La vita cattolica non si conclude subito dopo la morte

Il titolo di questo post è l’espressione che un mio ex-alunno utilizzò per definire quello che riteneva essere un elemento fondamentale della fede cristiana, cioé la speranza dell’immortalità. Ovviamente tale speranza non riguarda solo le persone credenti e tantomeno solo i cattolici!

I novissimi (1) sono stati per secoli il cavallo di battaglia dei predicatori che volevano sollecitare i fedeli alla conversione e alla santità. La morte infatti ha sempre posto grandi interrogativi, come pure il destino umano ultraterreno. Precisiamo che il purgatorio non rientra nel tema, trattandosi di qualcosa di non definitivo. Tuttavia in qualche modo vi è inserito, essendo argomento teologico che tocca la medesima realtà del termine della vita terrena.

Naturalmente funerale e cimitero, pur rappresentando dati reali dell’esistenza umana, riguardano più i vivi che i defunti e hanno poca attinenza con gli elementi fondamentali della fede cristiana.

La morte

La dottrina classica del cristianesimo insegna che la morte, come termine della vita terrena, è conseguenza del peccato; la dottrina riflette la rivelazione biblica secondo cui “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi […]. La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo” (Sap 1,13; 2,24). Con la risurrezione di Cristo si completa la rivelazione biblica e viene portato a compimento il disegno di salvezza di Dio, che non si è arreso al peccato dell’uomo. Se da una parte “Gesù ha trasformato la maledizione della morte in benedizione” (Catechismo della Chiesa Cattolica [CCC] 1009) e ha dato un nuovo senso al vivere dell’uomo al punto che San Francesco ha potuto scrivere “Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale” (CCC 1007-1014), dall’altra con la sua risurrezione ha concretamente indicato che il destino di ciascun essere umano è quello di vivere per sempre con il suo corpo mortale dotato di una nuova vita senza fine: “Credere nella risurrezione dei morti è stato un elemento essenziale della fede cristiana fin dalle sue origini” (CCC 991).

Il giudizio

La condotta tenuta da ciascuno di noi durante la vita terrena decide in un certo senso del destino ultraterreno della nostra anima e del nostro corpo. Dobbiamo essere sempre più coscienti che Dio prende molto sul serio le nostre azioni, buone o cattive che siano, per quanto tra bene e male vi sia profonda asimmetria. Persino un gesto buono apparentemente insignificante come un bicchiere d’acqua dato a uno dei piccoli discepoli di Gesù merita una ricompensa (Mt 10,42). Agli apostoli che hanno lasciato tutto per seguire Cristo viene promesso cento volte tanto su questa terra e nel futuro la vita eterna, oltre a diventare giudici del popolo di Dio (Mt 19,27-30). I criteri del giudizio sulle azioni dell’uomo hanno ispirato una delle pagine più belle del vangelo: “avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero nudo e mi avete vestito, forestiero e mi avete ospitato, malato e in carcere e siete venuti a visitarmi” (Mt 25,31-46).

È esperienza comune che esista un valore aggiunto per quelle azioni che possono ricadere sotto il giudizio di qualcuno. Quando sappiamo che un nostro compito o una nostra azione non è destinata a ricevere nessun tipo di riconoscimento o di biasimo siamo meno incentivati a farla bene, essendo indifferente il risultato. Ma quando a seguito di un’azione compiuta con criterio e con risultati apprezzabili riceviamo una gratificazione economica, un complimento, un applauso la nostra felicità si fa tangibile. La gratificazione è una delle molle più potenti per spingere le persone a comportarsi correttamente e a compiere opere buone. Non è tutto. Di solito siamo anche in grado di godere per il riconoscimento ricevuto da una persona a noi cara: pensiamo ai genitori di quei figli che vengono applauditi in una recita scolastica. La consapevolezza che un nostro comportamento buono può rendere felici altre persone è un’altra potente molla per spingerci a metterlo in atto.

Il giudizio di Dio è liberante, perché vero e chiaro, fa luce e scopre le cose belle che abbiamo fatto in segreto, spiega i fatti incomprensibili della nostra esistenza, riesce a riconciliarci con quello che ad una prima impressione appariva svantaggioso per noi, ci consola del male che abbiamo ricevuto e sofferto, fa giustizia di ciò che ci ha contrastato nella vita, ricompensa tutto il bene che abbiamo compiuto e pacifica l’intera esistenza: nulla va perduto.

