Di naufragi e d’altre sinodalità

Butt (a sinistra, in uniforme) nel portico della Casa Bianca. Al centro della foto Robert Baden-Powell (fondatore dello scoutismo), il Presidente Taft e l’Ambasciatore Britannico Lord Bryce – Febbraio 1912 (fonte)

Il Maggiore Archibald Willingham DeGraffenreid Clarendon Butt (1865–1912) tornava negli Stati Uniti.

Butt, giornalista e militare, era stato consigliere di due Presidenti.

Per il Presidente Theodore Roosevelt aveva rappresentato più di un semplice consigliere militare; lo trattava come un fratello più piccolo, come un membro della sua famiglia.

Il successore, il Presidente Taft, lo considerava un amico leale, gentile e competente, un cristiano autentico e un perfetto soldato.

Butt aveva appena concluso una vacanza di sei settimane in Europa. Era stato anche in missione in Vaticano. Aveva incontrato Papa Pio X e gli aveva consegnato una lettera personale del Presidente Taft. Nella lettera il Presidente ringraziava il Papa per aver elevato tre americani al rango di cardinale e chiedeva quale fosse il protocollo sociale per salutarli nelle loro nuove funzioni.

Francis Davis Millet ritratto nel 1878 da George Willoughby Maynard (1843 – 1923)

Il Maggiore Butt solitamente aveva al suo fianco il suo compagno, Francis Davis Millet (1848-1912), un artista di venti anni più grande di lui di cui si era invaghito in gioventù. Tutti sapevano, ma “don’t ask, don’t tell“…

Entrambi si trovavano sul Titanic quel 15 aprile 1912 quando il transatlantico affondò nell’Oceano. Testimoni dicono che Archie abbia aiutato molte persone a salvarsi, restando tra gli ultimi nella nave ormai paurosamente inclinata. Accanto a lui Francis, colui che aveva tanto premuto per quella vacanza insieme.

Non si lasciarono soli. Entrambi perirono nel naufragio, l’uno accanto all’altro nella morte come nella vita. Insieme ad altre 1.500 persone.

Perché il Titanic naufragò?

La nave più grande, più bella mai costruita, l'”inaffondabile” – come veniva chiamata – s’inabissò nel suo viaggio inaugurale. Le due commissioni che studiarono il caso, una inglese l’altra statunitense, furono concordi e individuarono una serie di concause:

  • passeggeri ed equipaggio erano stati colti alla sprovvista dall’emergenza in quanto nessuno aveva predisposto piani per casi simili;
  • l’equipaggio, piuttosto raccogliticcio, non era stato adeguatamente addestrato;
  • il Capitano Edward Smith, al suo ultimo comando dopo 40 anni, non aveva ricevuto o aveva sottovalutato gli allarmi via radio sulla presenza di ghiaccio lungo la rotta;
  • il numero delle scialuppe era insufficiente per ospitare tutti i passeggeri e tutto l’equipaggio;
  • il Capitano di una nave in prossimità del disastro aveva trascurato le richieste di aiuto del Titanic.

Infine, ma non per ultimo, la granitica e irragionevole fiducia nelle qualità intrinseche di una nave considerata “inaffondabile” aveva alimentato la presunzione di potersi esimere da più stringenti valutazioni di sicurezza.

Tutte le cause erano riconducibili all’elemento umano.

Cosa insegna il Titanic alla barca di Pietro

La Chiesa, storicamente simboleggiata nella barca di Pietro, sa di essere inabitata dallo Spirito Santo e guidata da Cristo.

La seguente precisazione è utile per rispondere all’obiezione più prevedibile di chi legge l’accostamento della vicenda del Titanic all’esperienza della Chiesa: “la barca di Pietro non può affondare perché inabitata dallo Spirito Santo e guidata da Cristo“. Nel Primo Testamento si trovano tracce di una sicurezza analoga nei confronti del Tempio di Gerusalemme, considerato indistruttibile per la presenza di Dio. Ne è testimone tra gli altri il profeta Ezechiele. Dopo la catastrofe del 586 a.C. e dopo le lacrime di Gesù sulla Città Santa, la distruzione del 70 d.C. certificherà il definitivo declino di un sogno.

