Referendum. Cosa significa oggi?
Il termine referendum, gerundivo del verbo refērre = riferire, fa parte dell’espressione latina “(convocatio ad) referendum” cioè “(convocazione per) riferire” ove referendum è il gerundivo del verbo refērre = riferire.
Come è noto in Italia il termine referendum è conosciuto soprattutto per la sua applicazione secondo l’articolo 75 della Costituzione. Si tratta del referendum abrogativo. Giova ricordare che la Costituzione prevede anche altri tipi di referendum. Qui però parlo essenzialmente di quello dell’art. 75.
Pur essendo un istituto che permette l’esercizio della democrazia diretta a mio avviso il referendum abrogativo soffre di due tipi di problemi.
Il primo è la possibilità di essere convocato da 500.000 elettori. La cifra sembra elevata. Tuttavia quando la scelta tra Repubblica e Monarchia venne portata al voto degli italiani il 2 giugno 1946, gli aventi diritto erano 28.005.449. Allora il referendum abrogativo avrebbe richiesto – in una epoca molto diversa dalla attuale – la raccolta delle firme dell’1,79% degli elettori. Nel 2022 gli aventi diritto al voto erano 50.869.304. Potendo attualmente raccogliere le firme pure su internet, sono richieste quelle del solo 0,98% degli aventi diritto.
In altri termini, aver fissato un numero assoluto di firme rende più o meno difficile raggiungere la quota necessaria a seconda dei tempi e degli aventi diritto.
Dobbiamo sempre ricordare, e questo è il secondo problema, che nel caso di referendum abrogativo è una minoranza dissenziente a chiedere all’intero corpo elettorale di esprimersi su una legge in vigore, quindi già votata e approvata dalla maggioranza. Ci si potrebbe chiedere se ha ancora senso oggi che una legge che ha superato il vaglio di Commissioni, di studi approfonditi, di interlocuzioni, di dibattito in Parlamento, di voto dei Parlamentari venga sottoposta al giudizio di fragolina47 o di GOLEADOR70.
Prendiamo come esempio la legge 5 febbraio 1992, n. 91 recante “Nuove norme sulla cittadinanza” della quale uno dei referendum abrogativi del prossimo giugno chiede:
Volete voi abrogare l’articolo 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole “adottato da cittadino italiano” e “successivamente alla adozione”; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: “f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.”, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante “Nuove norme sulla cittadinanza”?
Il disegno di legge fu presentato al Senato il 13/12/1988 e assegnato alla Commissione I (Affari costituzionali) in sede referente il 25/01/1989 (link). Ha ottenuto i pareri delle Commissioni II (Giustizia), III (Affari esteri, emigrazione), IV (Difesa) nonché della Giunta Affari Comunità Europee. Passa quindi l’esame della Sottocommissione II (Giustizia) il 27/06/1990 e il 14/11/1990. Il 23/05/1990 la Sottocommissione III (Affari esteri, emigrazione) dà parere favorevole con osservazioni, così come la Giunta Affari Comunità Europee, l’8/11/1989.
Viene poi trattato dalla Commissione I (Affari costituzionali) in sede referente nelle sedute del 18/10/1989, del 27/06/1990, del 27/6/1990 (fu costituito un comitato ristretto) e del 13/12/1990 quando fu concluso l’esame.
Arriva in Assemblea e viene discusso nella seduta del 23/05/1991. Interessante seguire il dibattito, dove si mettono ai voti le modificazioni persino di un verbo in un emendamento dal carattere puramente lessicale.
Al comma 1 sostituire le parole: «hanno appartenuto» con le altre: «sono appartenuti».
Infine il disegno di legge viene approvato con modificazioni per passare all’esame della Camera dei Deputati.
Si pronunciano a favore del provvedimento i partiti di allora: Partito Socialista Italiano, Movimento Sociale Destra Nazionale, Rifondazione Comunista, Democrazia Cristiana e Partito Democratico della Sinistra. Praticamente tutto l’arco costituzionale, in rappresentanza – diciamo – del 95% dell’elettorato.
Dopo 30 anni si può tracciare un bilancio di quella legge, ed è stato molto ben fatto in questo articolo (link | mirror pdf). In proposito due note che meriterebbero l’attenzione del legislatore, altro che referendum: (1) il potere discrezionale del Ministero degli Interni che andrebbe quanto meno disciplinato; (2) la mancanza di interesse a richiedere la cittadinanza di oltre un milione di potenziali aventi diritto con l’attuale disciplina.
Immaginiamo ora che il referendum abrogativo sia valido perché si presenta alle urne circa il 55% degli aventi diritto al voto, quota simile all’ultima consultazione andata a buon fine nel 2011. Immaginiamo che si pronunci a favore dell’abrogazione il 50% dei votanti più uno. In pratica una legge votata dal 95% degli italiani rappresentati dal Parlamento, alle urne del referendum abrogativo potrebbe essere modificata da meno del 30% dell’intero elettorato.
È il gioco democratico previsto dalla Costituzione, si dirà. Ma il complesso iter delle leggi nel Parlamento italiano, addirittura con la doppia lettura, potrà peccare di eccessivo formalismo, eppure assicura un vaglio che nessun referendum abrogativo potrà mai garantire.
Oggi la funzione del referendum abrogativo, pensato anche come forma di tutela del popolo nel caso di gravi e pregiudizievoli norme emanate dal Parlamento, può dirsi probabilmente obsoleta. O comunque sovradimensionata rispetto all’istituto della proposta di legge di iniziativa popolare.
In un dibattito pubblico sull’argomento credo che convenga maggiormente concentrarsi sul modo di valorizzare la possibilità di proporre leggi da parte dei cittadini, di vederle discusse e quindi approvate. Anche con l’introduzione di strumenti costituzionali che impongano termini perentori al Parlamento, come per esempio la regola del silenzio-assenso, ovvero se entro 180 giorni non viene discussa e votata la proposta di legge da parte dei cittadini, la proposta si intende integralmente approvata e viene promulgata dal Presidente della Repubblica senza bisogno di ulteriori interventi del Parlamento stesso.