Il dono della fede

Come mai questo tempo non sapete giudicarlo?”

(Lc 12,56)

Fede e discernimento

Corso di Esercizi Spirituali

Figlie della Chiesa

Domus Aurea

19-26 Settembre 2013

Il dono della fede

Ecco quanto è buono e quanto è soave
che i fratelli vivano insieme!
È come olio profumato sul capo,
che scende sulla barba, sulla barba di Aronne,
che scende sull’orlo della sua veste.
È come rugiada dell’Ermon,
che scende sui monti di Sion.
Là il Signore dona la benedizione
e la vita per sempre.
(Sal 132)

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Il contesto di Luca 12

Il tema degli ES ci riporta immediatamente ad una pagina del Vangelo di cui il versetto 56 fa parte, il capitolo 12 di Luca. Insieme ne leggeremo solo una parte, ma in privato invito tutti a leggerlo interamente.

Inquadriamo brevemente il capitolo nell’economia del libretto di Luca.

L’evangelista ricorda al capitolo 9 che Gesù “mentre stavano compiendosi i giorni in sui sarebbe stato elevato in alto, prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé” (vv 51-52). Dunque il capitolo 12 si colloca all’interno di questa ascensione a Gerusalemme nella quale il Signore si fa preparare la strada da alcuni messaggeri. Così al capitolo 10 leggiamo della missione dei settantadue discepoli, mandati “come agnelli in mezzo ai lupi” (10,3) dopo aver osservato che la folla cresceva a dismisura mentre “sono pochi gli operai” (10,2).

Il cammino vero Gerusalemme si compie con l’ingresso nella città santa, ricordato al capito 19,28 e seguenti. Nel corso dei 10 capitoli di questo cammino osservando con attenzione ci rendiamo conto che il Signore esercita una vera e propria azione pedagogica nei confronti dei suoi discepoli. I quali vengono nettamente distinti dal resto della folla, dai dottori della legge, dagli scribi e dai farisei o da qualche personaggio che appare qua e là. Ai discepoli Gesù si rivolge in disparte per proclamare la loro beatitudine (10,23) o per insegnare a pregare (11,1-4). Ai dottori della legge, agli scribi e ai farisei si rivolge con insegnamenti straordinariamente famosi, come la parabola del buon samaritano (10,29-37) o le tre parabole della misericordia (15), ma anche per rimproverarli con asprezza (11,37-52).

Nel capitolo 12 leggiamo un continuo alternarsi di frasi rivolte ai discepoli e alla folla. I discepoli sono anche chiamati “amici” (v. 4) e per questa amicizia destinati a rendere una testimonianza che può arrivare fino alla perdita della vita. Ma i discepoli sono incoraggiati a non perdersi d’animo e a riconoscere il Signore davanti agli uomini (v. 8); a non preoccuparsi delle necessità quotidiane per essere sempre pronti al servizio del regno di Dio (vv. 22-40); anzi, a chi “amministra” viene chiesto un supplemento di amore perché “a chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più” (v. 48).

Alla folla si rivolge quando viene chiamato in causa come giudice (vv. 13-21). Se la richiesta di “uno della folla” potrebbe essere considerata lusinghiera in quanto testimone della grande considerazione goduta dal Signore, tuttavia il ruolo di giudice viene rifiutato (v. 14), ma non quello di maestro. Gesù non perde l’occasione per esortare a tenersi “lontani da ogni cupidigia” (v. 15) e ad arricchire davanti a Dio (v. 21).

Gesù si rivolge alla folla una seconda volta alla conclusione del capitolo (vv. 54-59). Senza nessuna apparente richiesta Gesù narra alla folla un primo esempio, preso in prestito dalla meteorologia. Osservando il movimento delle nubi tutti sono in grado di stabilire se pioverà o sarà bel tempo. In un secondo esempio, stavolta in ambito giudiziario, Gesù ricorda che conviene a tutti mettersi d’accordo con l’avversario prima di arrivare davanti a un giudice.

In conclusione la folla viene invitata a valutare “questo tempo” (v. 56) e a giudicare da sé “ciò che è giusto” (v. 57).

Discepoli e folla

La distinzione tra i discepoli, “amici” del Signore, e la folla chiama in causa la sequela di Cristo e le sue ragioni. Perché i discepoli seguono il Signore? E perché lo seguono le folle?