La Chiesa del Secondo Testamento avrebbe motivi più forti per sentirsi immune dai pericoli di eventuali catastrofi? Per rispondere occorre puntualizzare il senso preciso di “catastrofe” rispetto alla Chiesa. La catastrofe della Chiesa di Gesù non risiede nella profanazione di statue, nella dismissione e nuova destinazione di chiese e nella distruzione di basiliche, fosse pure San Pietro in Vaticano o la Sagrada Familia di Barcellona; non nella perdita del potere temporale o di privilegi economici o di primati numerici; nemmeno nella diffusa contrazione del clero e nel tracollo della vita battesimale. L’unica vera catastrofe della Chiesa di Gesù risiede nel fallimento attuale della sua missione di “sacramento di salvezza“. Equivale a dire che la comunità dei credenti diventa inabile a proseguire nel tempo la medesima opera di Gesù Salvatore, di fornire cioè alle persone contemporanee supplementi di speranza e di misericordia sufficienti a far vivere felicemente il cammino umano verso l’abbraccio con Dio. Più facile che la catastrofe, in questo senso, sia rappresentata esattamente dal possedere una cattedrale piuttosto che dal non possederla, dall’avere privilegi economici piuttosto che rinunciarvi, se tutte queste cose dovessero rappresentare un ostacolo invece di una facilitazione della missione stessa.

La promessa di Gesù che “le porte degli inferi non prevarranno sulla Chiesa” ci assicura che anche in tempi di maggiore desolazione non verrà meno la presenza storica della Chiesa o di ciò che ne resta. Ma non ci assicura il successo della missione ecclesiale. La Chiesa è indefettibilmente santa e il Popolo di Dio aderisce indefettibilmente alla fede trasmessa dagli apostoli. Ma indefettibilmente si riferisce all’integrità dei contenuti di santità e di fede, non suggerisce che infallibilmente tali contenuti raggiungeranno l’obiettivo che si propongono.

Peraltro la stessa missione della Chiesa non è esente dal giudizio finale, almeno in forma di giudizio universale, cioè d’insieme.  Come in una rappresentazione teatrale, il giudizio d’insieme potrebbe risultare negativo nonostante i riconosciuti ed applauditi meriti di qualche singolo attore (giudizio particolare). Senza trascurare che il Concilio Vaticano II invita i credenti a ricordare che la loro privilegiata condizione non va ascritta ai loro meriti ma ad una speciale grazia di Dio, per cui se non vi corrispondessero in pensieri, parole e opere non solo non si salveranno, ma saranno più severamente giudicati (LG 14).

Insomma, come per il Titanic meglio che la Chiesa non confidi nell’inaffondabilità della barca di Pietro se equipaggio e passeggeri non si dimostrano all’altezza delle situazioni, nonostante il comportamento eroico di persone quali il Maggiore Butt e il suo compagno Millet. Se l’elemento divino della barca di Pietro sarà garanzia di sopravvivenza almeno di un resto, all’elemento umano saranno imputabili le concause di un eventuale fallimento.

Sinodalità del naufragio

Il naufragio del transatlantico dimostra in modo inequivocabile la profonda solidarietà che lega quanti percorrono la stessa rotta sulla medesima imbarcazione. Nella lingua italiana tale immagine è diventata un efficace modo di dire: stiamo tutti sulla stessa barca. Il fatto di trovarsi tutti implicati, pur con interessi diversi, in un’unica condizione ancora una volta non è garanzia di successo. Si raggiunge la meta tutti insieme, ma si naufraga pure tutti insieme. Perché anche le scelte più condivise e in apparenza più illuminate restano pur sempre soggette all’imponderabile limite delle scelte umane. In questo senso si può persino parlare di sinodalità del naufragio.

Nella Chiesa, sotto pressione di Papa Francesco, si fa un gran parlare di sinodalità. Si fa appello ad un cammino condiviso tra tutti i battezzati, indipendentemente dal ruolo ecclesiale che rivestono, fatto di scelte comuni e coraggiose. Secondo l’etimologia greca il termine evoca l’immagine di percorrere insieme la stessa strada. Stando sulla stessa barca, si potrebbe anche tradurre rotta.

