I Gruppi Universitari Parrocchiali: significato di una presenza

L’articolo che viene presentato qui di seguito è la Relazione Introduttiva tenuta da Ugo Quinzi nella Giornata di Studio per Operatori Parrocchiali del 30 settembre 1995.


Mi occupo di Pastorale Universitaria (P.U.) dal Settembre dello scorso anno, limitatamente al Settore Ovest di Roma. Me ne occupo perché qualcuno mi ha chiesto di farlo. Probabilmente se mi avessero chiesto di occuparmi di caritas o di sport o di gastronomia sarebbe stata la stessa cosa: non ho nessun tipo di titolo per fare nessuna di queste cose. Il che è in linea con il resto della mia attività: come vicario parrocchiale sono fac-totumfac-nihil.

Per introdurre i lavori di questa giornata di studio, invece, mi sono offerto io. Pecco di presunzione, lo so, già me ne sono pentito in fase di elaborazione del mio intervento, me ne pentirò forse di più tra una ventina di minuti. Ma la posta in gioco è alta, e a me è sempre piaciuto rischiare un poco quando il piatto è ricco. Talora si vince pure.

Ed ecco che, aperta e chiusa questa parentesi di carattere personale, vi anticipo il carattere del mio intervento: esso non ha la minima intenzione di propugnare verità di fede, di difendere dottrine nuove o antiche, di ripetere con ostinazione pappagallesca quello che tutti sanno. Al proposito condivido e sottoscrivo senza riserve quanto il maestro di cultura e di pedagogia  don Lorenzo Milani affermava in una sua lettera:

Quelli che si danno pensiero di immettere nei loro discorsi a ogni pie’ sospinto le verità della Fede sono anime che reggono la Fede disperatamente attaccata alla mente con la volontà e la reggono con le unghie e coi denti per paura di perderla perché sono interiormente rosi dal terrore che non sia poi proprio tutto vero ciò che insegnano. Ogni nuova idea, ogni nuovo governo, ogni nuovo libro, ogni nuovo partito li mette in allarme. Fanno pensare alla psicosi del crollo che s’è diffusa dopo il crollo di Barletta. Gente sempre col puntello in mano accanto al palazzo che si sono incaricati di custodire e della cui solidità dubitano (Lettere di don Lorenzo Milani Priore di Barbiana, a cura di Michele Gesualdi, Arnoldo Mondadori Editore, Cles (TN) 1988, p. 132)

In un anno di personale impegno nella P.U. ho avuto l’impressione di trovarmi davvero molto spesso in presenza di gente sempre col puntello in mano, che, non comprendendo piuttosto che avversando le grosse novità scese in campo con la pastorale della chiesa del 2000, si sono incaricati con tenacia pari al terrore di scontentare qualcuno di custodire quella dei secoli passati, pur dubitando della sua solidità. La questione di partenza per verificare il senso della legittimità e il significato della presenza dei Gruppi Universitari (G.U.) nelle parrocchie è imperniata attorno a questo punto: il valore che noi attribuiamo alla capacità critica, operativa ed evolutiva dell’uomo e della donna cristiani nella chiesa e nel mondo alle soglie del 2000.

Svisceriamo la questione di partenza

Svisceriamo la questione di partenza.

Un primo passo da compiere è rispondere alla seguente provocazione, non gratuita ma documentabile in tutti i modi: perché ancora oggi opponiamo resistenza ad una dimensione formativa cristiana pronta a confrontarsi con il mondo circostante? Ripeto l’espressione: opponiamo resistenza. Sottolineo l’espressione: opponiamo resistenza. Nel noi del soggetto sono inclusi non soltanto i preti e i responsabili ad ogni livello, ma che gli stessi laici. Esiste, ed è palpabile, continuamente in atto, un senso di snobbismo nei confronti del mondo, che i cristiani frequentemente colgono nel suo aspetto negativo di opposizione a Dio. Nel tentativo di allontanarsi, quasi di proteggersi da questo nemico ancestrale, sembra che il ricorso a sistemi formativi “chiusi” garantisca maggiore sicurezza del ricorso a sistemi formativi “aperti”. Dicendo “chiusi” intendo riferirmi a quei sistemi formativi, catechetici e pastorali fermi all’enunciato di fede o alla buona azione da compiere, dimostrandosi per il resto incapaci di cogliere tutto lo spessore delle implicazioni esistenziali dell’atto di fede e della prassi cristiana. Un sistema formativo “chiuso” è strutturalmente inabile a formare la coscienza critica del cristiano: esso sistema, mentre continua a trattare il fedele come un sottosviluppato mentale, non lo porrà mai nelle condizioni di rendere “intelligente” il suo modo di relazionarsi alle persone, agli eventi e alla realtà del mondo, con i suoi ritmi complessi e in continuo cambiamento.

