Versandovi olio e vino

Esercizi Spirituali – Figlie della Chiesa, Domus Aurea, Ponte Galeria (RM)
Omelia per la celebrazione dell’unzione degli infermi in forma comunitaria

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Credo che il vangelo del buon Samaritano sia una delle pagine più conosciute e commentate dell’intero vangelo. Vorrei stimolare una versione “liturgica” di riflessione su alcuni aspetti di tale pagina nella cornice della celebrazione del sacramento. In particolare mi soffermerei sulle suggestioni richiamate dall’invito alla compassione e sui gesti che il Samaritano compie.

Ma prima di tutto vorrei chiedermi: chi è quel Samaritano? Una lettura “etica”, “parenetica” del racconto ci spingerebbe a dire che è ciascuno di noi nella misura in cui scegliamo di prodigarci per gli altri, adempiendo al comando dell’amore per il prossimo. Una lettura più “spirituale” ancorata ad un’attenta esegesi può condurci a scoprire qualche dettaglio non secondario.

Nell’economia del vangelo di Luca la parabola del buon Samaritano si colloca all’interno di quel viaggio che Gesù compie per giungere a Gerusalemme dove sarebbe stato “elevato in alto” e che inizia al cap 9,51. Proprio iniziando il viaggio, per preparare il suo arrivo nei vari villaggi, egli manda alcuni messaggeri pure in Samaria, regione posta tra la Galilea al nord e la Giudea al sud. Come precisa l’evangelista, i Samaritani “non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme” (9,52-53), un città concorrente del culto religioso samaritano, al punto che spesso i pellegrini temendo le reazioni avverse dei Samaritani preferivano evitare di attraversare la regione. Si comprende perfettamente quindi la ragione delle parole dei “figli del tuono”, Giacomo e Giovanni, i quali vorrebbero distruggere quei villaggi con “un fuoco dal cielo” (9,54). Posizione non condivisa da Gesù, il quale rimprovera i suoi discepoli (v. 55).

Pochi versetti oltre, nel capitolo 10, si fa di nuovo presente il tema dei samaritani, stavolta con la figura del “buon” Samaritano, opposta a quella del levita e del sacerdote.

Sorprendentemente Gesù non partecipa alle lotte e alle divisioni che caratterizzano i rapporti tra giudei e samaritani. Non solo, pur essendo stato respinto dai villaggi di Samaria, costringe un dottore della Legge ad ammettere che un Samaritano si è comportato meglio di due giudei! E piega la storia umana a raccontare l’episodio come la parabola del buon Samaritano, senza peraltro sollecitare a ritenere che il levita e il sacerdote fossero “cattivi”.

C’è di più. Per come la parabola viene costruita dal Signore, pare proprio che lui stia facendo un po’ di ironia su se stesso. Sembra quasi che si immedesimi di più con il Samaritano che con il levita o il sacerdote, cosa che del resto gli sarebbe restata impossibile perché non discendente da nessuna famiglia levita o sacerdotale. Gesù costringe noi a riconoscere che lui proprio lui, non levita né sacerdote, è il Samaritano che ha curato le ferite del malcapitato. Lui che era stato respinto dai Samaritani, li ha difesi dall’ira vendicatrice dei suoi discepoli perché anche lui è un po’ “Samaritano”.

La bontà del samaritano, ammessa pure dal dottore della Legge, si racchiude in un’unica parola: compassione. La parola chiave di questa parabola è anche la parola chiave del sacramento dell’unzione degli infermi. Compatire, cioè “cum” “patire”, soffrire insieme, sopportare insieme. Gesù – buon samaritano – getta uno sguardo sull’uomo e ne ha compassione, soffre con lui, e insieme all’uomo vuole sopportare la sua condizione creaturale, di debolezza, di fatica, di stenti, di peccato. Ma invitando il dottore della Legge a fare altrettanto, Gesù chiede altrettanta compassione. Per lui che è il samaritano che abita i villaggi degli uomini. Chiede la compassione dei suoi discepoli, li rimprovera, impedisce loro di chiamare “un fuoco dal cielo”. Impedisce loro di pensare che l’unica soluzione sia nell’eliminazione del problema. Nel girare lo sguardo dall’altra parte ed andare oltre. Il sacramento dell’unzione degli infermi è la celebrazione della compassione, l’attestazione che mentre Cristo compatisce te, tu malato compatisci Cristo.