La differenza che passa poi tra giudizio particolare (cioè concernente ciascun singolo essere umano) e giudizio universale (che coinvolge tutta l’umanità al termine dei tempi) è simile a quella che osserviamo nella critica dei film o degli spettacoli teatrali. Infatti sia nei film che negli spettacoli teatrali possiamo apprezzare la performance di un attore o di un’attrice, confrontarla con quella degli altri e delle altre, giudicare chi ha recitato meglio e chi peggio. Alla fine di ogni spettacolo che ci è piaciuto il nostro applauso sarà fragoroso; se lo spettacolo è stato mediocre è possibile anche che riceva fischi. Applaudiamo o fischiamo l’insieme: la regia, la scenografia, la sceneggiatura, la musica, la recitazione; l’attore che ha recitato bene sarà applaudito anche in uno spettacolo nel complesso mediocre, esattamente come l’attore che ha recitato male sarà fischiato anche in uno spettacolo nel complesso ottimo. Uno spettacolo abbastanza riuscito è quello dove ciascuno ha svolto mediamente bene il proprio compito.

Questo mondo, questa storia, questa umanità riceveranno da Dio il suo plauso o la sua riprovazione. Da come avremo trattato l’ambiente e gli altri esseri viventi, piante ed animali, da come ci saremo presi cura gli uni degli altri, a come avremo soccorso i più deboli o accolto i bambini, a come avremo amato la Chiesa e Dio: tutto, nel suo insieme, dal primo fino all’ultimo essere umano in una responsabilità solidale saremo giudicati. Singolarmente e nell’insieme.

Il Paradiso

Poiché alla sera della vita saremo giudicati sull’amore (2) (San Giovanni della Croce) il Paradiso altro non sarà che il regno di amore e di pace dove chi avrà amato nei fatti e non a parole Dio e il prossimo sarà compreso da tutti e comprenderà tutti – perché l’amore, la tenerezza, la compassione, la misericordia sono lingue universali –, condividerà la felicità di Dio e del prossimo mettendo a loro disposizione la propria, in un processo di moltiplicazione all’infinito, ciascuno gioendo della gioia degli altri. Non è dato di sapere per mezzo delle sedute spiritiche se qualcuno è stato giudicato degno del Paradiso. La Chiesa, che considera del tutto sbagliato prendere in considerazione quel sistema, ha sviluppato nei secoli uno strumento molto efficace per raggiungere la consapevolezza della vita in Paradiso, ed è la canonizzazione dei Santi. Attraverso un processo a volte lungo decenni essa giunge alla certezza che una persona è in Paradiso e la propone come modello di vita e di intercessione per tutti i credenti.

L’Inferno

Chi non avrà voluto amare Dio e il prossimo durante la sua vita terrena non avrà nulla da condividere con loro perché avendo egoisticamente pensato solo a se stesso non è in grado di fare il bene di nessun altro né di essere spinto a realizzarne la felicità. Il suo mondo chiuso e freddo lo condanna all’incomunicabilità – perché l’egoismo, l’orgoglio, l’avarizia rendono sordi, muti e ciechi –, all’isolamento, al rimorso, alla rabbia per le occasioni perdute e non più recuperabili. È una forma di autismo (3) che a differenza del disturbo psichico pertiene alla sfera spirituale e morale: qualcosa di simile, disperato e senza fine, lo chiamiamo Inferno.

Non sappiamo se l’Inferno sia un insieme vuoto, come si è spesso ripetuto nell’ultimo secolo, se cioè esista ma non vi abiti nessuno. Il sospetto è nato ad alcuni al pensiero che un Dio che crediamo tanto buono non può restare indifferente alla dannazione eterna di uno dei suoi figli. Di sicuro Dio non resta indifferente alla salvezza di nessuno e fino all’ultimo lotterà perché le sue creature non si perdano. Sappiamo anche però che Dio ci tiene molto alla libertà dell’uomo (lo sappiamo perché non ha costretto nessuno a credere in lui) e prende molto sul serio le azioni dei suoi figli. Sarebbe quindi piuttosto curioso che proprio alla fine egli violasse quella libertà che ha tanto amato e difeso, costringendo qualcuno a vivere per sempre con lui contro la sua volontà, e considerasse azioni buone e azioni cattive sullo stesso piano.

Il Purgatorio

La nostra esperienza quotidiana ci dice pure che quando siamo consapevoli di non essere all’altezza di una situazione o non presentabili in un certo contesto, ci vergogniamo e cerchiamo di renderci più accettabili. Per spiegarci con qualche esempio, nel caso avessimo invitato qualcuno a cena nella nostra casa, avremmo cura di renderla confortevole e pulita perché i nostri ospiti non si trovino a disagio. Così come se fossimo stati invitati a cena da qualche amico e prima di suonare il campanello ci accorgessimo di avere un accessorio fuori posto o una piccola macchia sulla scarpa, cercheremmo rapidamente di migliorare il nostro aspetto davanti alla porta chiusa dandoci una sistematina e una pulitina. Infine non ci presenteremmo mai a mani vuote in casa di amici; e il presente dal quale ci facciamo precedere sarà molto più grande e importante nella misura in cui sapessimo di avere un difetto del quale essere perdonati.

