Opere di misericordia spirituali

Testo della Conferenza tenuta presso la Parrocchia dei Santi Protomartiri Romani in Roma il 3 aprile 2016

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Dio di eterna misericordia,
che nella ricorrenza pasquale ravvivi la fede del tuo popolo,
accresci in noi la grazia che ci hai dato,
perché tutti comprendiamo l’inestimabile ricchezza
del Battesimo che ci ha purificati,
dello Spirito che ci ha rigenerati,
del Sangue che ci ha redenti.
Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen

La Domenica della Divina Misericordia

La preghiera di colletta della Messa di oggi, II domenica di Pasqua, Domenica della Divina Misericordia, ci ricorda ancora una volta che il nostro Dio è Dio di eterna misericordia. Lex orandi, lex credendi.

Sappiamo che per diversi secoli la II domenica di Pasqua ha ricevuto il nome di Domenica in albis, “Domenica in vesti bianche”. Il nome ricordava la pratica antica secondo cui i catecumeni ricevevano il battesimo durante la veglia pasquale indossando in quell’occasione la veste candida, che avrebbero portato un’intera settimana. La domenica successiva, quella in albis appunto, i neofiti “smettevano” solennemente le vesti bianche: un rito che segnava l’ingresso del cristiano nella vita quotidiana.

A distanza di 20 secoli quella pratica aveva perso gran parte del suo significato. Restava come una reliquia di un tempo che fu, senza reali addentellati con l’esperienza quotidiana dei fedeli. Perciò fu facile a San Giovanni Paolo II, che aveva dedicato alla misericordia di Dio un’enciclica, accogliere le aspirazioni della Chiesa entrata nel terzo millennio cristiano che desiderava esaltare quella misericordia. Lo fece il 30 aprile 2000, durante la messa di canonizzazione di Suor Faustina, apostola della divina misericordia. Nell’omelia il santo papa disse:

Che cosa ci porteranno gli anni che sono davanti a noi? Come sarà l’avvenire dell’uomo sulla terra? A noi non è dato di saperlo. E’ certo tuttavia che accanto a nuovi progressi non mancheranno, purtroppo, esperienze dolorose. Ma la luce della divina misericordia, che il Signore ha voluto quasi riconsegnare al mondo attraverso il carisma di suor Faustina, illuminerà il cammino degli uomini del terzo millennio. (n. 3)

Se il terzo millennio cristiano si dovrà caratterizzare per la luce della divina misericordia allora per il santo papa ha senso stabilire la modifica della II domenica di Pasqua:

È importante allora che raccogliamo per intero il messaggio che ci viene dalla parola di Dio in questa seconda Domenica di Pasqua, che d’ora innanzi in tutta la Chiesa prenderà il nome di “Domenica della Divina Misericordia”. Nelle diverse letture, la liturgia sembra disegnare il cammino della misericordia che, mentre ricostruisce il rapporto di ciascuno con Dio, suscita anche tra gli uomini nuovi rapporti di fraterna solidarietà. Cristo ci ha insegnato che “l’uomo non soltanto riceve e sperimenta la misericordia di Dio, ma è pure chiamato a «usar misericordia» verso gli altri: Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia (Mt 5, 7)” (Dives in misericordia, 14). Egli ci ha poi indicato le molteplici vie della misericordia, che non perdona soltanto i peccati, ma viene anche incontro a tutte le necessità degli uomini. Gesù si è chinato su ogni miseria umana, materiale e spirituale. (n. 4)

Successivamente, il 5 maggio 2000, la Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti formalizzò con un decreto la volontà del papa sottolineando come “ai nostri giorni i fedeli di molte regioni della terra, nel culto divino e soprattutto nella celebrazione del mistero pasquale, nel quale l’amore di Dio verso tutti gli uomini risplende in massima misura, desiderano esaltare quella misericordia”.

L’ispirazione di un Giubileo straordinario della Misericordia deve essere perciò intesa come la prosecuzione dell’opera profetica di Giovanni Paolo II. Non un evento puntiforme, limitato nel tempo, destinato ad avere un valore locale, ma uno stile che dovrà prolungarsi nei secoli, nella vita e nella fede della Chiesa, che a questo punto dovrà sempre più caratterizzarsi come Madre di misericordia.

