Misericordiando

Esercizi Spirituali – Figlie della Chiesa, Domus Aurea, Ponte Galeria (RM)
Omelia della festa di san Matteo, Apostolo ed Evangelista

Letture

La Civiltà Cattolica n. 3918  del 19 settembre 2013 ha pubblicato un’intervista del direttore, padre Spadaro, a Papa Francesco, realizzata il 19, 23 e 29 agosto. La prima domanda rivolta dal giornalista è stata: “Chi è Jorge Mario Bergoglio?”. Il Papa ci pensa un poco e poi risponde: “Io sono un peccatore. Questa è la definizione più giusta. E non è un modo di dire, un genere letterario. Sono un peccatore”.

Nel proseguire la conversazione Papa Francesco ricorda anche gli esordi della sua vocazione e il fascino che ha esercitato su di lui la vocazione di Matteo. Aggiunge: “Sono un peccatore al quale il Signore ha guardato”».  Il Papa quindi ricorda il suo motto Miserando atque eligendo tratto dalle Omelie di san Beda il Venerabile a commento proprio dell’episodio della vocazione di Matteo, che la liturgia delle ore pone nell’Ufficio divino del giorno: “Vide Gesù un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: Seguimi”.  Al Papa il gerundio latino miserando sembra intraducibile perciò lo traduce con un altro gerundio che però non esiste: misericordiando (p. 451).

La celebrazione odierna deve essere molto cara a Papa Francesco. Questo ci dà l’occasione per rivolgere a Dio una preghiera tutta particolare per lui, come Vescovo di Roma e come Papa della Chiesa universale. Lo ricordiamo volentieri, chiedendo al Signore di sostenerlo e di consolarlo nel suo ministero.

Ora riflettendo sulla festa di San Matteo mettiamo subito in rilievo il fatto che coincide con il giorno che abbiamo scelto di dedicare alla riconciliazione, con la celebrazione pomeridiana. Scelta non del tutto casuale. La festa, infatti, mette in risalto una serie di elementi che ben si adattano ad un clima allo stesso tempo penitenziale, riconciliante e gioioso. In tre passaggi ci soffermiamo su ciascuno di tali elementi.

La chiamata

L’intera liturgia ruota attorno al gesto della chiamata, della vocazione. Gesto che nel vangelo viene narrato (Gesù vide un uomo e gli disse “Seguimi”), mentre nella prima lettura viene dichiarato (chiamati alla speranza della vocazione). Interessante notare che nel vangelo si dice che quell’uomo seduto al banco delle imposte fosse “chiamato Matteo”. Altri “chiamavano” quell’uomo; il suo nome era noto, giustamente chi si rivolgeva a lui doveva “chiamarlo” Matteo. Però Mc 2,14 e Lc 5,27 ci dicono che egli era conosciuto anche con un altro nome, Levi. Solo l’evangelista protagonista dell’episodio ricorda il nome “Matteo”. Non era raro in passato possedere più di un nome, magari un soprannome per distinguere due o più persone con lo stesso nome. Così accade per esempio con Cefa, che infine tutti conoscono con il soprannome di Pietro. L’analisi del testo greco riserva una sorpresa. Mentre Marco dice semplicemente che Gesù “vide Levi”, Luca ci conferma che il suo “nome” era Levi. Solo l’interessato dice di essere “chiamato” Matteo. In ebraico Levi era un nome molto comune tra la casta sacerdotale, e forse quella era l’origine di un evangelista che dimostra di conoscere molto bene la fede ebraica. Matteo è un nome il cui significato si può tradurre anche in altre lingue, deriva da Matithya, composto da matag, “dono, regalo”, e da Yah, abbreviazione di Yahweh: significa “dono di Dio”.

