Una tipica risposta da “maschio”

Ho letto fino in fondo l’articolo veloce e “arrabbiato” di Nicla VassalloSiamo persone libere prima di essere femmine e maschi” apparso sul blog del Corriere della Sera La 27ima ora il 2 maggio scorso. Preciso che la mia persona è di genere maschile e quindi mi attendo di essere tacciato di averlo letto fino in fondo seguendo una mentalità da “maschio” e che la risposta che darò è una tipica risposta da “maschio”. Dovremo farcene tutti una ragione, perché ormai superati i 50 anni e abbastanza adattato a questa condizione mi risulterebbe davvero scomodo comportarmi diversamente. E forse apparirei anche ridicolo, come certi 50enni che continuano a voler sembrare adolescenti con la scusa che “non si invecchia se il cuore è giovane”.

Questo post consta di tre pagine. A pagina 1 (questa!) potete leggere le mie idee, le suggestioni in reazione all’articolo di Nicla Vassallo. A pag 2 troverete riprodotto l’articolo tale e quale, riportato qui per timore che possa scomparire dal web, e a pagina 3 la nota biografica che lo accompagnava (errori compresi).

Premetto che tutto sommato sul titolo dell’articolo potrei trovarmi d’accordo: siamo persone libere prima di essere femmine e maschi. Naturalmente non senza qualche precisazione (una sorta di declaratio terminorum). Cosa si intende per “persona”? E cosa per “libertà”, declinando qui il sostantivo al posto dell’aggettivo?

Comincerei da quest’ultima. Penso non sia difficile per nessun filosofo (ma in fondo siamo tutti un po’ filosofi…) ammettere che il concetto di libertà è uno dei più liquidi che si ricordi a memoria d’uomo. Pur volendo ipotizzare che non esista una libertà assoluta e che la libertà umana, alla quale facciamo riferimento, non è priva di condizionamenti, in che modo potremmo definire la libertà “individuale” senza che questa vada a scontrarsi necessariamente con la libertà di un altro individuo? E soprattutto chi ci garantisce che quella libertà sia tale?

Domanda da liceale: mangio il piatto di pastasciutta (e non le formiche arrostite, ottime in certe zone dell’Africa sub sahariana) perché sono davvero libero di dire che mi piace o perché appartengo ad un contesto culturale, quello italiano, dal quale ho subito un rilevante condizionamento gastronomico? E se in futuro decidessi di diventare vegetariano ed evitassi del tutto la carne, quanto sarei più libero di un indù che non l’ha mai mangiata in vita sua per ragioni religiose?

Dovrei faticare molto a far accettare all’africano che esistono alternative migliori ad un piatto di formiche arrosto e all’indù che non sa cosa si perde se non assaggia una bistecca alla fiorentina. Probabilmente non ci riuscirei. Anzi dovrei mettere in conto l’eventualità che l’incomprensione possa addirittura sfociare in aperta ostilità nei miei confronti, rimproverato di voler compiere una “violenza”, di voler spingere ad un atto “controcultura”. Ricordiamoci che la storia documenta ampiamente tali generi di “violenza” ad opera di colonizzatori ed affini su culture ritenute sottosviluppate.

E qui si aprirebbe un altro capitolo, ma lo accenno brevemente perché ci porterebbe lontano. Da dove proviene la legittimazione di un soggetto ad affermare che una cultura è “sottosviluppata”? L’articolo in questione, a sostegno della sua tesi circa l’italico sottosviluppo in merito alla parità dei generi, cita il Global Gender Gap 2012 del World Economic Forum che pone l’Italia all’ottantesimo posto. Senza nessuna nota polemica, ma sarebbe importante sapere chi ha stabilito e in base a quali principi i parametri, i criteri ultimativi con i quali decidere se un certo attributo sociale sia un gender gap oppure no.

Tornando alla libertà, mi domando se siamo certi che la libertà sia la possibilità di scegliere tra il bene e il male. Se, per esempio, sia stata libertà quella degli attentatori delle Torri gemelle. Sono certo che, potendolo, molti avrebbero fatto in modo da impedire l’esercizio di quella rivendicata “libertà”. Mentre gli attentatori hanno ritenuto di poter portare a termine il piano criminoso nella convizione di compiere un’opera buona e meritoria. Così questa libertà “morale” ha dovuto fare i conti con circa 3000 altre libertà morali che senza decidere nulla sono finite per diventare vittime. Non liberamente, ovvio.

La libertà, dunque, sarebbe prima di tutto? Prima ancora di essere maschio o femmina, al punto che un soggetto potrebbe anche stabilire a posteriori se essere maschio o femmina? Naturalmente, senza scomodare troppo la biologia, solo riguardo al fenotipo, perché il genotipo quello è e quello rimane. Oppure riguardo la più ampia sfera psichica, laddove trovano spazio convinzioni, piaceri, emozioni; ma con quale sicurezza potrei argomentare che si tratti di autentica libertà se proprio la sfera psichica è il regno incontrastato di quei condizionamenti che fanno mangiare pastasciutta in Italia e formiche in Africa? Quanto potrebbe essere libero di scegliere il proprio gender un “maschio” la cui madre voleva una femmina e per questo gli ha fatto provare sensi di colpa o rimorsi? Si tratta di un caso limite, paradossale, da romanzo ma non per questo meno valido da portare ad esempio, insieme agli altri, per suffragare l’ipotesi (nemmeno voglio azzardarmi a formulare una tesi) che la pretesa di una libertà personale spinta fino ad ergersi ad istanza ultima e definitiva sia troppo fragile.