Propongo ora il secondo passo, anch’esso a mo’ di provocazione: perché continuiamo a ritenere migliori di altre quelle azioni dei credenti che hanno un diretto ed immediato riflesso nella compagine visibile della chiesa? Senza per nulla mettere in discussione il valore dell’autorità costituita nella chiesa né l’opera della chiesa in quanto gerarchicamente stabilita, non si può non rilevare la costante preoccupazione di molti pastori che temono di veder inabissarsi il proprio ruolo e la propria comunità locale se la ristretta cerchia di “fedelissimi” non si prodiga con trasporto nelle attività della pastorale classica (catechismo, volontariato, azione cattolica, scout, e chi più ne ha più ne metta). A ben considerare, già la distinzione tra “fedeli” e “fedelissimi” dimostra che ci troviamo in presenza di un distorsione di cui la chiesa soffre da alcuni anni, per vari motivi che non è opportuno ricordare qui. Si tratta del terribile morbo che ha colto impreparati i credenti quando c’è stato il “crollo”: il morbo del numero, che come sintomatico ritornello ci fa ripetere a scadenze regolari: “Siamo in pochi, siamo sempre gli stessi”. Tuttavia non dimentichiamo che una comunità cristiana preoccupata dell’insostenibile leggerezza della “pastorale ordinaria” e dimentica della necessità di essere presente ad ogni livello della “vita ordinaria” è di per se stessa condannata all’estinzione. Se questo tipo di morbo riesce ad avere la meglio sulle nostre chiese, dobbiamo attenderci che accadrà per la religione quanto è accaduto per l’ecosistema mondiale: pensando che per soddisfare il bisogno immediato eravamo autorizzati a dimenticare il resto, non ci siamo accorti che stavamo degradando l’ambiente, e quindi, inevitabilmente, costruendo la nostra bara.

Terza ed ultima provocazione: perché ci preoccupiamo tanto di insegnare come dovremmo “cambiare” in quanto chiesa e in quanto umanità se poi rifiutiamo le conseguenze dell’evoluzione stessa? È ammissibile che il termine evoluzione, applicato alla struttura ecclesiale, dia luogo ad un certo prurito, per i ben noti motivi di polemica con il signor Darwin; sarebbe però da sprovveduti rifiutarsi di ammettere che proprio l’evoluzione rappresenta il meccanismo attraverso cui umanità e chiesa di oggi, intimamente legate, si vanno distinguendo dall’umanità e dalla chiesa di ieri. E che questa “evoluzione”, o comunque la si voglia chiamare, sta portando con sé un germe di maggiorità umana che invoca uno spazio appropriato tanto sopra quanto sotto il terreno in cui si sviluppa. Per restare nella metafora, l’uomo “maggiorenne”, “evoluto” sta producendo frutti che dipendono in larga misura dal nutrimento assorbito dalle sue radici. Non possiamo stupirci se i nostri giovani cristiani sono incapaci di azzardare per la fede, come vanitosamente ci piacerebbe a tutti che fosse, quando da sempre li teniamo chiusi tra quattro mura propinando loro gli argomenti per cui dovrebbero essere altrove. Così avviene per la politica, così avviene per la cultura in genere, così avviene – vivaddio – per l’università e, paradossalmente, per la stessa chiesa. All’uomo maggiorenne è necessario fornire un nutrimento adeguato, o finalmente non dargliene affatto e lasciare che se lo cerchi da solo.