Nessuno ci ha raccontato direttamente questa storia; la lettura dei vangeli ci suggerisce che nella vita di Matteo deve essere successo qualcosa di straordinario, al punto che egli non solo riconosce di aver ricevuto un qualche dono da Dio, ma addirittura si considera “dono di Dio”. C’è un momento, nell’esistenza di quest’uomo seduto al banco delle imposte, in cui le sue origini familiari, la sua storia personale, le sue scelte di vita vengono stravolte, spazzate via o forse integrate ed unificate in un evento eccezionale che cambia profondamente l’intera persona di Levi e la fa diventare “dono di Dio”, Matteo.

Tale deve essere stata la percezione che Matteo ebbe della sua chiamata. Di essa egli ricorda il nuovo senso dato alla sua vita e testimoniato dal nome nuovo ricevuto.

La grazia

Nella prima lettura Paolo afferma l’esistenza di una grazia (secondo la misura del dono di Cristo) profondamente legata alla vocazione. Da una parte egli dice che la vocazione è “speranza”, dall’altra che essa viene ricolmata di grazia “allo scopo di edificare il corpo di Cristo”. Tale grazia viene identificata da Paolo con le funzioni e i ministeri distribuiti da Cristo stesso al servizio della Chiesa.

Servire i fratelli è “grazia”. Spesso abbiamo sbagliato nel considerare il servizio una sorta di impegno o di compito, quasi si trattasse del biglietto da pagare per essere salvati. Tutto da rifare, è il contrario. Per il credente il servizio è “grazia”, è Cristo che ci ha “guardati”, ha posato su di noi il suo sguardo, e ci ha affidati i suoi fratelli. Ci ha considerati “degni”. La mentalità del mondo non ha sufficienti categorie per descrivere l’enormità di certe missioni. Pensiamo a quella dei genitori. Sempre più spesso si sente parlare di “diritti”: diritto ad avere un figlio, ad adottare un figlio, ad avere uno o due genitori… E si perde di vista, in tal modo, tutta la carica di gratuita elezione insita in un “servizio” da rendere nei confronti della persona umana, verso la quale non potrò mai campare diritti. La persona umana è irriducibile alle mie esigenze, alle mie soddisfazioni, alle mie ambizioni.

La grazia – come dono per un servizio – ci rivela che nessuno ci appartiene e si appartiene completamente e che esiste sempre un margine di “cose ricevute” verso le quali nessuno può rivendicare nulla.

Misericordiando

Il gerundio inesistente scelto da Papa Francesco per tradurre quello latino, arricchisce di nuovi significati la nostra comprensione del brano evangelico. Se non ricordo male il film “Gesù di Nazareth” di Zeffirelli, il regista colloca nella scena del pasto con i peccatori un tenerissimo sguardo di Gesù rivolto a Pietro. Il buon Pietro è interdetto. Lui è pio ebreo, la chiamata di Matteo lo ha sicuramente interrogato: mettersi a fianco di un pubblicano! E il Signore accetta l’invito a pranzo, mangia con i peccatori: sconvolgente. Pietro non entra, resta sulla porta. Nel film a lui si avvicinano i farisei e a lui chiedono il motivo per cui il Maestro mangia con i peccatori. La tentazione si fa presente così a Pietro: se davvero quello è il Maestro, il Santo, il Signore non può, non può mescolarsi con i peccatori.

Pare che Gesù, pur stando in fondo alla stanza, abbia sentito quelle parole. Lui comincia a parlare, le voci si abbassano: Misericordia io voglio e non sacrificio… non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. A quel punto i due sguardi quello di Gesù e quello di Pietro si incontrano, a Pietro spuntano le lacrime agli occhi ed infine anche lui entra per far festa.

Questo è “misericordiando”. Incrociare uno sguardo che non giudica, non rimprovera, non si altera, sereno e benigno, che sa tirare fuori da ogni persona il meglio che possiede, che sa sciogliere i legami, curare le ferite, pacificare, fortificare. Uno sguardo che perdona, certo, ma va oltre il perdono. Raggiunge i cuori, anche quelli più corazzati, per scavare dentro di loro e deporre un germe di abbandono e di felicità.