L’unzione degli infermi è sacramento di guarigione. Non solo fisica, qualche volta accade, per la misericordia di Dio e la salvezza dell’uomo. Anzitutto è guarigione delle ferite che nell’animo debilitano colui che crede. La sofferenza fisica, l’avanzare dell’età, la morte imminente sono condizioni “rischiose”, nella debolezza e nella solitudine espongono il viandante ad essere percosso e lasciato mezzo morto, disperato e incosciente di fronte alla grazia. La guarigione avviene perché qualcuno, Cristo e i tuoi fratelli – amore per il prossimo – si fermano a compatire, provano compassione. Con il gesto di chinarsi sul malato, sul moribondo Cristo ci insegna ad aver pietà e guarisce anche noi dalle ferite profonde dell’orgoglio e del peccato, sanando il nostro egoismo e rendendoci “disponibili alle necessità e alle sofferenze dei fratelli”.

La liturgia dell’unzione celebrata oggi attinge a piene mani dai riti orientali. Sia il rito romano che quelli orientali sono rispettosi delle indicazioni di Giacomo: “Chi è malato chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati” (5,14s). Tale effetto di salvezza secondo Giacomo sembra discendere direttamente da Dio, visto che qualche rigo sopra aveva appena confessato che “il Signore è ricco di misericordia e di compassione” (5,11).

Quindi la presenza del ministro ordinato, la comunità orante (Chiesa), la preghiera fatta con fede “sul” malato. Quest’ultima viene interpretata dal rito romano con il segno dell'”imposizione delle mani”. Cristo – il sacerdote – passa, si ferma, stende la sua mano, ti tocca, prega su di te e per te. Nei riti orientali il segno è simile: un vangelo tenuto dai presbiteri posto sul capo del malato mentre un altro presbitero prega intensamente. Ho pensato oggi di fare sintesi di questi due segni; durante l’imposizione delle mani due sorelle terranno il vangelo aperto sul capo della persona che riceve l’unzione. Cristo, presente nel vangelo, rivelatosi come samaritano buono, dalla sua parola si fa prossimo di chi compatisce.

Nella liturgia orientale compaiono anche i segni eucaristici. Il vino e il grano, che noi vediamo sull’altare. Ma essa ricorda pure che il buon Samaritano versa sulle ferite del viandante percosso “olio e vino”; perciò ritualmente all’olio viene aggiunta qualche goccia di vino, e così faremo anche noi. La presenza del grano testimonia l’attenzione e la cura del Samaritano per la convalescenza della persona che ha soccorso. L’ha nutrita e resa forte con il riposo. Questo sacramento, che guarisce, punta diretto all’eucarestia, quale ringraziamento e quale cibo dello spirito che sostiene e rinforza.

A volte il dubbio circa l’opportunità della sua celebrazione rischia di essere indiscreto. La Chiesa, fondata sulla parola del Signore, lo raccomanda non solo per i moribondi, ma per tutti quelli che a causa dell’età che avanza e della malattia sanno di aver bisogno del sostegno della grazia, quella compassione di Cristo che lenisce le sofferenze e ci insegna a compatire a nostra volta. Un sacramento medicina dell’anima. Esistono medicine che si devono assumere perché è indispensabile (vedi i moribondi) o perché è necessario (vedi i malati o chi è in pericolo di vita). Ma esistono medicine che si devono assumere in forma cronica, per malattie dalle quali non si guarisce, che però sono temperate dal farmaco. Che questo sacramento sia per tutti coloro che vi si accostano sollievo nella sofferenza, sostegno nella debolezza, aiuto nella prova!

Un’ultima parola sull’invocazione dei santi presente nella liturgia orientale, in particolare dei santi “anàrgiri Cosma e Damiano”. Giustamente viene invocata la loro intercessione, questi due fratelli praticavano l’arte medica e venivano ricercati perché compivano guarigioni miracolose. Ma il titolo con il quale sono appellati dice qualcosa che ha colpito molto le generazioni passate: essi erano “anàrgiri”, senza denaro, cioè non chiedevano nulla in cambio del bene che facevano, tutto era gratuito, sia per i ricchi, sia per i poveri, memori della parola del Signore che invia i suoi discepoli con queste raccomandazioni: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8).

Vogliano i santi Cosma e Damiano curare tutti noi dalla sete delle ricchezze e il Signore guarirci dall’idolatria del denaro, per essere sempre pronti a donare tutto senza cercare nulla in cambio o in retribuzione, dimentichi di noi stessi e appoggiati solo sui meriti di Cristo.