Opere spirituali

Nel nostro calendario siamo giunti a trattare le opere di misericordia spirituali. Anche queste sono tradizionalmente sette:

  1. Consigliare i dubbiosi.
  2. Insegnare agli ignoranti.
  3. Ammonire i peccatori.
  4. Consolare gli afflitti.
  5. Perdonare le offese.
  6. Sopportare pazientemente le persone moleste.
  7. Pregare Dio per i vivi e per i morti.

Vorrei che non trascurassimo il valore che avrà praticare le opere di misericordia, corporali e spirituali, durante questo Anno Santo. Lo ricorda papa Francesco nella lettera inviata a mons. Fisichella (per noi don Rino!) il 1° settembre 2015:

Ho chiesto che la Chiesa riscopra in questo tempo giubilare la ricchezza contenuta nelle opere di misericordia corporale e spirituale. L’esperienza della misericordia, infatti, diventa visibile nella testimonianza di segni concreti come Gesù stesso ci ha insegnato. Ogni volta che un fedele vivrà una o più di queste opere in prima persona otterrà certamente l’indulgenza giubilare. Di qui l’impegno a vivere della misericordia per ottenere la grazia del perdono completo ed esaustivo per la forza dell’amore del Padre che nessuno esclude. Si tratterà pertanto di un’indulgenza giubilare piena, frutto dell’evento stesso che viene celebrato e vissuto con fede, speranza e carità.

In un certo senso fare misericordia agli altri assume un valore anche per chi la fa, per se stessi: valore di indulgenza, di perdono, di arricchimento delle virtù teologali.

Se nelle opere di misericordia corporali forse tutto sembra più facile ed immediato (cosa c’è di difficile nel provvedere alle necessità essenziali delle persone bisognose?), in quelle di misericordia spirituali le cose si fanno più sottili. Nelle prime pare quasi scontato partire da una posizione di vantaggio: posso dare da mangiare agli affamati perché non sono un affamato, anzi a volte sono uno sprecone; posso visitare i carcerati perché non sono un carcerato, anzi potrei essere persino una vittima o uno che presta aiuto; e così via per le altre opere.

Ma vale lo stesso per le opere di misericordia spirituali? Posso consigliare i dubbiosi perché io non ho nessun dubbio? Posso ammonire i peccatori perché io non ho nulla da farmi rimproverare? Posso sopportare le persone moleste perché io non sono insopportabile?

Prima di proseguire, di dare una risposta a queste domande, e a tante altre, vorrei riflettere con voi sul significato della spiritualità.

La leggenda dell’imperatore

Siccome dobbiamo parlare di opere di misericordia spirituali mi pare opportuno fare qualche chiarimento. Dobbiamo evitare, cioè, di pensare che le opere corporali siano quelle concrete, quelle dei bisogni reali, quelle vere dell’umanità, mentre le opere spirituali siano astratte, non un vero e proprio bisogno, piuttosto soddisfazioni individuali.

Vorrei fare un’analogia: come esiste una corporeità della persona – e ne abbiamo parlato la volta scorsa – esiste anche una spiritualità non meno decisiva per qualificare la persona. In base a questa analogia, e ricordando quello che dicevamo la volta scorsa a proposito del corpo, che il corpo personale è l’espressione dell’anima nel mondo materiale, possiamo affermare che lo spirito personale è lo stile di vita della persona.

C’è un raccontino orientale che mi piace tanto e secondo me di grande aiuto per capire questa distinzione:

L’imperatore stava invecchiando e non aveva eredi. Perciò radunò i figlioletti dei nobili e diede a ciascuno di loro un seme, dicendo: “Quello tra voi che farà crescere il fiore più bello sarà il mio successore”. I bambini presero i semi e li piantarono.

Uno di loro, di nome Kumar, era davvero bravo nel giardinaggio, tuttavia non riuscì a far sì che il seme germogliasse. Provò ogni trucco, ma niente funzionò, mentre i suoi amici si vantavano di come le loro piante crescessero belle e rigogliose. Così, più passava il tempo, più Kumar si deprimeva.

Venne il giorno del giudizio e ancora nel vaso di Kumar non si vedeva nulla, mentre tutti gli altri bambini avevano ottenuto piante eccellenti. Il nostro bambino era tanto abbattuto che non desiderava nemmeno mostrare il suo vaso vuoto all’imperatore, ma la madre e il padre lo consigliarono: “Mai mentire. Hai fatto del tuo meglio: va’ a mostrarlo comunque”.

