Alle radici della nostra fede: ascolto e visione

Questo articolo è la meditazione dettata durante un corso di Esercizi Spirituali. Per il corso completo e il download dei testi clicca qui.

Preghiamo

Nel mistero del Verbo incarnato è apparsa agli occhi della nostra mente la luce nuova del tuo fulgore, perché conoscendo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all’amore delle realtà invisibili. Lui vive e regna per sempre. Amen.

Il cammino della fede

Il tema del cammino in relazione alla fede appartiene alla cultura giudaico-cristiana. Già la figura del patriarca Abramo esprime la consapevolezza che la fede sia un uscire da percorsi in precedenza battuti, da mentalità consolidate, da situazioni stagnanti. Persino un uscire da se stessi, operando una trasformazione che non abbiamo esitato a definire “conversione esistenziale”.

Il Signore disse ad Abram:
“Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria
e dalla casa di tuo padre,
verso il paese che io ti indicherò” (Gn 12,1)

Anche Papa Benedetto XVI ha ripreso in diverse occasioni l’immagine del cammino legata alla fede. Anzi proclamando l’anno della fede ricorda le parole della Messa per l’inizio del pontificato:

Fin dall’inizio del mio ministero come Successore di Pietro ho ricordato l’esigenza di riscoprire il cammino della fede per mettere in luce con sempre maggiore evidenza la gioia ed il rinnovato entusiasmo dell’incontro con Cristo. Nell’Omelia della santa Messa per l’inizio del pontificato dicevo: “La Chiesa nel suo insieme, ed i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza” (Porta Fidei 2).

Mi sembrano parole illuminanti per due ragioni:

  1. il cammino di fede esige di essere “riscoperto”; la finalità è quella di rinnovare la gioia e l’entusiasmo dell’incontro con Cristo;
  2. l’intera Chiesa si deve mettere in cammino come Cristo; tale originale visione del cammino della fede indica anche una direzione: condurre gli uomini fuori del deserto, verso il luogo della vita.

Tradurre la nozione di cammino in un corso di Esercizi che prevede il rimanere, il nascondersi, per meditare e rinnovarsi non è impresa impossibile. Ci viene in aiuto la tradizione orante della Chiesa che nella sua semplicità popolare ha trovato il modo quasi di visualizzare il cammino della fede. Pensiamo per un istante all’esperienza secolare della Via Crucis, con la quale le masse di credenti si sono riversate nella strada della passione e della morte del Signore; ad essa, in tempi più recenti, si sono affiancate la Via Matris, memoria dell’esperienza a volte dolorosa della Vergine Maria, e la Via Lucis, grazie alla quale i credenti rivivono i doni pasquali del Cristo Risorto.

Il cammino della fede, infatti, trova il suo simbolo più appropriato nell’immagine della strada da percorrere, ma è una peregrinatio che si compie nell’interiorità della coscienza personale nel confronto con gli eventi della propria storia e le relazioni che in essa si sviluppano. Si può stare fermi dentro un convento di clausura e avanzare nel cammino della fede molto più di tanti che passano da una messa in un Santuario ad un Angelus del Papa o a un gruppo parrocchiale senza mai scendere nelle profondità dell’essere dove si realizza l’incontro decisivo con il Cristo Signore.

Vedo i cieli aperti

Con questa consapevolezza abbiamo in qualche modo tratteggiato quello che ci attende nelle prossime meditazioni. Per compiere però il passo giusto ricolleghiamoci a quanto stavamo riflettendo intorno al protomartire Stefano.

Nel momento culminante del suo discorso di autodifesa davanti al sinedrio egli dichiara di vedere i cieli aperti:

Stefano, pieno di Spirito Santo, fissando gli occhi al cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla sua destra e disse: Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio” (At 7, 55-56)

Lo sguardo di Stefano sembra perso verso orizzonti indescrivibili. Le parole non sembrano sufficienti a definire il contenuto della visione. Sappiamo che per gli antichi il “cielo” non aveva l’identico significato che possiede per noi. La stessa conoscenza scientifica era così insufficiente che presso numerose culture si immaginava che il cielo fosse in realtà una calotta solida che sovrastava la terra. Su tale calotta erano poste le stelle come un firmamento, cioè qualcosa di tanto fisso (“le stelle fisse”) da essere letteralmente fuse nella calotta. Poiché la calotta era solida l’”apertura” del cielo comportava la caduta delle acque poste sopra il firmamento (cfr Gn 1,7: “Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento. E così avvenne”). Inoltre la convinzione antica era che vi fossero una molteplicità di “cieli”, calotte o cerchi concentrici tra loro, al di là e al di sopra dei quali si poneva la divinità, nascosta e invisibile all’occhio umano tra le coltri create dagli spazi siderali.

