La difficile arte di vivere (e di morire)

Il mio caro amico di Twitter (un tempo si parlava di “amici di penna”) Carlo Muzzarelli ha voluto onorarmi di un suo commento all’articolo che ho pubblicato ieri sul mio blog: “Scegliere. Prolegomeni di ogni futura bioetica“:

Mentre lo ringrazio per la simpatica attenzione con la quale pazientemente mi legge, non mi sottraggo dal dare una mia modesta opinione sul tema.

In realtà non l’ho fatto nell’articolo citato perché non era l’argomento principale, per quanto prendesse spunto proprio dalla citazione di Piergiorgio Welby.

Seguii con grande attenzione sia la vicenda del povero Piergiorgio (2006) sia quella della sfortunata Eluana Englaro (2009), i due casi che hanno tanto scosso l’opinione pubblica degli ultimi anni. Dico in partenza che fu molto complicato allora cercare di mantenere un’equilibrata distanza e non lasciarsi prendere dalle strumentalizzazioni politiche, idealistiche o ideologiche, che in quei momenti alimentavano il dibattito più ancora – forse – dell’attenzione umana della quale bisognava circondare scelte difficili.

A distanza di qualche anno si può forse guardare la storia con un disincanto maggiore.

La sofferenza umana è sacra

Una prima riflessione mi nasce dalla considerazione della sacralità della sofferenza umana. Una persona che soffre merita rispetto. Meritano rispetto anche i suoi familiari. Alla lontana i soloni e chi pontifica con la pancia piena mentre guarda un film in DVD preso a noleggio. La sofferenza umana è una cosa seria, troppo per darla in pasto al politicante di turno che deve badare al consenso elettorale senza aver mai sfiorato nemmeno da lontano cosa vuol dire la disperazione. La sacralità della sofferenza umana prescinde pure da qualsiasi considerazione religiosa. A nessun sofferente si può domandare a quale fede religiosa appartenga o da quale Dio voglia essere consolato. La sofferenza di chi soffre è sacra perché né politica né religione possono spiegarla o affidarle un senso compiuto. Quindi in qualche modo la sofferenza è un messaggio ultimativo che rimanda inevitabilmente alla dimensione più profonda della persona che la sperimenta, rivelandone un lampo di divina grandezza.

Per la fede cristiana la sofferenza non ha nulla di positivo. Dio non l’ha voluta né creata. Il fatto che Cristo non l’abbia evitata è la dimostrazione che egli ha voluto calarsi perfettamente nei panni dell’umanità senza escludere nulla, nemmeno il dolore. I cristiani pensano che questo sia avvenuto per un atto di immenso amore, un amore analogo a quello che spinge una madre a privarsi del cibo per far mangiare il proprio figlio.

 Vivere non è facile

La seconda considerazione è che per nessuno la vita rappresenta una passeggiata, a cominciare da quella prima “sofferenza” della nascita rappresentata dal dolore provato dalla donna che partorisce e dal neonato “costretto” ad abbandonare un ambiente caldo e accogliente. Tutti gli uomini e le donne presto o tardi metabolizzano le difficoltà che incontrano. Chi non lo fa a sufficienza forse sono proprio coloro che mostrano i segni di una sofferenza psichica, di un male di vivere che non vuole più lottare o che non ha gli strumenti per farlo.

Forse vivere è un mestiere che nessuno insegna e non tutti imparano. Cesare Pavese tenne un diario, dal 1935 al 1950 (anno del suo suicidio) e fu pubblicato nel 1952 da Mila e Ginzburg malgrado probabilmente Pavese non lo avesse pensato per gli occhi del grande pubblico. Si intitola esattamente Il mestiere di vivere (edizioni Einaudi). Pavese vede la vita come un’arte, ma straziante:

L’arte di vivere – dato che per vivere bisogna straziare altri (vedi vita sessuale, vedi commercio, vedi ogni attività) – consiste nell’abituarsi a fare ogni porcata senza guastare la nostra sistemazione interiore. Essere capaci di ogni porcata è il miglior bagaglio che possa avere un uomo (p. 105)

