Purgatorio

Scrivo questo post come tentativo di dare una risposta organica, senza entrare in troppo sottili questioni teologiche, sul tema del Purgatorio sollevato da una serie di tweet, che hanno preso le mosse dal benevolo commento della cara Vitalba Azzollini ad un mio precedente post.

In particolare Alessandro Guerani afferma che il Purgatorio è assente nelle Scritture essendo stato inventato nel Basso Medioevo.

È vero che il termine Purgatorio si comincia ad usare verso la fine del XII secolo, ma Guerani pare ignorare che già alla fine del II secolo si parlava di uno stato di purificazione successivo alla morte prima di entrare in Paradiso (Pastore d’Erma). Guerani sembra ripetere la tesi, in verità piuttosto riduttiva, di Jacques Le Goff sulla “nascita” del Purgatorio. La grossolana riduzione di quest’ultimo autore avviene nel tentativo stesso di dare una spiegazione socio-filosofica di un tema prettamente teologico, nella quale egli fa vincere interpretazioni aliene (come la necessità di integrare nella società civile i peccatori professionisti: banchieri e mercanti), viziate dalla visione storicista successiva, su un dibattito che si mostrò allora estremamente vivace.

Per impostare correttamente il problema infatti occorre considerare due elementi. Il primo è quello della distanza culturale del medioevo dai nostri schemi moderni, distanza riflessa anche nell’uso di terminologie che nel corso del tempo hanno assunto significati diversi (per esempio “pena”) o di concetti che si sono affinati grazie proprio alla riflessione successiva (si pensi allo stesso concetto di “Purgatorio”). Il secondo è che la Scrittura viene evocata dalla Chiesa cattolica quale fonte non esclusiva della Rivelazione, al contrario di quello che invece pare sostenere Guerani, ed è considerata un dono fatto da Dio all’umanità per divenire nel tempo Magistero e Tradizione.

Se infatti si considerasse la Scrittura come deposito universale di tutte le verità antropologiche, teologiche, scientifiche, sociali, politiche, eccetera di tutti i tempi e di tutte le regioni geografiche dall’inizio alla fine della storia umana si continuerebbe a perpetuare un errore interpretativo già studiato e stigmatizzato in passato (modello della fede “a pacchetto” o “discreto”).

Invece esattamente il dibattito sul Purgatorio mostra che la volontà del Creatore è che la sua creatura, utilizzando le facoltà razionali, volitive, emotive di cui è dotata per esserne immagine e somiglianza, cresca nell’approfondimento della Rivelazione indagando alla luce della fede le verità conosciute per scoprire quelle ancora da conoscere. In questo senso il modello di appropriazione della verità teologica non è molto dissimile da quello tipicamente umano presente in altri campi del sapere, dove la conoscenza procede per tentativi ed errori (modello della fede “a processo” o “continuo”).

Il tema del Purgatorio si presenta con forza all’attenzione dei teologi medievali in occasione dell’approfondimento dei temi “peccato”, “colpa” e “pena”. E non dimentichiamo quanta importanza questa riflessione ha avuto nell’affinare i concetti giuridici alla base degli ordinamenti degli stati moderni.

Riflettendo sul sacramento della riconciliazione (confessione) era diventato chiaro che a seguito di un peccato vi fosse la necessità da parte di chi l’aveva commesso di riparare ai danni conseguenti. In questo senso l’esempio che porto più di frequente è quello di un tizio che in preda alla rabbia mandi in frantumi il vaso prezioso del suo ospite. Resosi conto del suo errore colpevole (peccato) il tizio chiede scusa al suo ospite (pentimento) che generosamente gli concede il suo perdono (remissione della colpa). Non basta. Il tizio si mostra pure propenso al pentimento compiendo gesti concreti (penitenza): ripulire il pavimento dai cocci (pena temporale), acquistare un nuovo vaso (riparazione), risarcire il danno morale subito dall’ospite (soddisfazione).