In questa direzione si devono interpretare anche le parole del Signore Gesù pronunciate all’interno della sinagoga di Nazareth durante l’omelia di inizio del suo ministero:

Nessun profeta è bene accetto in patria. Vi dico anche: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone (Lc 4,24-26)

Parole che fanno diretto riferimento all’episodio in cui il profeta Elia si rivolge al re Acab: “Per la vita del Signore, Dio di Israele, alla cui presenza io sto, in questi anni non ci sarà né rugiada né pioggia, se non quando lo dirò io” (1Re 17,1). Il cielo “chiuso” (o aperto) in questo caso è il cielo “fisico”, quello “meteorologico”, quello di cui il primo astronauta ad aver lasciato il suolo terrestre, Jurij Alekseevic Gagarin, il 12 aprile 1961 pote’ dire: “Non vedo alcun Dio da quassù”.

La visione di Stefano obbliga ad uno straordinario sforzo di comprensione. Lui “vede” ciò che gli altri possono solo intuire o non vedono affatto. Il suo sguardo non appartiene più al mondo fisico, si spinge oltre, diventa sguardo di fede dove il mondo spiritualizzato non solo non è ostile e nasconde ma addirittura in qualche modo “contiene” e rivela il Dio creatore. A questo punto appare chiaro che le persone occupino due diverse posizioni in rapporto alla fede: c’è chi pur vedendo non vede e chi “fissando gli occhi al cielo” vede, quasi a conferma della risposta del Signore a chi gli chiedeva perché lui parlasse in parabole:

Per questo parlo loro in parabole: perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono. E così si adempie per loro la profezia di Isaia che dice:
Voi udrete, ma non comprenderete,
guarderete, ma non vedrete.
Perché il cuore di questo popolo
si è indurito, son diventati duri di orecchi,
e hanno chiuso gli occhi,
per non vedere con gli occhi,
non sentire con gli orecchi
e non intendere con il cuore e convertirsi,
e io li risani.
Ma beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono (Mt 13,13-16)

Gesù quindi dichiara in modo esplicito quanto siano importanti ascolto e visione, parola e icona nel cammino della fede, tanto da costituire addirittura una “beatitudine dei sensi”. Conosciamo anche da altre fonti l’importanza dell’ascolto nella genesi della fede; san Paolo afferma infatti che “la fede dipende dalla predicazione(fides ex auditu, Rm 10,17). Sappiamo pure che l’Apostolo Giovanni si è rivelato molto sensibile al tema della visione quale paradigma per la fede, dal momento che egli stesso “vide e credette” nel giorno della risurrezione (Gv 20,8). Ma queste due realtà, ascolto e visione, restano “appese”, senza fondamento, se non è possibile ripetere il gesto di Stefano: alzare gli occhi al cielo e vedere la gloria di Dio e Gesù alla sua destra.

Gesù redentore premio dei credenti

Il tema dei nostri Esercizi prende spunto da un versetto dell’omelia cosiddetta agli Ebrei. Ivi leggiamo:

Anche noi dunque, circondati da un così gran nugolo di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio (Eb 12,1-2)

Da notare il fatto che l’autore parli della “perseveranza nella corsa”, quasi a sottolineare che la fede la cui immagine è quella del cammino talora diventa la “corsa che ci sta davanti”; e che in questo dinamismo, a volte con ritmo lento altre volte con ritmo veloce, quel che conta è il non fermarsi, il “perseverare” (cfr Lc 21,19: “Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime”). Lo stesso Paolo ebbe a dire di sé nella lettera ai Filippesi: “Non che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù” (3,12-14). Non sfugge nemmeno in questi brani la consapevole allegoria usata dagli autori tra le gare degli atleti e il cammino / corsa della fede: ciò che ci sta davanti è la vittoria, il conseguimento del premio, da identificare in Cristo Gesù.

È lui, infatti, ad aver “conquistato” Paolo, e tutti noi, avendoci acquistati a caro prezzo (cfr 1Cor 6,20; 7,23). Tutta la tradizione, con sant’Agostino in testa, quantifica il “caro prezzo” nella passione e morte del Signore, gesto di totale, fiduciosa (piena di fede) consegna alla volontà redentrice del Padre e di abbandono nelle mani degli uomini tanto amati per i quali realizzare un progetto di purificazione e riscatto; gesto simboleggiato e significato dal suo sangue versato.