Dalla questione di partenza alla questione

Il valore che noi attribuiamo alla capacità critica, operativa ed evolutiva dell’uomo e della donna cristiani nella chiesa e nel mondo alle soglie del 2000 decide in ultima analisi dell’intera questione della P.U. Difatti, o si tratta di un valore tanto grande da assorbire realmente il prezzo dei relativi sacrifici, oppure non vale la pena mettersi per strada. Vi spingo adesso a fare un’osservazione. Finora la questione di partenza non ci ha avvertiti intorno alla necessità di dare vita ai G.U. come realtà autonome nella parrocchia. In altri termini, la distinzione tra G.U. e gruppi giovanili o gruppi misti (universitari e non) non si pone affatto come pregiudiziale.

Sappiamo bene che sono molti i gruppi giovanili nei quali universitari e lavoratori vivono e operano da anni gli uni accanto agli altri, e in linea di principio è coerente che la comunità cristiana sia rappresentata ed esista non in quanto corporazione di arti e mestieri, ma in quanto corpo polimorfo di Cristo. Ciò premesso, dovrei ascoltare però anche le ragioni di chi non si accontenta di cancellare i confini tra i membri di un gruppo solo a livello di specifiche attività personali, e si spinge a chiedere la cancellazione di tutti i confini che nelle nostre parrocchie invece esistono e funzionano in nome di un principio che enuncerò tra breve: confini di età (p.e. catechesi per bambini e catechesi per adulti), confini di sesso (congregazioni maschili e femminili, religiose e laiche; coccinelle e lupetti; ecc.), confini di attività pastorali (gruppo liturgico, caritas, CL, neocatecumenali, ecc.). In apparenza tali confini sembrerebbero tutto il contrario del dettato paolino: in Cristo né giudeo, né greco, né schiavo, né libero, né uomo, né donna. Eppure il principio che regge questo dannatissimo equilibrio di confini è tra i più elementari e pacifici, è un principio di giustizia: unicuique suum, a ciascuno il suo.

La Pastorale Giovanile (P.G.) commetterebbe un gravissimo errore nel non tenere conto di questo principio. Un malinteso senso di uguaglianza e di massificazione serpeggia nelle nostre comunità. Esso è capace di provocare il più brutale appiattimento delle funzioni viventi del corpo ecclesiale, costringendo parti differenti della cellula comunitaria a ricevere e riciclare le stesse cose. Di fronte a tale impoverimento della pastorale reagisce con vigore una recente dichiarazione congiunta della Congregazione per l’educazione cattolica, del Pontificio consiglio per i laici e del Pontificio consiglio della cultura. Tra le iniziative appropriate per rispondere alle esigenze suscitate dalla cultura universitaria essa ne rileva una in particolare:

[La] ricerca di una pastorale universitaria che non si limiti ad una pastorale di giovani generale ed indifferenziata, ma che prenda per punto di partenza il fatto che molti giovani sono profondamente influenzati dall’ambiente universitario. Qui si gioca in larga misura il loro incontro con Cristo e la loro testimonianza di cristiani. Questa pastorale si propone, conseguentemente, di educare e accompagnare i giovani nell’affrontare la realtà concreta degli ambienti e delle attività che devono frequentare (Presenza della Chiesa nell’università e nella cultura universitaria, Città del Vaticano 22.5.1994, n. II.3.7).

Dell’educazione parleremo oltre. Vorrei solo far notare, a questo punto, che la questione dei G.U. si pone, eccome se si pone, e diventa ineludibile a livello pastorale, e non certo per creare nuove distinzioni di classe tra cristiani di serie A o B o come vi pare, e cristiani mezze tacche perché non hanno voluto o potuto studiare. Sempre il Milani osserva che

è da presumersi a priori che per es. un boscaiolo di vent’anni sia ricco di cognizioni e di una visione del mondo pari a quella d’un universitario di vent’anni. Non voglio dire uguale, ma equivalente sì. Più ricca da una parte, più povera da un’altra. In conclusione: non certo inferiore. Anzi, se proprio dovessi dire la mia opinione sono incline a credere che Dio abbia voluto dare piuttosto qualcosa di più al diseredato che all’altro: in buon senso, equilibrio, realismo, ecc. (cit., p. 64).

