La vocazione all’unità è un dono pasquale

Articolo apparso su Comunità, Settembre-Ottobre 1999, n. 9/10 – anno XXVI

L’evangelista Giovanni è un originale, lo sappiamo. In un paio di casi si tratta di un’originalità tale da lasciare perplessi. Contro la tradizione degli altri tre evangelisti, Giovanni pone la cena pasquale il venerdì (cfr Gv 18,28), e la morte sulla croce in coincidenza con il sacrificio degli agnelli nel tempio di Gerusalemme, il sabato. In quell’occasione conviviale Gesù intesse una serie di discorsi: e per Giovanni il ricordo dell’eucaristia è sostituito dalla lavanda dei piedi, posta in cima a tutti i discorsi di quella sera.

Tra essi un posto essenziale occupa la grande preghiera sacerdotale (cap. 17). Essenziale in quanto a partire da quella preghiera si deve comprendere il rapporto di Gesù con il Padre, l’idea di comunità che Gesù possiede rispetto alla chiesa nascente, le relazioni con il mondo nella prospettiva della missione che egli lascia ai suoi. Si è soliti mettere in evidenza l’insistente richiamo all’unità che attraversa la preghiera. Di certo appare interessante che esso sia contenuto all’interno di una preghiera, sia oggetto di una specifica richiesta del Figlio al Padre.
La domanda di unità di Gesù nasce al momento in cui egli prende atto di ritornare al Padre: i suoi rimangono soli (17,11). Quando era tra i suoi li proteggeva lui (17,12), ma con il suo ritorno al Padre li lascia in balia di una mondo che li odia e di un Maligno che li assale (17, 14s). Nondimeno essi ricevono il compito di suscitare la fede del mondo per mezzo della loro unità (17,20s).

A tracciare un bilancio provvisorio da queste poche righe, dobbiamo dire:

  • L’unità è un dono pasquale. Gesù dona se stesso (17,19) come l’agnello pasquale di memoria biblica, al fine di introdurre i suoi in una relazione speciale con Dio. Dalle parole di Gesù l’unità appare meno un impegno dell’uomo che un dono del Padre il quale accoglie il Figlio e la sua preghiera.
  • La chiesa ha voluto maturare l’accoglienza della diversità in quanto valore fin dai fondamenti stessi della fede. L’unità nella fede non rifiuta la diversità di manifestazione della verità: rifiuta il rifiuto, l’arroccamento sulle proprie posizioni come esclusive. Giovanni, l’evangelista originale, non è uniformato, omologato agli altri, alla maggioranza, e tuttavia risulta credibile sullo stesso piano degli altri.
  • Ciascun uomo ha diritto di sentirsi circondato della cura e della protezione del fratello: ecco l’unità. Inizialmente è Gesù a prendersi carico dei suoi e a proteggerli (17,12). Egli sa che il Padre proprio per questa ragione glieli aveva dati. Al termine della sua vicenda terrena Gesù riconosce che la salvezza si gioca nel sostegno vicendevole dei fratelli uniti tra loro.
  • Il desiderio di Gesù è quello di rendere partecipi i suoi delle stesse emozioni, della stessa gioia, della stessa “gloria” del suo essere Figlio. In realtà il dono dell’unità possiede un ben preciso orientamento. Esso prende le mosse dal grande amore di Gesù per tutti gli uomini con i quali condivide la sua umanità (17,26) e va nella direzione di portare gli uomini a condividere anche la sua divinità e la sua meravigliosa esperienza di figliolanza (17,21ss). Il Padre, che ha amato il Figlio prima della creazione del mondo, resta il termine ultimo della preghiera di unità del Figlio (17,24).

Tali considerazioni non passano sotto silenzio alla coscienza della chiesa. Soprattutto davanti al fenomeno polimorfo delle divisioni dei credenti, l’appello all’unità, prima ancora di fondarsi su un’esigenza disciplinare, riceve forza dalle parole di Gesù: che siano una cosa sola. È possibile interpretare gli insuccessi registrati nel passato a proposito dell’unità come un segnale ben preciso: da Gesù in poi, per la prima volta nella storia, l’umanità, nella chiesa e fuori di essa, raggiunge in grado elevatissimo la consapevolezza della sua vocazione all’unità, ed avverte la rottura del processo di convergenza verso l’unità come un fallimento.
Quelle parole, che siano una cosa sola, dette quasi a mo’ di sospiro, di nostalgico desiderio, improvvisamente assumono la prospettiva di un progetto posto sotto il segno della trascendenza (dunque incomparabilmente più forte di ogni tendenza contraria) al quale, consapevole in misura diversa, ogni uomo di ogni tempo sta partecipando.

Infatti nel quadro religioso cristiano si può prendere atto con piena consapevolezza che

  • * il riconoscimento dei diritti universali della persona umana, singolarmente e socialmente
  • * l’esecrazione pressoché unanime di metodi violenti per la composizione dei conflitti di qualunque natura, soprattutto religiosa, e il rifiuto di accettarli come irrispettosi della dignità dell’uomo
  • * gli sforzi di creare con la cooperazione tra gli Stati organismi politici sovranazionali
  • * gli impegni economici volti a “globalizzare” i mercati planetari
  • * i mezzi tecnici che permettono di spostarsi rapidamente sulla terra (e fuori di essa), di informarsi e comunicare, di rendere accessibile la cultura nel tempo

sono altrettanti segni di adesione alla, e realizzazione della, aspirazione di Gesù ad una integrazione degli uomini tra loro, senza frontiere etniche, religiose, politiche, sociali e culturali.

La permeabilità tra chiesa e realtà umana ci assicura, infine, che i cristiani partecipano attivamente al processo di integrazione dell’uomo non solo collaborando con ogni uomo, ma rappresentando e favorendo l’integrazione dell’uomo con Dio Padre, sia dentro la realtà delle chiese cristiane sia al di fuori di essa. Se infatti la condivisione di valori autentici anche con non credenti può essere considerata un grande passo verso la comunione con un unico Padre, ancor più sarà vero che la ricerca di dialogo tra cristiani di diverse confessioni e la valorizzazione delle rispettive originalità rientra in quel progetto di integrazione contenuto nelle parole della preghiera sacerdotale.