Tutti i bambini mostrarono i loro meravigliosi fiori all’imperatore, ma questi li guardò appena, senza sorridere. Kumar era l’ultimo della fila a sinistra ed aveva avuto l’impudenza d’andare a mostrare all’imperatore un vaso vuoto: stava tremando di paura. Tuttavia, l’imperatore, quando vide il suo vaso vuoto, sorrise: “Ah! Tu hai vinto. Tu sarai il prossimo imperatore!”.

Kumar non riusciva a credere alle sue orecchie. “Perché? I fiori degli altri bambini sono meravigliosi, e il mio non è neppure germogliato…”.

L’imperatore disse: “Sì. Hai ragione. Tutti i semi erano stati bolliti prima che ve li dessi. Tutti gli altri bambini hanno barato ed hanno usato un altro seme. Tu sei l’unico ad esser stato tanto onesto da fare del tuo meglio con il seme che t’ho dato io. Perciò sei l’unico adatto a ricevere il mio impero dopo la mia morte”.

Questo raccontino ci insegna due cose: che nella vita si può barare e che esiste il giorno del giudizio, in cui le cose più intime vengono rivelate per cui vince chi non ha barato.

Tutti i bambini del racconto (e i loro genitori!) hanno mostrato una spiritualità, uno stile di vita, più o meno condivisibile. Ma solo il bambino che è stato del tutto trasparente nel suo stile e coerente nelle sue convinzioni è riuscito nell’obiettivo che si era proposto.

Riflettendo sulle opere di misericordia spirituali, sono convinto che la spiritualità cristiana ci spinga a non barare e a vivere ogni giorno come il giorno nel quale siamo giudicati per quello che facciamo, per quello che pensiamo, per che scegliamo.

I bari dello spirito

Il Signore ci aiuti a non essere mai bari dello spirito!

Consigliare, insegnare, ammonire, consolare, perdonare, sopportare, pregare: come il bambino della storiella impariamo anzitutto a riconoscere i nostri vasi vuoti. Sono tante le fonti dalle quali possono giungere consigli e insegnamenti, consolazioni e ammonizioni, perdono e preghiere. Possiamo dire che sono tante le fonti di spiritualità, che informano gli stili di vita delle persone.

Noi qui parliamo della spiritualità cristiana, non di altre spiritualità. Esiste uno stile di vita cristiano? In un certo senso sì: se si passa vicino ad un fornaio che sta cuocendo il pane si sente quel buon profumo che da solo stordisce e far venire fame! Passando vicino ad un credente in Cristo si dovrebbe sentire un analogo profumo, quello della santità, della bontà: “Siano rese grazie a Dio, il quale ci fa partecipare al suo trionfo in Cristo e diffonde per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza nel mondo intero! Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo fra quelli che si salvano e fra quelli che si perdono; per gli uni odore di morte per la morte e per gli altri odore di vita per la vita. E chi è mai all’altezza di questi compiti?” (2Cor 2,14-16).

Giustamente S. Paolo si chiede chi sia mai all’altezza di tali compiti e si difende sostenendo che “noi non siamo infatti come quei molti che mercanteggiano la parola di Dio” (v. 17). I bari dello spirito sono coloro che mercanteggiano la parola di Dio piegandola ai propri interessi.

Le opere di misericordia spirituali, nella cornice della spiritualità cristiana, richiedono questa qualità pregiudiziale: il disinteresse. Quando insegnavo ero solito spiegare questo concetto ai miei alunni con un esempio tratto dalla loro esperienza adolescenziale. In tema di malattie sessualmente trasmesse chiedevo loro a chi sarebbe stato più logico rivolgersi per avere una spiegazione, un consiglio: a un amico o a una amica, con la quale si intende avviare una relazione? Ad una industria produttrice di preservativi? Alla comitiva? Persino ad uno studio universitario? Eppure tutti costoro potrebbero avere interesse a dare una risposta di parte. Se si deve ottenere una risposta su un fatto importante della propria vita, occorre rivolgersi a qualcuno disinteressato, per il quale l’unico interesse sia costituito dal bene di chi riceve il consiglio.

Se il nostro “vaso” è ancora pieno di interessi, occorre svuotarlo!