Oggi si ammette abbastanza pacificamente che tra bene e male vi sia un’asimmetria costitutiva: le azioni buone sono diffusive di bene, quelle cattive tendono alla distruzione anche di se stesse. Il cerchio di bene si allarga nel tempo e nello spazio, quello del male è autoestinguente. In una mentalità come quella medievale, rigidamente fissata sul teorema di causa ed effetto, il male doveva essere represso, il disordine morale-sociale doveva venire allontanato. Non solo, appariva necessario che vi fosse una proporzione almeno putativa tra male commesso e la sua riparazione. Mentre nasceva la dottrina delle buone opere, delle elemosine, della penitenza si affermava quindi la visione esigente delle proporzione tra le azioni malvagie e le azioni buone. La famosa legge del contrappasso di dantesca memoria, applicata in modo fantasioso e imaginifico nella Divina Commedia, e per la sua efficacia evocativa mai completamente rigettata dalle generazioni successive.

Il meccanismo peccato – pentimento – remissione della colpa – penitenza (= pena temporale / riparazione / soddisfazione) vale sicuramente per gesti piccoli, materiali e reversibili. Ma che dire di gesti abnormi (si pensi ad un incendio doloso che distrugga un bosco intero), mentali o spirituali (si pensi ad una bestemmia) o non più reversibili (si pensi ad un omicidio)? Si può essere pentiti e ricevere il perdono, ma come rimettere a posto i cocci di una bestemmia o ripagare la vita di una persona?

Prendendo in considerazione colpe abnormi e irreversibili, per riparare e soddisfare le quali non sarebbe stata sufficiente una vita, ovvero il caso di persone decedute prima ancora di aver completato il percorso penitenziale (= pena temporale / riparazione / soddisfazione), nasceva un ulteriore dilemma teologico. Cosa sarebbe accaduto in questi casi? In che modo si sarebbe potuto ristabilire quell’equilibrio della giustizia che rimettesse in pari i piatti della bilancia? Davvero Dio, sommamente giusto, avrebbe potuto accettare che in Paradiso sedessero alla stessa mensa vittime e carnefici senza che tra loro, le loro famiglie, i loro discendenti, nella società si fosse ricostituito un rapporto sereno e a ciascuno fosse stato riconosciuto il suo?

Sarcofago dei Sette Fratelli Maccabei, San Pietro in Vincoli – Cripta, Roma

Alle considerazioni della teologia sistematica vennero in soccorso alcune ispirazioni di natura biblica. Si trovò in particolare utile la menzione alla preghiera per i defunti presente in 2 Maccabei 12. I concetti espressi in tale contesto sono elementari: se non esiste un al di là perché pregare per i defunti? Se non esiste la risurrezione dei morti perché offrire sacrifici per la remissione dei peccati? Non si cita ovviamente nessun Purgatorio, ma se ne riconoscono le caratteristiche fondamentali, pur nella differente concezione della preghiera, del sacrificio e dell’assoluzione dei peccati. Qualcosa di simile è accaduto per la fede nella Trinità, un termine che non compare nella Bibbia ma ormai entrato nell’uso comune per indicare Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo.

Il brano dei Maccabei ci riporta inoltre ad una verità fondamentale dell’antropologia cristiana, cioè l’efficacia delle azioni riparatorie anche in forma vicaria. Per restare nell’esempio di cui sopra, il generoso ospite potrebbe decidere lui di spazzare via i cocci del vaso frantumato al posto dell’irascibile tizio. Cioè, fuor di metafora, nella vita reale accade molto spesso che i danni arrecati dall’errore colpevole di qualcuno siano riparati da qualcun altro (= espiazione vicaria), il bosco sia ripiantato dai forestali e non dall’incendiario. La teologia medievale aggiunse pure il tema, che tanto fa ancora discutere, delle indulgenze: secondo il nostro esempio, l’irascibile tizio sarebbe in dovere di ripagare danni materiali e morali, ma qualcun altro della famiglia o lo stesso generoso ospite potrebbero mostrarsi disponibili a regalargli il denaro per farlo. Fuor di metafora, nella vita reale non è infrequente che qualcuno che ha commesso un errore colpevole sia amato al punto da risparmiargli ulteriori sofferenze o sacrifici per ripagare i suoi debiti (= indulgenza), che al ladro affamato non sia richiesto di restituire il maltolto.

