Geremia, una missione fallita

“Come mai questo tempo non sapete giudicarlo?”

(Lc 12,56)

Fede e discernimento

Corso di Esercizi Spirituali

Figlie della Chiesa

Domus Aurea

19-26 Settembre 2013

Geremia, una missione fallita

Beato l’uomo di integra condotta,
che cammina nella legge del Signore.
Beato chi è fedele ai suoi insegnamenti
e lo cerca con tutto il cuore.
Non commette ingiustizie,
cammina per le sue vie.
Tu hai dato i tuoi precetti
perché siano osservati fedelmente.

(Sal 118)

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Le visioni e i segni

Per il modo in cui il libro di Geremia è organizzato si possono riconoscere diverse attività. Egli parla con le autorità, profetizza pubblicamente, predice e rimprovera. Ma alcune delle sue attività colpiscono per il fatto di offrire una specie di “icona” della profezia: sono le visioni simboliche e i segni profetici, gesti, osservazioni, oggetti, tutto utilizzato per rafforzare visivamente il messaggio oracolare.

Le visioni simboliche

  • Il mandorlo (1,11). Il termine ebraico šāqēd (letteralmente “colui che vigila) indica il mandorlo, uno degli alberi la cui fioritura annuncia l’imminenza della primavera. Perciò questa pianta in qualche modo è vigile, è attenta, una specie di sentinella delle stagioni. Nel versetto il gioco di parole con il Signore che vigila (šōqēd,“io vigilo”) sulla sua parola per realizzarla è evidente.
  • La pentola bollente (1,13). Una pentola dal contenuto bollente si sta per rovesciare. La visione di Geremia è il fotogramma di un fermo-immagine che gli fa prospettare l’imminenza di una catastrofe.
  • I due canestri di fichi (24). Davanti al tempio dove non poteva entrare, Geremia vede due canestri di fichi, uno con fichi molto buoni, l’altro con frutti molto cattivi. Dio promette di trattare i deportati come fossero “fichi buoni”, mentre i capi di Giuda e i superstiti, insieme agli egiziani, saranno considerati “fichi cattivi”.
  • La coppa (25,15-29). Dalle mani del Signore Geremia prende una coppa di vino alla quale dovranno bere tutti, sia il regno di Giuda sia le nazioni, fino ad ubriacarsi, fino a vomitare e cadere, obbligati se riluttanti. È l’ira inebriante del Signore.

I segni profetici

  • La cintura di lino (13,1-11). Il profeta deve acquistare (spendere soldi) una cintura di lino che volutamente dovrà rovinare dopo averla vanitosamente indossata. Non la rovinerà strappandola, ma lasciandola marcire per molto tempo nell’acqua. La cintura rappresenta l’orgoglio e la vanità del regno di Giuda, destinati ad essere annientati dal Signore.
  • La vita del profeta (16,1-13). Geremia non può sposarsi, non può avere figli, non può entrare in una casa dove si banchetta: tutta la sua vita precaria e ritirata diventa segno di sventure.
  • Il vasaio (18,1-12). Geremia osserva. Il vasaio modella la creta, crea un vaso, poi si guastava, allora riprovava. Ma mentre la creta è materia morta e docile nelle mani del vasaio, Israele nelle mani del Signore non è del tutto simile. Nella sua libertà può seguire i progetti del proprio cuore.
  • La brocca spezzata (19,1-15). Dopo aver osservato il vasaio, Geremia acquista (spende denaro) una brocca. Davanti ad alcuni anziani e sacerdoti il profeta dovrà mandare in frantumi la brocca per annunciare la distruzione di Gerusalemme: la città santa non si potrà più aggiustare.
  • Il giogo (27). Il profeta deve indossare un giogo e una corda per legarsi il capo. Annuncia in tal modo che il popolo dovrà soggiacere al dominio del re di Babilonia.
  • L’acquisto di un campo (32). Geremia, per quanto chiuso in prigione, viene invitato ad acquistare un campo ad Anatòt. L’atto di acquisto viene conservato il più a lungo possibile. In futuro infatti il popolo esiliato tornerà ad una condizione di felicità.
  • Il rotolo delle sventure (51,59-64). Per ordine del Signore il profeta deve scrivere su un rotolo tutte le sventure previste per Babilonia, legarlo ad una pietra e gettarlo nell’Eufrate. Il destino dell’impero viene così anticipato e fissato: Babilonia affonderà e non tornerà mai più a galla.