E proprio dalla sua esperienza di intellettuale ed educatore di classi povere possiamo trarre un prezioso insegnamento. La cultura non è mai fine a se stessa, o appannaggio di una casta di eletti, o un mezzo per ottenere successi privati, ma è uno strumento di elevazione dell’umanità [Che questo lo dica in maniera più autorevole anche il Concilio Vaticano II (cfr GS 57c) nulla toglie al fatto che Milani lo abbia intuito e ne abbia tratte le conseguenze con qualche anno di anticipo]. Con il linguaggio che gli è proprio Milani si arrischia addirittura a prevedere un catastrofico futuro, segnato dallo scontro tra ignoranti e intellettuali, nel caso questi ultimi non utilizzino a vantaggio di tutti i beni spirituali di cui sono portatori:

Domani, quando i contadini impugneranno il forcone e sommergeranno nel sangue insieme a tanto male anche grandi valori di bene accumulati dalle famiglie universitarie nelle loro menti e nelle loro specializzazioni, ricòrdati quel giorno di non fare ingiustizie nella valutazione storica di quegli avvenimenti. Ricòrdati di non piangere il danno della Chiesa e della scienza, del pensiero e dell’arte per lo scempio di tante teste di pensatori e di scienziati di poeti e di sacerdoti. La testa di Marconi non vale un centesimo di più della testa di Adolfo [il contadino protagonista della lettera]  davanti all’unico Giudice cui ci dovremmo presentare. Se quel Giudice quel giorno griderà “Via da me nel fuoco eterno” per ciò che Adolfo ha fatto colla punta del suo forcone, che dirà di quel che il signorino ha fatto colla punta della sua stilografica? (cit., pp 70-71).

La presenza di un G.U. in parrocchia ha valore perché fa cultura per e nell’intera comunità, eleva la cultura e il tenore dell’intera comunità, progetta un futuro di riconciliazione con l’intera comunità. Fare cultura, essere universitario non può essere considerato un fatto squisitamente privato e relegabile nella sfera dei bisogni sociali, ma deve ricuperare la sua collocazione all’interno dell’orizzonte della fede: è servizio alla comunità cristiana anzitutto, e alla comunità umana nel suo complesso; e in quanto servizio di un cristiano è concretizzazione del triplice ministero profetico, regale e sacerdotale; è dunque anche un fatto teologico [cfr Libro del Secondo Sinodo di Roma (abbr.: LSSR), n. 27: Occorre che tutta la comunità ecclesiale prenda coscienza, anche mediante itinerari di formazione, del significato e del valore specifico della vocazione laicale e della sua “indole secolare”, per cui “l’essere e l’agire nel mondo sono per i fedeli laici una realtà non solo antropologica e sociologica, ma anche e specificamente teologica ed ecclesiale”].

Questa è la questione. Nessun’altra. Questa è la posta in gioco, per la quale bisogna chiedersi se si vuole rischiare o no.

Intentare un processo ai progetti educativi

Sono arrivato all’ultima parte del mio intervento. Sappiamo che nessuna realtà umana potrebbe aspirare a dei risultati se non venisse fatta rientrare in un progetto. È un dato elementare dell’esperienza. Si progetta la giornata, si progetta la vita, si progetta la casa, si progetta la legge dello Stato. Anche la chiesa, da non molto tempo, ma finalmente, ha preso l’abitudine di offrire e richiedere progetti, soprattutto nell’ambito della catechesi. Per questo siamo in grado di parlare oggi di un progetto educativo anche in riferimento al campo universitario.

Come prima annotazione vale senza dubbio un suggerimento pastorale che troviamo nel già citato documento vaticano:

Sul piano parrocchiale, è auspicabile che le comunità cristiane, preti, religiosi e fedeli riservino maggiore attenzione agli studenti e agli insegnanti, nonché all’apostolato esercitato dalle cappellanie universitari. La parrocchia è per sua natura una comunità in seno alla quale possono nascere fruttuose relazioni per un servizio più efficace del Vangelo. Grazie alla sua capacità d’accoglienza, essa svolge un ruolo considerevole, soprattutto quando favorisce la fondazione e il funzionamento di Case dello Studente e di Residenze universitarie. Il successo dell’evangelizzazione dell’università e della cultura universitaria dipende in larga misura dall’impegno di tutta la Chiesa locale (cit., n. III.1.4).