Voi riconoscete il prezzo della vostra redenzione, che non ho dato io, ma che per mezzo mio vi viene annunziato. Egli vi ha redenti, egli che ha versato il suo sangue prezioso: prezioso è il sangue di colui che è senza peccato (Agostino, Omelia 47,2)

Il suo sangue è il prezzo di tutti noi, sangue che, però, fu versato per la remissione dei peccati. E che valevano i peccatori? O quanto valevano? Non era forse quel sangue il prezzo dei peccati? Cristo infatti morì per gli empi. Ascolta l’Apostolo: Dio dimostra il suo amore verso di noi – egli dice -perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo morì per noi. Mentre eravamo ancora peccatori, avevamo così grande valore? Se restassimo peccatori, saremmo, piuttosto, una nullità. Colui che ci ha comprati con prezzo ha purificato quel che aveva comprato. Come sarebbe stato comprato a così caro prezzo il peccatore, se il suo prezzo non fosse stato l’equivalente della purificazione? (Agostino, “Nel giorno natalizio dei martiri”, Discorso 335/I 1)

Come si può osservare, il primo versetto della citazione fa da cerniera con quanto era stato detto in precedenza nella stessa omelia. Infatti al capitolo 11 l’autore aveva ripercorso la storia della salvezza facendo memoria di molti personaggi ricordati dalla Bibbia. Sul suo esempio anche noi ci comporteremo così quando attraverseremo la Via Fidei, la Via Spei e la Via Caritatis. Ci circonderemo di un gran numero di testimoni, li incontreremo, saranno loro a segnalare la direzione giusta, ci consegneranno gesti concreti di bene.

La gloria di Dio

Il capitolo 11 si apre con una definizione di fede che ci riporta al tema della visione: “La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono”. L’apertura del capitolo 12 riprende il tema della visione, ma stavolta diventa un’esortazione: “corriamo… tenendo fisso lo sguardo su Gesù”. La fede, perciò, si rivela essere non l’oscura temerarietà di un salto nel buio come pretenderebbero certe forme di neo-paganesimo, e nemmeno il difficoltoso avanzare tra promesse parziali e attese snervanti come nel passato del popolo ebreo, ma quale visione (qui potremmo anche aggiungere: visione destinata al paradosso, allo scandalo, al dissidio) di Gesù presente nella storia e seduto alla destra del Padre.

E visione della stessa gloria del Padre. Tema molto ampio, questo della gloria, potrebbe portarci lontano. Ma penso sia importante almeno sottolineare qui qualcosa, per comprendere cosa abbia “visto” Stefano quando ha fissato gli occhi sui cieli aperti. Se nei libri della Prima Alleanza la “gloria di Dio” indicava la presenza di Dio stesso, la sua persona, con il passare del tempo si è gradualmente imposta la percezione che si trattasse di una sua attribuzione. Sul modello delle relazioni umane si è pensato che la gloria di Dio da una parte costituisse un senso di trionfale manifestazione (immaginiamo una corte nella quale il Re entra solennemente, con vesti sontuose, tra cortigiani ossequienti e si siede in trono); dall’altra fosse il tributo che deve essere reso o riconosciuto a qualcuno di importante e nobile (pensiamo agli onori militari riservati ad un Capo di Stato o alla medaglia d’oro concessa ad un combattente valoroso).

Se tali ultime spiegazioni fossero le uniche o comunque quelle prevalenti riferibili alla “gloria di Dio” commetteremmo una grave ingiustizia verso l’intera Scrittura e in particolare i libri della Nuova Alleanza. Gesù rifiuta chiaramente la gloria che viene dagli uomini (cfr Gv 5,41; 12,43), mette in guardia da chi cerca la propria gloria (cfr Gv 7,18; 8,54), quando indica la sua glorificazione lo fa riferendosi alla sua passione (cfr Gv 7,39; 12,16.23; 13,31-32) che considera anche la glorificazione del Padre (cfr 12,28). Dunque la gloria di Dio non è qualcosa di estrinseco a lui, che proviene dal di fuori, come nel caso Dio avesse desiderato ricevere qualcosa dagli uomini. La gloria di Dio invece è Dio stesso che si rivela, che si rende credibile e amabile attraverso la sua opera, attraverso i suoi gesti creativi e redentivi.

Stefano, penetrando con lo sguardo le dense coltri dei numerosi cieli che vorrebbero impedire la manifestazione dell’opera di Dio, era arrivato a vedere questa gloria. Era giunto al punto in cui ogni singola realtà diviene traboccante di senso e di amore perché impregnata dell’azione benefica e pulcrifica di Dio. Che grande dono poter avere questo sguardo e riconoscere che tempo, eventi, persone trasudano di “Dio in azione”! Il brivido che scorre lungo la schiena è il segno che siamo giunti in prossimità della visione di quella “gloria”!