La risposta, sommariamente, la troviamo in due brani tratti dal capitolo 6 del vangelo di Giovanni e la conclusione la leggeremo proprio in Luca.

Ricordiamo tutti che nel capitolo 6 di Giovanni si narra l’episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci, seguito da un lungo discorso relativo alla visione eucaristica del corpo di Cristo. Subito dopo il miracolo Gesù fugge “sulla montagna, tutto solo” e vi passa la giornata perché vuole sottrarsi dall’intenzione manifestata dalla folla di eleggerlo re (v. 15). Di notte attraversa il lago e raggiunge la sponda opposta, dove verrà trovato dalla folla (vv. 16-25). Ad essa Gesù rimprovererà di seguirlo “non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati” (v. 26). In questo modo le ragioni della sequela della folla vengono opportunamente manifestate. Non si tratta di fede, di una visione nuova della realtà fondata sulla persona di Gesù, ma di una ricerca di benessere, di accomodamento dei propri affari.

Verso la fine del lungo discorso, dopo varie mormorazioni, l’evangelista ricorda che “molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui” (v. 66). È a questo punto che Gesù rivolge una domanda a quelli che pare siano gli unici rimasti: “Disse allora Gesù ai Dodici: «Forse anche voi volete andarvene?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio». Rispose Gesù: «Non ho forse scelto io voi, i Dodici?»” (vv. 67-70). Questo dialogo permette di comprendere le ragioni della sequela di quelli sui quali Gesù fonda la sua Chiesa, gli apostoli: da una parte troviamo il “credere” e “conoscere” dei discepoli, dall’altra lo “scegliere” del Signore. Dall’incontro delle azioni di questi due soggetti nasce la sequela autentica, quella che assicura la solidità della costruzione.

La scelta del Signore

Entriamo così in modo diretto al cuore del tema dei nostri ES. Dovremo esplorare la realtà della fede – in questo “anno santo della fede” – e lo faremo cercando di meditare e confrontarci con tre immagini molto comuni relative alla fede: dono, cammino e luce.

Già le parole che abbiamo ascoltato “Non ho forse scelto io voi, i Dodici?” indicano chiaramente che alla radice della fede si trova una scelta, un’elezione da parte del Signore. Un concetto molto caro all’evangelista Giovanni, che riporta le parole del Signore durante l’ultima cena: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (15,16) dentro la potente immagine della vigna e del vignaiolo.

Come interpretano i discepoli la scelta operata dal Signore? Inizialmente si sentono molto calati in una parte che però ha male interpretato la missione di Cristo. Matteo tesse i suoi ricordi facendo emergere davanti a ciascuno dei tre annunci della passione le piccolezze dei prescelti.

Il Signore ha appena riconosciuto nella professione di fede di Pietro l’intervento rivelatore del Padre (16,1-20). Quindi comincia a spiegare quello che lo attende in termini di sofferenza, morte e risurrezione (16,21). Ma proprio quel Pietro sul quale aveva fondato la sua Chiesa, lo rimprovera augurandogli un destino diverso (16,22). Il discepolo, divenuto più grande del suo Maestro, è però cieco sulla portata della sua missione.

Dopo non molto tempo giunge il momento del secondo annuncio di passione (17,22-23) che rattrista i discepoli. Ma non al punto da scoraggiarli nel preparare la successione. Se infatti il Signore fosse scomparso, a chi di loro sarebbe toccato doverlo sostituire? Forse a quel Pietro che lui aveva davanti a tutti chiamato Satana (16,23)? Matteo appare più discreto di Marco (9,33-36) e di Luca (9,46-47) nel ricordare l’episodio, ma la sostanza non cambia: i discepoli sono preoccupati di capire chi tra di loro potesse essere ritenuto il più grande (Mt 18,1-4).

Il terzo annuncio della passione, morte e risurrezione (20,17-19) viene seguito dalla domanda interessata di Giovanni e Giacomo. Questi due fratelli erano stati soci di Pietro e Andrea in una piccola impresa di pescatori. Il posto di leader si sta liberando, questo è sempre più chiaro. Ma pare che finalmente gli apostoli si siano convinti che la guida di Gesù ha un futuro nel regno del Padre. E perché non conquistarsi un posto d’onore proprio lì? Uno alla destra e uno alla sinistra del Figlio di Dio? (20,20-23). Naturalmente una richiesta di questo genere non può passare inosservata agli altri dieci, i quali si sdegnano con i due fratelli. È in atto una lotta di potere, quale traspare dalle parole pazienti del Signore (20,24-28).