La seconda qualità pregiudiziale richiesta dalle opere di misericordia spirituali è la competenza. Ci si rivolge ad un ingegnere, per costruire un ponte; ad un medico, per avere una diagnosi. Non come in Italia, dove vivono 60 milioni di allenatori della Nazionale e se cade un ponte hanno tutti l’elmetto dell’inquirente! Per quale ragione qualcuno dovrebbe rivolgersi a noi, che cosa dovrebbe trovare in noi – oltre il disinteresse – tanto convincente da renderci autorevoli? Deve essere la nostra competenza nell’umanità. Paolo VI scrisse una meravigliosa enciclica, la Populorum Progressio (26-3-1967), sullo sviluppo dei popoli indicando le ragioni per cui la Chiesa si proponeva come interlocutrice con il mondo e la definì “esperta di umanità” perché in possesso di una visione globale dell’uomo e dell’umanità:

Esperta di umanità, la Chiesa, lungi dal pretendere minimamente d’intromettersi nella politica degli Stati, “non ha di mira che un unico scopo: continuare, sotto l’impulso dello Spirito consolatore, la stessa opera del Cristo, venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità, per salvare, non per condannare, per servire, non per essere servito”. Fondata per porre fin da quaggiù le basi del regno dei cieli e non per conquistare un potere terreno, essa afferma chiaramente che i due domini sono distinti, così come sono sovrani i due poteri, ecclesiastico e civile, ciascuno nel suo ordine. Ma, vivente com’è nella storia, essa deve “scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo”. In comunione con le migliori aspirazioni degli uomini e soffrendo di vederle insoddisfatte, essa desidera aiutarli a raggiungere la loro piena fioritura, e a questo fine offre loro ciò che possiede in proprio: una visione globale dell’uomo e dell’umanità.

(Populorum Progressio 13)

Se il nostro “vaso” è ancora pieno di se stessi, occorre svuotarlo!

San Paolo, consapevole delle esigenze della spiritualità cristiana, esorta i Corinzi: “investiti di questo ministero per la misericordia che ci è stata usata, non ci perdiamo d’animo” (2Cor 4,1). E poco più oltre li incoraggia: “noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi” (2Cor 4,7). Questi “vasi” che siamo noi, deboli e “vuoti”, in realtà debbono manifestare nel modo più lampante l’origine divina della propria spiritualità. Non bariamo: non a noi, ma a Dio sia la gloria!

Se il nostro “vaso” è ancora pieno di vanagloria, occorre svuotarlo!

Una misericordia divina a dimensione umana

Penso che le opere di misericordia spirituali nella cornice della spiritualità cristiana siano quelle che più da vicino richiedano costante autoconsapevolezza e profonda conoscenza dell’uomo.

Come già per le opere di misericordia corporali proverò ad offrire qualche linea di indirizzo e a contestualizzare le opere di misericordia spirituali nell’esperienza quotidiana.

  • Consigliare i dubbiosi

I credenti in Cristo non sono la caricatura degli psicologi moderni. Possiamo dire che gli psicologi moderni, per la loro parte di competenza, rappresentano una risorsa imprescindibile per il bene dell’umanità. Ma il consiglio non è la stessa cosa del counseling di tipo professionale.
Con questa premessa cosa può voler dire “consigliare i dubbiosi”? Ha ancora senso il “consiglio” in un’epoca nella quale il “dubbio” sembra costituire lo standard per la conoscenza e il pensiero umani? Prendiamo atto che il dubbio fa parte dell’esperienza umana, di quella umanità che non è in grado di prevedere con assoluta certezza gli effetti delle proprie azioni nel lungo periodo.
Ma con il consiglio siamo certamente in presenza del tema pentecostale dei doni: lo Spirito Santo, effuso sui credenti, li assiste con i suoi numero doni, tra i quali il consiglio. Un termine la cui etimologia si rifà o al verbo latino con-sulere cioè sedersi, porsi, collocarsi insieme; o forse , come si sosteneva in passato, al verbo latino con-silire, saltare insieme; infine, secondo altri, al verbo latino con-silere, fare insieme silenzio. Le suggestioni che provengono da questi verbi sono molte (farsi accanto alle persone, insieme a loro saltare gli ostacoli, fare silenzio di fronte all’ineluttabile) ma hanno in comune quel “con-”: insieme, mai da soli.
L’opera di misericordia spirituale di consigliare i dubbiosi chiama in causa la nostra prossimità con i nostri fratelli: mai lasciare solo nessuno, mai! Nel momento dello smarrimento, della prova, nel momento persino dell’errore: il magistero della testimonianza di una spiritualità esperta di umanità non lascia da solo nessuno!