È sempre utile e doveroso rammentare che l’identità della Chiesa, barca di Pietro, non può prescindere dalla presenza attiva del Signore Gesù e dello Spirito Santo. La prova storica di tale presenza attiva che ha salvato e salva di continuo la comunità dei credenti dalle “porte degli inferi” (qualsiasi cosa significhi tale espressione apocalittica) si rinviene a posteriori considerando i risultati di certe azioni ecclesiali. Si pensi per esempio alle Crociate, non propriamente un successo sotto il profilo della missione della Chiesa, eppure diventate nei secoli, grazie alla loro condanna, occasione di recupero di una dimensione più umana e spirituale della fede religiosa. Si pensi al potere temporale del Papato, la cui perdita ha segnato l’inizio di un tempo di maggiore impegno morale dei Pontefici. Si pensi anche ai più recenti casi di pedofilia tra il clero, che stanno risvegliando nella coscienza le esigenze più profonde di un autentico ministero sacerdotale. Recupero della fede, maggiore impegno morale, risveglio della coscienza sono dimostrazione della presenza attiva del Signore Gesù e dello Spirito Santo nella Chiesa, in forma provvidente piuttosto che preveniente.

Ciò non toglie che la comunità dei credenti sia solidalmente e sinodalmente responsabile degli esiti della missione della Chiesa. Gli scandali destati da Crociate, da interessi temporali del Papato e da comportamenti immorali del clero sono destinati a rendere impermeabili le coscienze di numerose generazioni all’accoglienza di un messaggio evangelico ritenuto incoerente a causa della pessima testimonianza dei credenti. Non a caso lo stesso Concilio Vaticano II, rimproverando i fedeli di Cristo di non educare la propria fede, di presentare in modo ingannevole la dottrina e di avere difetti nella vita religiosa, morale e sociale, li addita come una delle cause dell’ateismo contemporaneo (GS 19).

La consapevolezza di aver in qualche modo tradito la missione di salvezza della Chiesa favorendo addirittura l’ateismo di molte persone contemporanee dovrebbe spingere non solo a ricercare le cause di tale insuccesso, ma anche a individuare gli strumenti più idonei a rimuoverle e a recuperare le occasioni perdute. Di questo processo di purificazione e di rinnovamento della compagine ecclesiale fa parte integrante la presa di coscienza della sinodalità del naufragio della missione della Chiesa, con la sopravvivenza di un resto di naufraghi che in qualche caso devono la loro salvezza all’eroismo di chi invece è perito nel naufragio. Non è più ammissibile che si affrontino con toni magniloquenti e trionfali i risultati penosamente scarsi della traversata della Chiesa nella storia, a bordo di qualche scialuppa di salvataggio.

Sinodo, metodo, esodo

Evocare gli etimi non costituisce un vuoto gioco di parole, ma permette di approfondire un argomento. Odos in greco significa “strada” e rientra in almeno tre termini utilizzati in italiano. Se sinodo significa percorrere insieme la stessa strada, metodo indica il modo (la strada) attraverso cui si giunge alla meta ed esodo identifica la via (strada) di uscita, di fuga.

Non è inopportuno evidenziare che “strada” implica un punto di partenza e un punto di arrivo. Il fine non è quello di restare in mezzo a una strada, ma di raggiungere una meta, un obiettivo, con la coscienza di abbandonare luoghi conosciuti e certi dirigendosi verso luoghi nuovi e desiderabili.

Sarebbe un grave errore se lo stile del cammino ecclesiale fosse quello di una crociera sinodale: tutti allegramente sulla barca di Pietro navigando in mare aperto per tornare al punto di partenza. Prima si prende coscienza che la Chiesa si sta muovendo verso una forma di se stessa ben diversa da quella che si conosce, prima e meglio si affronta il travaglio del viaggio. Con una non piccola analogia, i passeggeri di terza classe del Titanic migravano dal Vecchio Continente al Nuovo Mondo per cercare fortuna e lavoro, consapevoli che si sarebbero trovati in terre con lingue, stili di vita, culture quasi del tutto sconosciute.