Un argomento che invece sembra far questione all’uomo contemporaneo è l’apparente aporia tra la temporalità della pena e l’a-temporalità della condizione post mortale. Da quanto espresso fin qui dovrebbe essere chiaro che per pena non si intende un concetto carcerario e passivo di espiazione di un qualche reato, bensì l’impegno amoroso e attivo alla ricerca di ripristinare una condizione di equilibrio tra la persona che ha sbagliato colpevolmente e gli esseri, animati ed inanimati, che hanno subito i danni del suo errore. La giustizia umana è costretta a fissare la puntualità di un’azione colpevole e persino il carcere più duro al quale condanna potrà ben poco sul dolore dei familiari di una persona assassinata. La creatività dell’amore di Dio, invece, ha realizzato nella condizione del Purgatorio la possibilità reale di riscatto di chiunque, sinceramente pentito e ormai perdonato, desideri accompagnare fruttuosamente il cammino storico-temporale di riconciliazione delle vittime, dirette o indirette, dei suoi peccati. La pena, dunque, è temporale non tanto in relazione all’anima del defunto quanto in relazione all’esistenza del mondo e per questo destinata in ogni caso a terminare con lui.

La preghiera tanto raccomandata per coloro che vivono la condizione della purificazione deve essere quindi considerata una sorta di indulgenza: i pensieri buoni che circondano l’anima di chi si impegna amorevolmente e attivamente nella riconciliazione delle vittime dei suoi peccati non fanno altro che offrirgli, nella misteriosa solidarietà del bene, la sicurezza che il suo impegno è stato accolto e ha portato frutto e quindi il suo percorso di purificazione si può concludere positivamente. Non a caso tra le preghiere dei nostri nonni non ne mancava mai una particolare per le anime più dimenticate del Purgatorio. Essere dimenticati è davvero una grande pena.

Come ultima annotazione menzionerei il fatto che la sofferenza più viva di coloro che si stanno purificando risulta l’incapacità di sperimentare fino in fondo la completa comunione con Dio e con tutti i Santi, cosa che impedisce loro di goderne appieno la presenza, esattamente come la speranza della completa comunione con Dio e con tutti i santi è la forza più grande che li sostiene. Si potrebbe cercare di intuire tali sensazioni sull’esempio di coloro che, dopo aver fatto esperienza di dipendenze da droghe o da alcol, per esempio, decidano di intraprendere un percorso terapeutico in una comunità. Pur consapevoli di star uscendo dal tunnel, i tossicodipendenti e gli alcolisti provano l’esperienza della comunità come un modo per riprendere forza, per cercare di rimediare a qualche danno, per reintegrarsi pienamente col lavoro e col sacrificio personale in una società che vedono solo da lontano e dalla quale si sentono spesso giudicati. Oltre questo, lo stesso isolamento è fonte di oscura sofferenza, temperata solo dalla speranza che il percorso terapeutico non è eterno e che al termine di esso si potrà seppellire definitivamente il passato e aprirsi ad una nuova vita.

Sono piuttosto colpito in conclusione da alcune parole di Andrea Garufi, con le quali – se interpreto correttamente – non mi trovo per nulla d’accordo.

Risolto, almeno mi pare, il problema della fondazione scritturistica del ragionamento teologico, direi che invece tutta la Scrittura si può leggere come storia della salvezza, cioè l’esperienza costante e insistente di una relazione tra Dio salvatore e uomo in attesa di salvezza. Mentre il manicheismo denunciato da Garufi mai può dirsi cristiano (se qualche cristiano accettasse il manicheismo avrei difficoltà a definirlo tale), la testimonianza biblica che abbiamo ricevuto è quella di un Dio che ostinatamente vuole che tutti gli uomini siano salvati (1Tm 2,4). E penso che di questa volontà il Purgatorio possa rappresentare prova non piccola…