Osserviamo la progressione di visioni e segni. Rispetta esattamente quanto il Signore aveva detto nel chiamare Geremia per svolgere un compito per 2/3 distruttivo e per 1/3 costruttivo.

Dio e il popolo

Alcune profezie del tempo di Giosia sono facilmente identificabili. La maggior parte coincide con i primi capitoli del libro (1-6), che del resto segue un ordine cronologico abbastanza fedele.

Nel rivolgersi al popolo che sta conoscendo quel periodo di ripresa religiosa di cui Giosia è artefice, Geremia prende facilmente di mira i personaggi più in vista. Vorrebbe rivolgersi a loro, perché conoscono la via del Signore, non sono come la gente di bassa condizione che agisce con stoltezza; ma si rende conto che anche essi hanno spezzato i legami con il Signore (5,4-5).

I sacerdoti non si domandano più “Dove è il Signore?” e gli esperti della Torah non conoscono Dio, mentre i pastori si sono ribellati a lui e i falsi profeti parlano in nome di falsi dei (2,8). Quel che stupisce Dio è la miopia di quanti avrebbero il compito di provvedere al popolo: “Dal profeta al sacerdote tutti praticano la menzogna. Curano la ferita del mio popolo dicendo: ‘Pace, pace!’, ma pace non c’è” (6,13-14). Tali comportamenti sono il segno evidente di una perversione totale: tutti fanno esattamente il contrario di quello che il loro ruolo indicherebbe. Al momento dell’invasione del paese i grandi saranno i primi a cedere: i re impauriranno, i sacerdoti saranno costernati e i profeti resteranno sbigottiti davanti a un evento che non capiscono né aspettano (4,9).

Se così si comportano i capi, dunque, non c’è da aspettarsi nulla di meglio dal popolo. Verso il quale Dio ricorda l’affetto del fidanzamento (2,1), ma si sente come un marito tradito (3,1) addirittura dalla prostituzione (3,1.3). Disposto anche al divorzio (3,8) Dio però sembra non cedere alla sua delusione e non vorrebbe mostrare un volto sdegnato (3,12); così mentre cerca e prepara pazientemente il ritorno del proprio amore (3,14; 4,1), avverte i pericoli imminenti che costringeranno il popolo a prendere atto di cosa voglia dire stare distanti – fisicamente distanti – da lui (5,15.19). Il profeta deve essere pronto a dare spiegazioni: “Allora, se diranno: “Perché il Signore nostro Dio ci fa tutte queste cose?”, tu risponderai: “Come voi avete abbandonato il Signore e avete servito divinità straniere nel vostro paese, così servirete gli stranieri in un paese non vostro””.

Il profeta e il popolo

Dal capitolo 7 al capitolo 20 ci troviamo già al tempo di Ioiakìm, con un rapido mutamento rispetto al regno precedente. Anche Geremia è maturato. E vede avvicinarsi il momento in cui le parole che ha pronunciato troveranno compimento. Geremia fa parte del popolo, sembra non riuscire a rassegnarsi al destino imminente.

La profezia al tempo di Ioiakìm si apre sulla soglia del Tempio (7,2). Geremia non la oltrepassa, si ferma alla porta. Non dimentica di essere un maledetto al quale è impedito l’ingresso nel luogo più santo di Gerusalemme (36,5). Ma al tempo stesso quel gesto sembra possedere un significato simbolico: Geremia fa parte del popolo, ma non partecipa alle azioni del popolo che mostrano di essere perverse proprio nel cuore della fede; si ferma appena un passo prima.

Invita il popolo a convertirsi (7,3), ricordandone tutte le ingiustizie commesse. Il cuore di Geremia sembra cedere: vorrebbe forse intercedere per i suoi fratelli, ma il Signore lo precede: “Tu poi non pregare per questo popolo, non innalzare per esso suppliche e preghiere né insistere presso di me, perché non ti ascolterò” (7,16).