A questo proposito non sfugge che, per quanto i dettagli della meta desiderata siano ancora avvolti dalle nebbie, l’obiettivo principale non può restare un implicito. La Chiesa vuol continuare ad essere sacramento di salvezza anche per le donne e per gli uomini del terzo millennio. Il che implica che i segni che essa pone siano intellegibili alla generazione presente e gli strumenti che essa adotta siano validi per lo scopo che si prefigge. Con esclusione tassativa di archeologismi esteticamente seduttivi, ma pastoralmente sterili e di rassicuranti tradizionalismi nostalgici, ma privi di reale efficacia spirituale.

La strada attraverso cui si raggiunge la meta non è ininfluente sul successo o sul fallimento del viaggio. Di solito partire alla ventura non è un’idea brillante, soprattutto se ci si muove in gruppi numerosi su terreni sconosciuti e pericolosi. Un buon metodo deve essere in grado di individuare il maggior numero di variabili possibili, comprese quelle emergenziali. La prova data dalla Chiesa in tempo di pandemia (un’emergenza umana e planetaria) dovrà essere ancora analizzata nel dettaglio, ma fin da ora si può dire che la reazione soprattutto delle gerarchie ha dimostrato rigidità del sistema e incapacità di reazione pastorale tali da comprimere in modo vistoso gli interventi della comunità cristiana.

Se a nessuno è dato di prevedere il futuro, è perciò necessario prepararsi ad affrontare le emergenze. Essere capaci di misurare i risultati, di riconoscere i fallimenti, di elaborare piani alternativi sono tutte azioni alla base di un progetto vincente di collaborazione con la Grazia di Dio. Nondimeno saper riconoscere ed ascoltare pur isolate voci profetiche, imparare a distinguere, evitare e respingere gli iceberg della storia pericolosi per la navigazione della Chiesa (e spesso tutt’altro che esterni al suo organismo), importare pratiche virtuose da fonti diverse persino da quelle religiose superando il sospetto e una certa forma di sprezzante distacco, consentono di coltivare l’umiltà senza la quale il messaggio cristiano finisce per apparire un sistema morale inapplicabile.

La strada da percorrere insieme verso una meta nuova deve assumere un carattere esodico: la via di uscita, di fuga dal pantano o, se si preferisce, la via di salvezza dal fallimento della missione, dal naufragio, è essa stessa meta e strumento per raggiungerla. Qualcosa da fare rapidamente, perché sempre di fuga si tratta, qualcosa che richiede un bagaglio leggero o forse, meglio, nessun bagaglio. Alla Chiesa che si interroga sinodalmente su cosa fare si dovrà prospettare come soluzione il liberarsi da tutti i pesi e da tutte le strutture che si opporranno al suo esodo: sia che si tratti di beni temporali e di privilegi economici, sia che si considerino onori, uffici e curie.

L’orchestra suonava

Un episodio della vicenda del Titanic ha molto colpito le generazioni successive.

L’orchestra continuò a suonare fino a circa l’1:40, mentre il transatlantico colava a picco inabissandosi completamente alle 2:20. Forse per dare l’impressione di normalità a chi non era riuscito a salire sulle scialuppe, forse in un estremo tentativo di dominare il panico.

L’ultima canzone eseguita fu un brano religioso del 1800, “Nearer, my God, to thee“, anche oggi molto conosciuto. Il testo italiano non rende giustizia all’originale inglese. La terza strofa, nella mia traduzione, dice così:

Degnati di mostrarmi la strada, passi fino al Cielo;
e che ti ringrazi di ogni cosa che mi hai dato.
Gli Angeli mi accompagnano
più vicino a te, Signor, più vicino a Te!

Gli otto musicisti morirono tutti nel naufragio.

 
Nel video: Nearer, my God, to Thee, direttore André Rieu, 500 ottoni insieme alla Johann Strauss Orchestra, Amsterdam (live, 2013)