Ancora. Mi sembrerebbe privo di senso banalizzare l’essere maschio o femmina nel “ridurci ad incarnare i ruoli del maschio e della femmina“, ma altrettanto poco “filosofico” “cercare e indagare con fatica il proprio sé” come alternativa all’adesione a quelli che vengono definiti “modelli atavici“. Essere maschio e femmina è un brutale dato di fatto biologico e contra factum non datur ratio. Non richiede né adesione ad un presunto modello o incarnazione di un ruolo, né esplorazione del “proprio sé” (ma davvero poi le persone esplorano il “sé” e sono così tanto propense a dimenticare l'”io”? Questa sì, sarebbe una svolta epocale, la finiremmo una volta per tutte con l’era dell’egoismo, partiremmo invece alla ricerca del “Responsabile di Tutto”, qualcuno che possa dire “io”come soggetto agente).

Probabilmente, se le parole vogliono ancora dire qualcosa, l’autrice avrebbe potuto meglio ricorrere al concetto di “donna – uomo”, eticamente più rilevante e meno agganciato alla biologia della coppia “femmina – maschio”. Ovviamente anche al concetto di persona, che guarda caso viene di solito aggettivata con “umana”, in riferimento al genere umano e non al (cosiddetto) gender maschio-femmina. Non dobbiamo rifare la storia del concetto di persona e di quello di individuo. Qui ci basti dire che il più antico dei due è il secondo, che ben si presta a incapsulare un ente astraendolo dal contesto. L’individuo indivisibileatomico è un ente come appare, senza nessun rapporto con altri, è quello che è in se stesso. La persona tutto il contrario: concetto filosofico complesso, indica un ente in quanto in relazione. Ben calato ed integrato nel suo contesto. Un ente che è quello che è in rapporto agli altri.

Qui non si può dar torto a chi sostiene che tutto sommato “proprio quando non partiamo dal considerarci essenzialmente femmine o maschi, diventa prioritaria la ricerca del nostro io“. E certo: se femmine o maschi vuol dire alterità nella relazione e questa relazione viene volontariamente obliterata, alla fine uno non sa più nemmeno chi sia. Paradossalmente non è per via dell’esistenza di un gap che ci si trova costretti a ricostruire un’identità, ma proprio perché il gap sembra scomparso si solleva la polvere della confusione dei “sé”.  Con funambolismi vari, l’autrice dell’articolo passa in modo disinvolto dalla ricerca del “sé”, alla formazione dell'”identità personale”, all’affermazione “dell’individualità di ogni donna e di ogni uomo”, forse non percependo completamente di aver mescolato tre correnti tanto diverse e altrettanto inconciliabili di pensiero (ricerca del “sé” da filosofie orientali a psicanalisi, identità personale in ambiente di derivazione giudaico-cristiana, individualità mutuata dalla filosofia greca ed ellenistica). In ogni caso appare evidente il modello antropologico che l’autrice ha abbracciato, dove l’essere umano sembra preoccuparsi essenzialmente di una cosa, sfuggire modelli stereotipati per tendere “a comprendere il proprio io, quell’io che ci differenzia da ogni altro io, quell’io per cui ognuno di noi è se stesso“. Una forma di solipsistica e narcisistica autocontemplazione individualista che esalta quella differenza da ogni altro essere, differenza che però in premessa costituiva esattamente l’oggetto della denuncia. Perché accettare la differenza sessuale, sembra dire l’autrice, che ci sottopone ad un condizionamento sociale e culturale inaccettabile, quando possediamo un io totalmente originale e “diverso” da qualsiasi altro?

Chissà, forse il gioco dialettico si consuma in questo punto, in uno pseudo rovesciamento hegeliano dell’uomo, dove ciò che è “accidente sostanziale” viene declassato a “accidente per accidens” mentre quello che rappresenta l’essenza dell’ente si considera semplicemente un assoluto decorticato da tutto (compresi gli accidenti), appeso alla sua sovrumana libertà di scegliersi gli accidenti giusti e in definitiva eletto a Dio di se stesso.

Passo sopra la citazione paolina che l’autrice propone, mi pare non sia molto utile decontestualizzare il personaggio e far finta che la sua affermazione appartenga ad un modello di pensiero arcaico e delegittimato, solo perché rappresenta un modo di pensare diverso da quello della stessa autrice. Attingo dalla sua conclusione, che rifà il verso ad Heidegger: “siamo esseri nel mondo, mondo in cui veniamo però categorizzati innanzitutto in base al nostro sesso e genere di appartenenza“. Non so in quale mondo “sia” l’autrice e che persone frequenti. In quello che frequento io, sono “categorizzato” (brutto dirlo, ma lasciamo per beneficio di inventario) per ben altre cose che non siano sesso e “genere di appartenenza” e, da che ho memoria, nel mondo che frequento io quel che conta è la dignità della persona, la sua intelligenza, la sua bontà, la sua volontà.

Se l’autrice vuole, glielo presento.