Gesù ha scelto dodici persone, li ha istruiti, ha dato loro segni del tutto originali, li ha messi a parte della sua missione e di quello che li attendeva nel futuro. I dodici hanno interpretato tale scelta, tale elezione come una scelta “mondana” fatta di onori e di poteri, di gerarchie e di arroganza, di ambizioni e di arrivismi.

Penso possa essere utile soffermarsi a riflettere, almeno a livello personale, in che modo ciascuno di noi accoglie la scelta, l’elezione operata dal Signore. Si tratta di un utile esercizio per comprendere in che misura il nostro cuore si dispone ad amare il Signore in modo puro e in che modo siamo disposti a servire i nostri fratelli e le nostre sorelle.

La fioritura della fede

Quando finalmente possiamo dire che i discepoli del Signore “credono”? Abbiamo un utile indizio in quel passaggio del vangelo di Giovanni che narra l’ingresso nel sepolcro vuoto dopo la risurrezione del Signore, quando – come ricorda l’evangelista che fu anche protagonista dell’episodio – “vide e credette” (Gv 20,8). Non vide il Signore risorto, non vide angeli, non vide miracoli: vide un sepolcro vuoto e le bende riposte. Allora si può dire che “credette”.

In questo senso la figura che più ci è di aiuto, per la sua esperienza personale e per i suoi scritti, penso sia S. Paolo. Egli non fu nel numero degli apostoli, quindi a rigore alcune espressioni che abbiamo letto nel vangelo non gli si dovrebbero attribuire. Tuttavia Paolo si ritiene “apostolo” anzi, scrivendo al suo discepolo Timoteo dice esplicitamente di essere “apostolo di Cristo Gesù per comando di Dio nostro salvatore e di Cristo Gesù nostra speranza” (1 Tm 1,1). La sensibilità di Paolo lo spinge ad interpretare la sua vicenda umana e cristiana come una parabola della conversione.

Alla base vi era la sua ignoranza, che Paolo sembra giudicare non colpevole, per quanto egli fosse stato un persecutore e un violento. Dio però gli aveva usato misericordia, lo aveva riempito della sua grazie e da lì della fede e dell’amore. Anzi lo aveva ritenuto degno di fiducia mettendolo al suo servizio (1 Tm 1,12-14). Quindi Paolo giunge a questa conclusione: “Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, a esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna” (1 Tm 1,15).

La fede in Gesù, sembra dire Paolo, non fiorisce per caso. Essa risponde ad un disegno amorevole del Padre “il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2,4). Egli perciò ne sceglie (chiama) alcuni, giudicandoli degni di fiducia, ai quali affida la missione di incarnare la parola di misericordia e di amore ad immagine di suo Figlio.

La risposta dell’uomo, secondo le parole di Paolo, è un atto di obbedienza al “comando di Dio”. “Ob – audire”, secondo l’espressione latina; obbedire, agire a motivo di quello che si è ascoltato. L’esperienza quotidiana ci dice quanto facile possa essere la pratica dell’obbedienza. Io lo vedo tutti i giorni anche tra persone che sorridono parlando di voto di obbedienza o di promessa di obbedienza. Squilla il loro cellulare ed essi subito “Pronto!”, ovunque si trovino, persino mentre guidano l’auto. Si tratta di vera obbedienza! Hanno agito, rispondendo, a motivo del suono che hanno ascoltato!

La Costituzione conciliare Dei Verbumin un passaggio importante offre a tutti gli uomini questa semplice verità:

A Dio che rivela è dovuta « l’obbedienza della fede» (Rm 16,26; cfr. Rm 1,5; 2 Cor 10,5-6), con la quale l’uomo gli si abbandona tutt’intero e liberamente prestandogli «il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà» e assentendo volontariamente alla Rivelazione che egli fa. Perché si possa prestare questa fede, sono necessari la grazia di Dio che previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi dello spirito e dia «a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità». Affinché poi l’ intelligenza della Rivelazione diventi sempre più profonda, lo stesso Spirito Santo perfeziona continuamente la fede per mezzo dei suoi doni (DV 5).