La profezia a questo punto sembra essere diventata un dialogo tra Geremia e Dio. Mentre Dio mostra al profeta la realtà, il profeta non resta indifferente. Non è un canale in cui scorre l’acqua e non cambia nulla:

Cercai di rasserenarmi, superando il mio dolore,
ma il mio cuore vien meno.
Per la ferita della figlia del mio popolo sono affranto,
sono costernato, l’orrore mi ha preso.
Non v’è forse balsamo in Gàlaad?
Non c’è più nessun medico?
Perché non si cicatrizza
la ferita della figlia del mio popolo?
Chi farà del mio capo una fonte di acqua,
dei miei occhi una sorgente di lacrime,
perché pianga giorno e notte
gli uccisi della figlia del mio popolo? (8,18.20-23)

Manifestando a Dio il suo stato d’animo forse il profeta spera di commuoverlo e di ottenere il perdono per il popolo. La risposta non si fa attendere molto. Il Signore ribadisce la sua decisione: “Tu poi, non intercedere per questo popolo, non innalzare per esso suppliche e preghiere, perché non ascolterò quando mi invocheranno nel tempo della loro sventura” (11,14).

Quel dialogo tra Dio e il profeta iniziato fin dal momento della sua chiamata non si è interrotto e Geremia non cede. Facendosi sempre più chiaro il destino del popolo, egli comincia a provare tristezza e angoscia (come Gesù nel Getsemani Mt 26,37).

“I miei occhi grondano lacrime
notte e giorno, senza cessare,
perché da grande calamità
è stata colpita la figlia del mio popolo,
da una ferita mortale.
Se esco in aperta campagna,
ecco i trafitti di spada;
se percorro la città,
ecco gli orrori della fame.
Anche il profeta e il sacerdote
si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare.
Hai forse rigettato completamente Giuda,
oppure ti sei disgustato di Sion?
Perché ci hai colpito, e non c’è rimedio per noi?
Aspettavamo la pace, ma non c’è alcun bene,
l’ora della salvezza ed ecco il terrore!
Riconosciamo, Signore, la nostra iniquità,
l’iniquità dei nostri padri: abbiamo peccato contro di te.
Ma per il tuo nome non abbandonarci,
non render spregevole il trono della tua gloria.
Ricordati! Non rompere la tua alleanza con noi.
Forse fra i vani idoli delle nazioni c’è chi fa piovere?
O forse i cieli mandan rovesci da sé?
Non sei piuttosto tu, Signore nostro Dio?
In te abbiamo fiducia,
perché tu hai fatto tutte queste cose” (14,17-22)

Geremia ricorda che la preghiera di Mosè riusciva a far ricredere Dio. Spera di riuscire nella stessa impresa. Ma è Dio stesso a disincantare e stavolta la risposta arriva senza farsi attendere: “Anche se Mosè e Samuele si presentassero davanti a me, non volgerei lo sguardo a questo popolo. Allontanali da me, se ne vadano” (15,1).

Il dramma dell’uomo di Dio

Geremia, che aveva preso sul serio il suo compito, giovane sensibile e sofferente, comincia a capire che la sua missione è destinata al fallimento. Né come Mosè né come Samuele. Come un disperato cercherà di convincere i capi e i sacerdoti ad evitare il pericolo dell’esilio.

Le “sante parole del Signore” lo fanno tremare e gli fanno spezzare il cuore nel petto (23,9). Vorrebbe risparmiare qualche sofferenza al suo popolo, che erroneamente si crede ancora sotto la protezione di Dio (23,17), e consiglia di evitare lo scontro con Nabucodonosor, di sottomettersi a lui (27,12; 38,17).

Ma nessuno gli crede. Anzi, viene arrestato e torturato. E Geremia avverte in modo pieno il fallimento della sua missione, al punto da maledire il giorno della sua nascita: “Perché mai sono uscito dal seno materno per vedere tormenti e dolore e per finire i miei giorni nella vergogna?” (20,18). Pubblicamente confessa la sua infelicità, rifugiandosi nel ricordo e tra le braccia della madre, come un bambino impaurito e piangente:

Me infelice, madre mia, che mi hai partorito
oggetto di litigio e di contrasto per tutto il paese!
Non ho preso prestiti, non ho prestato a nessuno,
eppure tutti mi maledicono.
Forse, Signore, non ti ho servito del mio meglio,
non mi sono rivolto a te con preghiere per il mio nemico,
nel tempo della sventura e nel tempo dell’angoscia?
Potrà forse il ferro spezzare
il ferro del settentrione e il bronzo?
Tu lo sai, Signore,
ricordati di me e aiutami,
vendicati per me dei miei persecutori.
Nella tua clemenza non lasciarmi perire,
sappi che io sopporto insulti per te.
Quando le tue parole mi vennero incontro,
le divorai con avidità;
la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore,
perché io portavo il tuo nome,
Signore, Dio degli eserciti.
Non mi sono seduto per divertirmi
nelle brigate di buontemponi,
ma spinto dalla tua mano sedevo solitario,
poiché mi avevi riempito di sdegno.
Perché il mio dolore è senza fine
e la mia piaga incurabile non vuol guarire?
Tu sei diventato per me un torrente infido,
dalle acque incostanti (15,10-12.16-18).