Dire “è auspicabile” e dire “è necessario” sono due cose incontestabilmente differenti. Un G.U. in parrocchia come scelta pastorale non può fare appello ad una necessità di tipo metafisico per giustificare la sua presenza, nonostante quanto andiamo dicendo da un quarto d’ora a  questa parte. Anzi, per essere più precisi, qualora in una parrocchia manchi un progetto educativo vero e proprio sarebbe preferibile non dar vita a realtà nuove (entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem), per le quali non ci sarebbe altro futuro che quello dell’inutilità. Non è vero, infatti, come si è ritenuto per tanto tempo, che risponde ad una equilibrata concezione pedagogica l’idea che formato il gruppo poi mi preoccuperò di fargli fare qualcosa. Né è più sufficiente pensare ad una catechesi rivolta alla sola intelligenza, facendo della mente e della conoscenza, anche religiosa, una nuova religione. In questo senso dico che dovremmo mettere in stato di accusa, intentare un apposito processo ai nostri progetti educativi, e valutare dai risultati la loro bontà e validità.

Di certo quando si parla di crescita cristiana l’educazione dell’intelligenza va di pari passo con l’educazione della volontà (cfr LSSR, n. 20: [È necessario] promuovere la crescita cristiana dell’intelligenza come della volontà). E di certo qualsiasi crescita ha come finalità ultima di porre il soggetto in grado di assumere responsabilmente i propri compiti, di cavarsela da solo, insomma, collaborando però con gli altri soggetti, non facendo tutto da solo. Un sistema educativo che non raggiunga il fine di far camminare il soggetto con le proprie gambe e lo costringa tutta una vita ad essere trascinato su una sedia a rotelle (si chiami essa “catechesi permanente” o “assistenza spirituale” o “iniziative parrocchiali”) non è un buon sistema educativo. Per la P.U. sarebbe addirittura foriero dei più gravi disastri. Un buon sistema educativo e un buon progetto educativo devono prevedere, nel giro di un ragionevole numero di anni, la formazione di personalità forti. Così le chiama il Concilio. Consentitemi di citare per esteso.

  1.  Affinché i singoli uomini assolvano con maggiore cura il proprio dovere di coscienza verso se stessi e verso i vari gruppi di cui sono membri, devono essere diligentemente educati ad un più ampio livello culturale dell’animo [ci sarebbe da domandarsi in che misura la nostra catechesi agli universitari è in grado di venire incontro a questa necessità. Gli universitari che sono in parrocchia sono spesso presenti da una decina di anni agli incontri periodici di catechesi, hanno fatto campiscuola, sono impegnati nelle attività pastorali, e tuttavia continuano a fare incontri di catechesi sull’esistenza di Dio e sui sacramenti della chiesa. Sono solito ripetere ai miei ragazzi che se dopo dieci anni di catechesi non si sono ancora convinti che la messa domenicale è un dovere del cristiano, che l’aborto è l’omicidio abietto di un indifeso, che la preghiera una vera necessità dello spirito, ecc. ecc. e ancora ne vogliono “parlare” oggi, hanno perso dieci anni della loro vita ed è inutile che pretendano di evangelizzare la cultura], utilizzando gli enormi mezzi che oggi sono messi a disposizione del genere umano.
  2. Innanzitutto l’educazione dei giovani di qualsiasi origine sociale, deve essere impostata in modo da suscitare uomini e donne, non tanto raffinati intellettualmente ma di forte personalità [lo ritengo un passaggio fondamentale. I padri conciliari non ce l’hanno con nessuno in particolare, il brano è bello per questo. Non sono solo gli universitari a dover acquisire una personalità forte, ma i giovani di qualsiasi origine sociale. In questo senso credo che debba essere rivalutato lo spessore culturale della catechesi offerta a qualsiasi livello e per qualsiasi persona, almeno quanto la sua risonanza nella prassi quotidiana], come è richiesto fortemente nel nostro tempo.
  1. Invero la libertà umana spesso si indebolisce qualora l’uomo cada in estrema indigenza [questo primo caso si avverte anche in una società come la nostra, ma con una frequenza minore del secondo], come si degrada quando egli stesso, cedendo alle troppe facilità della vita, si chiude in una specie di aurea solitudine [e tale credo sia il pericolo che corrono molti dei nostri gruppi, malati di narcisismo, oltre che molti dei nostri giovani, portati dal contesto sociale vero l’individualismo e non sempre sufficientemente aiutati a respingerlo dal contesto ecclesiale]. Al contrario, acquista forza, quando l’uomo accetta la inevitabili difficoltà della vita sociale, assume le molteplici esigenze dell’umana convivenza e si impegna al servizio della comunità umana.
  2. Perciò bisogna stimolare la volontà di tutti ad assumersi la propria parte nelle comuni imprese [sottolineo: la propria parte. Un sistema educativo buono e un progetto educativo buono sanno proporre ai giovani tempi e occasioni opportune per cominciare ad assumersi la propria parte nelle comuni imprese. In grandi imprese, grandi proprio perché non si è da soli]…
  3. … Legittimamente si può pensare che il futuro dell’umanità sia riposto nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza [la conclusione dei discorso dei padri deve darci da pensare: il mio gruppo ha ragioni di vita? Ha ragioni di speranza? E quali?] (GS 31).