La fede fiorisce perché Dio si rivela, aiutando interiormente l’uomo ad accoglierlo, e perché l’uomo non solo non si oppone, ma si abbandona a lui, lasciando che lo Spirito Santo lo perfezioni con i suoi doni.

La fede fiorisce quando si percepisce in modo distinto ed inequivocabile di essere stati eletti per amore e solo per quello; nessun merito precedente, ma lo sguardo affascinato ed affascinante di un Dio innamorato della sua creatura.

La fede fiorisce senza ripensamenti quando l’intelligenza si china davanti al suo Creatore e si abbandona senza riserve alla sua volontà salvifica.

Il dono della fede

L’immagine della fede come dono, cioè come puro atto di liberalità del Signore da accogliere dall’uomo, come tutte le immagini ha qualche limite. In particolare qualcuno potrebbe essere indotto a pensarla come ad un “pacchetto”. Il modello della fede “a pacchetto” lascia immaginare uno scatolone imballato dentro il quale c’è tutto: una volta aperto si tira fuori il contenuto e si dispone ogni cosa al proprio posto. Un modello per certi versi tranquillizzante, per altri deludente.

La delusione più grande della nostra generazione rispetto al modello della fede “a pacchetto” risiede nell’assenza di creatività, di partecipazione. Appare una fede “fredda”; esteticamente molto bella, anche funzionale, ma senza anima.

Molti si sono allontanati dalla fede per questa ragione. A loro risulta incomprensibile come possano prestare “pieno ossequio” di intelletto e volontà ad una fede dove non c’è spazio per l’esercizio delle facoltà dell’uomo: capire, appassionarsi, fare esperienza.

Papa Pio XII ha scritto un’enciclica dal titolo Fidei donum, il dono della fede, che inizia proprio con queste parole:

Il dono della fede, cui, per divina elargizione, va congiunta nelle anime dei fedeli un’incomparabile abbondanza di beni, domanda apertamente la nostra perenne gratitudine al suo divino autore…Che cosa offriremo al Signore in cambio di questo dono divino, oltre l’ossequio della mente, se non il nostro zelo per diffondere tra gli uomini lo splendore della divina verità? Lo spirito missionario, animato dal fuoco della carità, è in qualche modo la prima risposta della nostra gratitudine verso Dio, nel comunicare ai nostri fratelli la fede che noi abbiamo ricevuta.

Il Papa con questa enciclica cerca di dare una risposta all’urgenza della missione, soprattutto in Africa, chiedendo ai vescovi di tutto il mondo di mettere a disposizione dell’evangelizzazione anche i sacerdoti diocesani; da allora i sacerdoti diocesani missionari sono stati chiamati proprio così, sacerdoti fidei donum, frutto di questa enciclica.

La fede “a pacchetto” è insoddisfacente, e per certi aspetti deludente, se non riesce a mostrare l’intima connessione tra vocazione e missione del credente. Se non riesce a dilatare il cuore alla cura e all’amore per il prossimo. Su tale connessione si gioca la credibilità del nostro essere cristiani nel mondo contemporaneo.

Con un’avvertenza, quella chiara a Giacomo nella sua lettera: “Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede” (Gc 2,18). Così direi senza molti problemi che molte persone pur affermando di non aver fede la mostrano nei fatti. Sono anche loro cristiani anonimi, secondo la fortunata e dibattuta espressione di un grande teologo del secolo scorso, Karl Rahner, cioè uomini e donne toccati dalla grazia e pronti a porsi al servizio di Dio, ma che ancora non hanno ricevuto la sua rivelazione. Per questo la loro fede resta embrionale, oscura, reale ma incompleta. Eppure seguono una voce interiore, alla quale “obbediscono”, che insegna loro ad amare il cosmo, a rispettare il creato, a sostenere i poveri e i deboli, a servire i bisognosi, i feriti, i profughi, i rifugiati.

Noi siamo chiamati sicuramente a “giudicare i segni dei tempi”; tra di essi troviamo testimonianze nuove, diverse, creative che mostrano un’azione profonda dello Spirito nell’uomo. Dovremo domandarci se il modello di fede che seguiamo riesce davvero a rispondere in modo fedele alle novità che lo Spirito porta tra gli uomini.

A questo scopo dovremo perciò attingere ad altre immagini, che possano aiutarci a definire meglio il senso dell’essere credenti: la fede come cammino e la fede come luce.