Il Giusto Gesù siede alla destra del Padre

Una difficoltà di non minore importanza risiede nello sforzo di comprendere cosa abbia “visto” Stefano quando tra i cieli aperti osserva “Gesù che stava alla destra di Dio” ed esclama “Contemplo (ϑεωρῶ) il Figlio dell’uomo”. L’autore degli Atti lo chiama per nome: Gesù, senza altri titoli. Gli unici titoli che leggiamo si trovano sulle labbra di Stefano: il “Giusto” (7,52), il “Figlio dell’uomo” (7,56), il “Signore” (7,59.60). Egli vede una persona, Gesù, con gli occhi della sensibilità esteriore e riconosce in lui il Giusto, il Figlio dell’uomo, il Signore con gli occhi della sensibilità interiore, quella della fede che è prova delle cose che non si vedono.

La difficoltà di sempre, in definitiva, la difficoltà che corrode anche le anime più forti, risiede in questo passaggio, nello spazio lasciato aperto tra la visione “esteriore” e la visione “interiore”, uno spazio non colmabile con le semplici forze umane. In una sorta di avvitamento su se stessi ci si rende conto che la fede in Gesù esige di compiere un salto di qualità quando si deve professare che lui è il Giusto, il Figlio dell’uomo, il Signore, ma al tempo stesso che la ragione senza il soccorso di quel Gesù non riesce a compiere da sola il salto. Come è possibile risolvere il paradosso che pare presente nelle parole dell’omelia agli Ebrei 11,6: “Chi s’accosta a Dio deve credere che egli esiste e che egli ricompensa coloro che lo cercano”?

La rappresentazione del salto di qualità necessario si legge tra le righe nel diverso uso di due verbi relativi alla citazione di Atti: al versetto 55 si dice che Stefano “vide” i cieli aperti e Gesù alla destra di Dio, mentre al versetto 56 Stefano afferma: “Contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo”.

Nel primo caso il verbo greco utilizzato è εἶδεν, che nel passaggio attraverso il latino diventa il verbo video. Si tratta perciò del verbo della visione fisica, esteriore. Non è un caso che in italiano alcuni termini possiedono una comune radice originata da questa parola greca: idee e idoli e gli stessi derivati del verbo vedere sono tutti appartenenti allo stesso ceppo. Attraverso lo sguardo fisico si nutre l’intelligenza, pur nella consapevolezza di un limite e cioè che questo genere di sguardo per sua natura non supera la barriera del visibile.

Nel secondo caso Stefano ricorre al verbo greco θεωρῶ. Anche da questa radice derivano molti termini italiani, come per esempio teoria o teorema. Ma quel che distingue maggiormente il verbo greco è che nel suo nucleo originale è presente la medesima radice di Dio in greco, Θεός. Lo sguardo operato da questo verbo non è più uno sguardo legato al senso della vista, ma rappresenta lo sguardo legato alla scintilla divina dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio.

Quando si parla di fede in Gesù sembra non più sufficiente il “vedere”, occorre anche il “contemplare”. Lo facciamo in tante occasioni della nostra vita. Pensiamo al contadino che con gli occhi osserva il campo e il clima e si fa un’idea delle loro condizioni in relazione ad un buon raccolto, mentre con la “contemplazione” giudica qualcosa di più: guarda oltre, fa una previsione dell’annata e di ciò che riuscirà a realizzare, “vede” la sua famiglia crescere e i suoi figli prendere il suo posto. Il terreno e le condizioni atmosferiche con la contemplazione non rappresentano più delle variabili fisiche per l’approvvigionamento materiale ma le condizioni di possibilità della vita e delle relazioni umane.

Stefano con la “contemplazione” vede compiersi il destino dell’umanità. Colui che sulla terra era stato condannato ingiustamente ora siede Giusto alla destra di Dio; colui che gli uomini avevano trattato da schiavo e malfattore ora siede Figlio dell’uomo per antonomasia alla destra del Padre; colui che pareva privo di logica e insegnava dottrine inaccettabili ora è Signore.

Sarà però necessario spendere qualche parola ulteriore per domandarci come sia possibile incontrare Gesù ai nostri giorni e seguirlo nel suo cammino di fede al fine di giungere al pari di Stefano a conoscerlo e contemplarlo fin d’ora come Giusto, Figlio dell’uomo e Signore.