradossi. Si può essere profondi conoscitori del pensiero teologico e anche capaci di comunicarlo con grande chiarezza, ma sfortunatamente l’epoca attuale preferisce il facile click su un’icona alla difficile attenzione da prestare ad un rigo scritto. Ma cosa resta, al di là di qualche immagine rubata su un file (penso al momento dell’ingresso in Basilica, decine, centinaia di obiettivi puntati sulla processione iniziale e perché?), se non si è capaci di “ascolto”? Sia la visione che l’ascolto sono entrambe categorie bibliche; tuttavia appare più sviluppata una teologia della parola-ascolto (la Bibbia, per esempio) che una teologia dell’immagine-visione (l’Icona, per esempio).

Dal confronto delle omelie – non delle persone – emerge con grande chiarezza che chi volesse nutrire in modo completo e profondo il proprio spirito non può prescindere dalle parole di Benedetto XVI. Giovanni Paolo II, pur nella brevità, appare ugualmente capace di suscitare grande risonanza alle sue parole. Ma è di tutta evidenza, a distanza di quasi 20 anni, il fatto che non ci sia lui a pronunciare quello che ora leggiamo solamente; questo costituisce una enorme differenza. Senza intonazioni di voce, senza visione di sguardi, senza gestualità del corpo, l’omelia di Giovanni Paolo II sembra claudicare.

L’omelia di Francesco è stata una scelta infelice. Dal momento in cui gli è stato portato il leggio e sul leggio posto il Pontificale è calato un senso di amarezza in chi non si è sentito preso sul serio, accudito, pensato per tempo. Non c’era una parola che venisse dal raccoglimento e dalla riflessione. Qualche esortazione estemporanea, occasionale, dopotutto nemmeno molto originale perché già ascoltata ripetutamente nel mese trascorso, ma nulla di veramente “personale”. Un po’ poco per un Vescovo, per il Vescovo di Roma che sta ordinando i suoi preti per la prima volta alla guida della Diocesi.

Per Francesco, senza dubbio, un’occasione “trascurata”.