Ma tale è la durezza del Signore che continua a chiedere a Geremia l’impossibile che egli prova la tentazione di rinchiudersi in se stesso. Solo il ricordo della dolcezza del Signore e la speranza nel suo aiuto lo fanno desistere.

Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre;
mi hai fatto forza e hai prevalso.
Sono diventato oggetto di scherno ogni giorno;
ognuno si fa beffe di me.
Quando parlo, devo gridare,
devo proclamare: “Violenza! Oppressione!”.
Così la parola del Signore è diventata per me
motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno.
Mi dicevo: “Non penserò più a lui,
non parlerò più in suo nome!”.
Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente,
chiuso nelle mie ossa;
mi sforzavo di contenerlo,
ma non potevo.
Sentivo le insinuazioni di molti:
“Terrore all’intorno!
Denunciatelo e lo denunceremo”.
Tutti i miei amici spiavano la mia caduta:
“Forse si lascerà trarre in inganno,
così noi prevarremo su di lui,
ci prenderemo la nostra vendetta”.
Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso,
per questo i miei persecutori
cadranno e non potranno prevalere;
saranno molto confusi perché non riusciranno,
la loro vergogna sarà eterna e incancellabile.
Signore degli eserciti, che provi il giusto
e scruti il cuore e la mente,
possa io vedere la tua vendetta su di essi;
poiché a te ho affidato la mia causa!
Cantate inni al Signore, lodate il Signore,
perché ha liberato la vita del povero
dalle mani dei malfattori.

Anche la certezza di un intervento divino e provvidenziale espressa da queste ultime parole di Geremia è in certo modo profetica nei confronti di un popolo che sì condannato all’esilio scoprirà però che l’affetto del Signore lo arricchisce più di quanto la tragedia lo abbia punito.

Nell’esilio il popolo imparerà ad accostarsi alla Torah con rispetto e profondità maggiori. In esilio Israele si rende conto di aver potuto far conoscere il Signore, e che forse proprio questa era la sua vera missione. Tobi, un esiliato autore di un libretto eloquente, dovrà riconoscerlo:

Lodatelo, figli d’Israele, davanti alle genti;
Egli vi ha disperso in mezzo ad esse
per proclamare la sua grandezza.
Esaltatelo davanti ad ogni vivente.
Io gli do lode nel paese del mio esilio
e manifesto la sua forza e grandezza a un popolo di peccatori.
Convertitevi, o peccatori, e operate la giustizia davanti a lui;
chi sa che non torni ad amarvi e vi usi misericordia? (13,3-4.8)

Dall’esilio il popolo tornerà ancora più ricco materialmente, con i soldi messi a disposizione da Ciro. E tornerà prima del previsto: Geremia pensava ad un tempo di 70 anni e anche in questo si sbagliava (25,11; 29,10): il Signore si mostra libero di abbreviare l’esilio che durerà circa 40 anni.

Geremia scompare, forse risucchiato nell’Egitto che lui aveva tanto osteggiato (42). Persino la sua morte avvenuta in circostanze misteriose diventa cifra di una missione che agli occhi degli uomini, compresi i suoi di profeta, non ha ottenuto successo.

Ma Geremia è profeta non per i successi delle sue parole o delle sue azioni, e nemmeno per gli stati d’animo fermi e coraggiosi. È profeta perché ha tenuto fede a Dio e alle sue parole ed è stato servo affidabile. È profeta perché ha trascorso tutta la sua vita nella realizzazione del significato del suo nome: “esaltazione del Signore”.

In un corso di ES nel tema della fede e del discernimento, Geremia ci indica che la profezia della quale ha bisogno anche il nostro tempo è quella del credere nel Dio-Amen e di diventare a nostra volta Amen per i fratelli.