Il G.U. scuola di vita

Dovrei avviare a conclusione il mio intervento. Non prima però di aver reso esplicito il mio pensiero intorno al significato di un G.U. inserito in un progetto educativo parrocchiale che ha come fine quello di formare personalità umane forti. Esso risponde all’esigenza primaria, ormai divenuta anch’essa ineludibile, di offrire il punto di sintesi della propria vicenda culturale e studentesca da una parte, cristiana e umana dall’altra. Un G.U. parrocchiale deve proporsi l’ambizioso obbiettivo di diventare scuola di vita, e questo obbiettivo deve essere sviluppato lungo tre direzioni:

  1. G.U. come scuola di pensiero, dove insegnare a pensare con la propria testa
  2. G.U. come scuola di azione, dove insegnare ad intervenire sulla realtà con le proprie mani
  3. G.U. come scuola di speranza, dove insegnare a progettare il futuro con il proprio cuore

L’universitario deve avvertire che la chiesa intende aiutarlo a crescere almeno quanto lo intende l’università. E solo a condizione di non essere trattato in maniera che lo faccia risultare più valorizzato da una parte e meno dall’altra. Troppo spesso tra scuola universitaria e scuola “parrocchiale” il nostro giovane avverte un gap, e si domanda come mai in quanto studente egli si trova di fronte a responsabilità di grosso profilo, mentre in quanto parrocchiano può tutt’al più aspirare all’animazione di una pipinara di pargoli. Nella peggiore delle ipotesi qualche studente non se lo è mai domandato, e con la complicità inopportuna di pastori compiacenti, finisce per considerare quel suo impegno ecclesiale un meraviglioso e rilassante diversivo della sua onerosa giornata. Non è vero che questo sistema di cose non insegna nulla. Questo sistema di cose, elevato a dignità di scuola dai fatti, insegna che nella vita quotidiana esistono solo cose serie e faticose, nella vita ecclesiale possiamo rifugiarsi come in un disimpegno e in un passatempo.

Il G.U. deve diventare scuola coniugando nel suo interno formazione intellettuale di taglio cristiano e formazione operativa di taglio ecclesiale; formazione al servizio della comunità dei credenti nel suo interno e formazione al servizio della comunità degli uomini attraverso le strutture civili e culturali preposte: formazione al senso di responsabilità verso la generazione attuale e formazione al senso di responsabilità verso il mondo futuro.

Per terminare un intervento che nella presunzione iniziale di dire molto ha finito per tacere le cose più evidenti, dandole per scontate, consentitemi di tornare a citare Milani, non solo per rendere onore a questa figura di educatore, ma per ricordare anche a noi, che aspiriamo a seguirne le orme, il fine al quale la nostra attività pedagogica può e deve volgersi:

Caro Michele… ti voglio tanto bene e penso sempre a te, quella sera stessa ho sputato un po’ di sangue (poi è risultato che non era nulla di grave), ma sul momento mi ha fatto sorridere di gioia (sai che gli ebrei pensavano che il sangue fosse la vita?), mi divertiva l’idea di sputare la vita e di non svenire (io che son sempre svenuto alla vista del sangue) perché la sputavo nell’attimo in cui avevo finalmente capito quel che non avevo ancora mai capito, cioè che la scuola deve tendere tutta nell’attesa di quel giorno glorioso in cui lo scolaro migliore le dice: “Povera vecchia, non ti intendi più di nulla!” e la scuola risponde colla rinuncia a conoscere i segreti del suo figliolo, felice soltanto che il suo figliolo sia vivo e ribelle (cit., p. 162).