  • Insegnare agli ignoranti

Non passa inosservato: non si tratta di insegnare a chi già sa, ma a chi ignora ancora. Non si tratta di un insegnamento magistrale (tipo quello a scuola) ma di un insegnamento sapienziale: è la vita, in questo caso, che diventa maestra di vita.
Qui mi permetto di osservare che la pedagogia moderna ha sottolineato l’importanza che tra maestro e discepolo vi sia una condivisione almeno delle forme essenziali di vita. Penso allo stile dei college anglosassoni. Allo stesso modo voglio evidenziare quello che diceva Paolo VI durante l’udienza al Pontificio Consiglio per i laici del 2 ottobre 1974: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni” (espressione poi ripresa da Evangelii nuntiandi, n. 41).
Con queste premesse si comprende quanto sia urgente e necessario da una parte che i credenti in Cristo non si autocondannino all’isolamento nella torre d’avorio delle proprie comunità, ma condividano la vita sociale, politica, economica di una comunità umana, le sue gioie e i suoi dolori; dall’altra che non si attribuiscano un ruolo di maestri ma esercitino un ministero di testimoni, non tanto e non solo per l’esemplarità morale quanto per la ricchezza dei contenuti antropologici mostrati nella loro efficacia.

  • Ammonire i peccatori

Il grande papa Benedetto XVI nel messaggio per la Quaresima 2012 (3-11-2011) ha scritto:

L’incontro con l’altro e l’aprire il cuore al suo bisogno sono occasione di salvezza e di beatitudine. Il «prestare attenzione» al fratello comprende altresì la premura per il suo bene spirituale. E qui desidero richiamare un aspetto della vita cristiana che mi pare caduto in oblio: la correzione fraterna in vista della salvezza eterna. Oggi, in generale, si è assai sensibili al discorso della cura e della carità per il bene fisico e materiale degli altri, ma si tace quasi del tutto sulla responsabilità spirituale verso i fratelli. Non così nella Chiesa dei primi tempi e nelle comunità veramente mature nella fede, in cui ci si prende a cuore non solo la salute corporale del fratello, ma anche quella della sua anima per il suo destino ultimo. Nella Sacra Scrittura leggiamo: «Rimprovera il saggio ed egli ti sarà grato. Dà consigli al saggio e diventerà ancora più saggio; istruisci il giusto ed egli aumenterà il sapere» (Pr 9,8s). Cristo stesso comanda di riprendere il fratello che sta commettendo un peccato (cfr Mt 18,15). Il verbo usato per definire la correzione fraterna – elenchein – è il medesimo che indica la missione profetica di denuncia propria dei cristiani verso una generazione che indulge al male (cfr Ef 5,11). La tradizione della Chiesa ha annoverato tra le opere di misericordia spirituale quella di «ammonire i peccatori». E’ importante recuperare questa dimensione della carità cristiana. Non bisogna tacere di fronte al male. Penso qui all’atteggiamento di quei cristiani che, per rispetto umano o per semplice comodità, si adeguano alla mentalità comune, piuttosto che mettere in guardia i propri fratelli dai modi di pensare e di agire che contraddicono la verità e non seguono la via del bene. Il rimprovero cristiano, però, non è mai animato da spirito di condanna o recriminazione; è mosso sempre dall’amore e dalla misericordia e sgorga da vera sollecitudine per il bene del fratello. L’apostolo Paolo afferma: «Se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con spirito di dolcezza. E tu vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu» (Gal 6,1). Nel nostro mondo impregnato di individualismo, è necessario riscoprire l’importanza della correzione fraterna, per camminare insieme verso la santità. Persino «il giusto cade sette volte» (Pr 24,16), dice la Scrittura, e noi tutti siamo deboli e manchevoli (cfr 1 Gv 1,8). E’ un grande servizio quindi aiutare e lasciarsi aiutare a leggere con verità se stessi, per migliorare la propria vita e camminare più rettamente nella via del Signore. C’è sempre bisogno di uno sguardo che ama e corregge, che conosce e riconosce, che discerne e perdona (cfr Lc 22,61), come ha fatto e fa Dio con ciascuno di noi (1).

Credo non ci siano altre parole da aggiungere.