Fuor di metafora l’esperienza del Purgatorio è quella preparazione prossima alla vita beata con Dio grazie alla quale ci rendiamo presentabili, accettabili, onorabili, rimettendo in ordine ciò che il nostro peccato ha disordinato perché il dono delle opere buone che apportiamo alla comunione dei santi non sia sciatto e di poco valore.

Ciò spiega pure perché il Purgatorio non è definitivo: trattandosi di un processo di purificazione non richiede di andare oltre quanto c’è effettivamente da purificare.

Una storiella per capire la differenza

Per comprendere la differenza tra Paradiso e Inferno si racconta una storiella, alcuni la fanno passare per antica leggenda cinese, io ne ho lette varie versioni attribuite ora all’una ora all’altra confessione religiosa (quella che presento qui è prelevata da questa pagina). Certo è che se fosse davvero cinese il contesto, le persone e l’insegnamento di fondo avrebbero una sbalorditiva somiglianza con contesto, persone e insegnamento di dottrine religiose molto diverse e culture più recenti come il cristianesimo e il sistema di misura metrico…

Dopo una lunga ed eroica vita, un valoroso samurai giunse nell’aldilà e fu destinato al paradiso. Era un tipo pieno di curiosità e chiese di poter dare prima un’occhiata anche all’inferno. Un angelo lo accontentò e lo condusse all’inferno. Si trovò in un vastissimo salone che aveva al centro una tavola imbandita con piatti colmi e pietanze succulente e di golosità inimmaginabili. Ma i commensali, che sedevano tutt’intorno, erano smunti, pallidi e scheletriti da far pietà.

“Com’è possibile?”, chiese il samurai alla sua guida. “Con tutto quel ben di Dio davanti!”.

“Vedi: quando arrivano qui, ricevono tutti due bastoncini, quelli che si usano come posate per mangiare, solo che sono lunghi più di un metro e devono essere rigorosamente impugnati all’estremità. Solo così possono portarsi il cibo alla bocca”.

Il samurai rabbrividì. Era terribile la punizione di quei poveretti che, per quanti sforzi facessero, non riuscivano a mettersi neppur una briciola sotto i denti.

Non volle vedere altro e chiese di andare subito in paradiso. Qui lo attendeva una sorpresa. Il paradiso era un salone assolutamente identico all’inferno! Dentro l’immenso salone c’era l’infinita tavolata di gente; un’identica sfilata di piatti deliziosi. Non solo: tutti i commensali erano muniti degli stessi bastoncini lunghi più di un metro, da impugnare all’estremità per portarsi il cibo alla bocca.

C’era una sola differenza: qui la gente intorno al tavolo era allegra, ben pasciuta, sprizzante di gioia.

“Ma com’è possibile?”, chiese il samurai.

L’angelo sorrise. “All’inferno ognuno si affanna ad afferrare il cibo e portarlo alla propria bocca, perché si sono sempre comportati così nella vita. Qui al contrario, ciascuno prende il cibo con i bastoncini e poi si preoccupa di imboccare il proprio vicino”.

____________

(1) Il termine novissimi proviene dal latino “novissima” che vuol dire le cose ultime. Fa riferimento a quattro temi: morte, giudizio, paradiso, inferno.

(2) Lungi dall’apparire un mero sentimento, l’amore emergente dalle pagine bibliche e dalla rivelazione cristiana è più correttamente inserito nel quadro delle opere: non solo provare, sentire amore ma amare. E in questo senso l’azione di amare si deve definire esplicitandone le quattro dimensioni: amare vuol dire “fare il bene di qualcuno, farlo bene, farlo sempre, farlo sempre meglio”.

(3) Tra i disturbi psichici e della personalità il disturbo autistico si classifica di sicuro tra i più gravi. La persona autistica, in apparenza fisicamente normale, si caratterizza per quella che viene definita come la triade del comportamento autistico, cioè la presenza contemporanea di tre deficit importanti: 1) la compromissione qualitativa dello sviluppo delle interazioni sociali; 2) la compromissione qualitativa dello sviluppo delle modalità di comunicazione; 3) la compromissione delle modalità di comportamento, degli interessi e delle attività, che appaiono ripetitivi e stereotipati.