Con tale visione Pavese dimostra che vivere è tutt’altro che facile arte. Per questo non può essere che fonte di sofferenza, alla quale occorre in qualche modo trovare una soluzione:

L’accettazione della sofferenza (Dostojevskij) è in sostanza un modo di non soffrire. Dunque… Chi si sacrifica non lo fa per lenire la sofferenza di un altro? Che torna come dire: soffra pure io, purché non soffrano gli altri tutto è bene. E se ciascuno s’occupasse di non soffrire lui, non sarebbe più spiccia? (p. 117)

La soluzione finale: ciascuno s’occupasse di non soffrire lui – soluzione ai limiti del buddhismo. Ma senza speranza di nirvana.

Morire è diventato complicato

Se vivere non è facile, morire (che comunque fa parte del vivere) non è meno complicato. Ricordo quando morì mio padre. Era ricoverato da diversi giorni in ospedale, con un aggravamento costante delle sue patologie e un cuore che sembrava non voler cedere. Poi una notte il cuore si è fermato. I medici si sono sentiti in obbligo di rimetterlo in moto e di chiamarmi. Quando sono arrivato non era più cosciente; con il corpo intubato l’anima stava cercando una via per uscire. Per tornare alla casa del Padre. L’ho benedetto e assolto e ho atteso con gli altri familiari. Quando è giunto un nuovo arresto cardiaco il medico mi ha detto: abbiamo evitato di rianimarlo nuovamente.

Rianimarlo. E perché bisognava farlo? Cosa avrebbe cambiato?

Morire è diventato complicato e difficile perché non si vede la prospettiva dell’abbraccio di Dio. Prolungare il più possibile la vita, ad ogni costo, quasi in una sfida (quella che fanno tutti i medici in ogni reparto di terapia intensiva : la gara a chi ne rianima di più) non si sa più in nome di cosa. Con il rischio che, invece di assicurare la morte una volta per tutte, si finisca per somministrarla a piccole dosi, giorno dopo giorno. In nome della “salute”.

Morire è diventato complicato e difficile perché la tecnica ci ha aperto nuove prospettive senza poterne contemporaneamente definire i limiti. I casi di Welby ed Englaro dimostrano che mentre il medico cerca di garantire la vita biologica ad una persona, non è in grado però di fornirle condizioni e termini del servizio, lasciandola sola a decidere cosa farsene o non farsene.

La mia visione della storia

Non so se Welby abbia fatto la cosa migliore o se i genitori di Eluana abbiano operato la scelta più giusta.

Personalmente, se non avessi una visione cristiana della storia, dovrei riconoscere che i loro comportamenti hanno rispecchiato in modo lucido quel che Pavese aveva lasciato scritto nel suo diario, compresa la soluzione finale: essere capaci e abituati a fare ogni porcata senza turbare la sistemazione interiore occupandosi ciascuno della propria sofferenza. Non posso fare a meno di osservare che in tutti e tre i casi la storia termina con un gesto di morte. Disperato, sofferto, indicibile. Ma comunque distruttivo. Solo che nella mia visione cristiana quel gesto terribile avrà sicuramente trovato dall’altra parte il volto di un Padre, rigato anch’esso dalle lacrime di una divina sofferenza.

Chi mi conosce sa cosa ho detto in proposito a mio riguardo: qualsiasi cosa mi accada, non c’è bisogno di nessun accanimento per prolungare la mia vita, lasciatemi pure andare in santa pace alla casa del Padre, dove mi sento chiamato a vivere per sempre. Nessun disprezzo per la vita né per la sofferenza (non ho mai pensato quello che diceva Welby o quanto viene riferito del pensiero di Eluana); invece semplice e sano realismo.

Nel frattempo spero di poter stare al fianco di chi soffre almeno per non farlo sentire solo ed abbandonato e per aiutarlo a trovare un supplemento di senso amoroso ed amorevole alla vita, quella sofferta.

E questa, secondo me, è la vera difficile arte di vivere. E di morire.