  • Consolare gli afflitti

Nell’epoca in cui la tecnologia ha raggiunto perfezioni insospettabili tanto da essere considerata una vera “forza di salvezza”, la presa di coscienza delle debolezze e delle contraddizioni umane viene relegata alla sezione “sfigati”.
È sfigato chi si ammala: “poteva fare i controlli”.
Sfigato è chi ha avuto un incidente d’auto: “poteva essere più prudente”.
Sfigato è chi non trova lavoro: “poteva prendere un’altra specializzazione”.
È sfigato chi viene lasciato dal/la partner: “poteva evitare di sposarsi”.
L’opera di consolazione fa emergere il bisogno di umanizzazione delle relazioni e delle tecnologie: anzitutto riaffermando che gli afflitti non sono sfigati ai quali tutto è andato male. Sono gli “abbattuti”, quelli su cui la vita ha maggiormente fatto sentire il suo peso, non i più sfortunati rispetto agli altri. A tal proposito si ricordi Lc 13,1-5:
In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù rispose: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte. No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”.
Il ministero della consolazione è quindi un’opera di umanizzazione, di restituzione alle relazioni e alle tecnologie del loro valore strumentale, a tutto beneficio della persona umana: chi consola non rivolge uno sguardo “pietoso” sull’altro ma ne condivide la solitudine, non offre soluzioni ma lacrime di com-passione (soffrire insieme).

  • Perdonare le offese

Il perdono è considerabile uno dei cardini del cristianesimo. Gesù stesso non esita a sostenere che la sorte di chi non perdona di cuore al proprio fratello è segnata (cfr Mt 18,35).
Di certo siamo tutti avvertiti della necessità di un perdono personale. Ovviamente si tratta di un atteggiamento che richiede inclinazione caratteriale non meno di una potente ascesi. Su questo non mi dilungo, ciascuno avrà modo di confrontarsi con il confessore o con il padre spirituale.
In tempi recenti credo si stia sempre più dimostrando necessario un perdono che chiamerei di tipo sociale. L’applicazione, cioè, della categoria del perdono al corpo sociale rivolto verso singoli o verso altri corpi sociali.
Dal concetto marxiano di lotta di classe a quello più recente di terrorismo internazionale sembra che la strada dell’umanizzazione della vita nella nostra casa comune conosca solo ostacoli. E tuttavia, mentre non si riescono ad identificare le giuste strategie per vincere gli odi e le sopraffazioni, sembra affermarsi sempre più fortemente nel corpo sociale una sorta di sfiducia verso le possibilità di redenzione e di recupero dell’uomo.
Ritengo sia una sfida immensa per la Chiesa del III millennio cristiano, che deve brillare per la via della misericordia, testimoniare l’efficacia di una strategia del perdono come umanizzazione dei rapporti sociali.

  • Sopportare pazientemente le persone moleste

Chi sono le persone moleste?
Esistono le persone moleste “simpatiche”. Sono come il mio Maurizio, ospite della struttura, petulante fino all’esaurimento delle forze – perché dimentica quello che dice e quindi lo ripete – e che vuole ora una sigaretta, ora un caffè, ora le patatine, ora una moneta, ora l’attenzione ad una storia, poi ricomincia, la sigaretta, il caffè, le patatine…
Poi ci sono le persone moleste “antipatiche”. Quelle insopportabili. Il lavavetri del semaforo o il rom finto invalido, la suocera (per definizione!) o l’ospite che come il pesce dopo tre giorni puzza, il fanfarone che ha raggiunto posti di potere o i preti che si fanno le ville.
Ma come vedete tutte queste categorie (ed altre ancora numerabili) sono molto soggettive. Chi è molesto per uno potrebbe tornare simpatico ad un altro, e viceversa. In questa opera di misericordia credo che l’accento maggiore sia da porre sull’avverbio: pazientemente. La virtù che umanizza le relazioni nel tempo, quelle ripetitive e obbligate, alle quali non possiamo sottrarci per le più disparate ragioni, quella virtù è la pazienza.
Che l’amore fosse paziente l’aveva già detto San Paolo (cfr 1Cor 13,4). La pazienza è la terza delle sei perfezioni (pāramitā) del bodhisattva (“colui che sta percorrendo la via per diventare un buddha”). La pazienza è la caratteristica del sufi, del mistico islamico. C’è un racconto, in proposito:

Il grande maestro della tradizione sufi, Nasrudin, fu invitato ad una conferenza. Nasrudin fissò la conferenza per le due del pomeriggio, e fu un enorme successo: i mille posti furono subito esauriti, e più di seicento persone dovettero rimanere fuori, a seguire i lavori attraverso un sistema televisivo a circuito chiuso. Alle due in punto, entrò un assistente di Nasrudin dicendo che, per motivi di forza maggiore, la conferenza sarebbe iniziata in ritardo. Alcuni si alzarono indignati, chiesero la restituzione del denaro pagato per il biglietto e se ne andarono. Rimase comunque moltissima gente, sia dentro la sala sia fuori. Alle quattro, il maestro sufi non si era ancora presentato: a poco a poco, le persone cominciarono a lasciare la sala; tutti riebbero i propri soldi. In fin dei conti, l’orario di lavoro stava finendo ed era giunto il momento di tornare a casa. Alle sei, i milleseicento spettatori originari erano ridotti a meno di un centinaio. Fu allora che entrò Nasrudin. Sembrava completamente ubriaco, e rivolse alcune battute pesanti a una giovane seduta in prima fila. Passata la sorpresa, le persone si indignarono: com’era possibile che, dopo un’attesa di quattro ore, quell’uomo si comportasse in quel modo? Si levarono mormorii di disapprovazione, ma il maestro sufi non vi diede alcuna importanza: urlando, continuò a rivolgersi alla ragazza, dicendole che era sexy; poi la invitò a partire con lui per la Francia. Dopo aver insultato alcune persone che reclamavano, Nasrudin tentò di alzarsi, ma cadde rovinosamente. Indignati, gli astanti decisero di andarsene, dicendo che gli organizzatori erano dei ciarlatani e che avrebbero denunciato quello spettacolo degradante a tutti i giornali. Nella sala rimasero nove persone. A quel punto, appena il gruppo se ne fu andato, Nasrudin si alzò: era sobrio, i suoi occhi irradiavano una luce soave e dalla sua figura promanava un’aura di rispettabilità e saggezza “Voi siete coloro che dovranno udirmi,” disse “Avete superato le due prove più dure del cammino spirituale: la pazienza di aspettare il momento giusto e il coraggio di non provare delusione di fronte a ciò che avete visto. A voi insegnerò…”.

Nel tempo di tutto-veloce-subito-pronto la pazienza rende umano il ritmo della vita, fatto di ripetizioni (stesse cose, stesse persone…) a volte noiose a volte spiacevoli e indesiderate.

  • Pregare Dio per i vivi e per i morti

Porre la preghiera tra le “opere” di misericordia (spirituali) getta una luce molto diversa su questa pratica. La catechesi che abbiamo ricevuto ci ha presentato la preghiera come un atto unitivo con Dio, come uno slancio amoroso verso di lui, anche come obbedienza alla volontà del Signore. Qui ne cogliamo un aspetto nuovo, il suo valore “operativo” che ricolloca l’uomo dentro le sue giuste proporzioni. Da un lato prende atto dei limiti umani, per i quali l’operosità per quanto massima non riesce ad esaurire tutto il necessario; da un altro lato, chiamando Dio a partner della storia umana, se ne riconosce la sua parte di responsabilità.
Forse nella nostra esperienza ecclesiale, comunitaria manca un po’ di attenzione a questa opera di misericordia. Le nostre liturgie, in particolare le Messe, sempre conservano quel senso di ieraticità che è proprio a loro, ma non sempre sono abbastanza umanizzate da rendere la preghiera anche un’opera di misericordia.
Certamente positivo che le Messe ricordino nella quasi totalità dei casi i defunti, che per essi si preghi e si facciano offerte.
Non meno necessario sarebbe stabilire ritmi di preghiera che possano scandire il tempo liturgico di una parrocchia, attribuendo un’intenzione particolare ad ogni singola celebrazione. Per esempio, ogni primo giorno del mese preghiera per tutti i malati della Parrocchia; ogni secondo giorno del mese preghiera per tutte le famiglie della Parrocchia; ogni terzo giorno del mese preghiera per tutti i divorziati e separati della Parrocchia… e così via.
Umanizziamo le nostre liturgie!

Al termine di questo percorso di riflessione sulla misericordia e le opere di misericordia desidero ringraziare tutti voi che avete prestato attenzione. Il Signore benedica gli sforzi di bene che ciascuno di noi compie sulla via della santità per testimoniare la sua vittoria sul peccato e sulla morte. Accompagniamoci gli uni gli altri, consoliamoci, sosteniamoci, preghiamo: puntiamo dritti al Paradiso, dove un giorno, tutti insieme, loderemo Dio perché grande è la sua misericordia! Amen.