La bottega del celeste scatolaio

La bottega era appena visibile all’angolo della strada, proprio di fronte al monumento. L’apertura della porta fu accompagnata dal suono di un campanello.

“Buongiorno!” ebbi appena il tempo di dire e da una tenda nella penombra sbucò un ometto con gli occhiali scivolati sul naso. Non alto non basso, non giovane non vecchio, non grasso non magro e si potrebbe continuare così, con tanti altri non. “Buongiorno!” rispose scostando la tenda con una mano “Cosa posso fare per lei?”. “Sono venuto per la benedizione pasquale, aveva chiamato…” risposi sicuro. “Ah sì certo!” gli si illuminò il volto con un sorriso; lasciò cadere la tenda e si spostò verso di me, allungando la mano per salutarmi. “Lei è il prete?” chiese stringendomi la mano. “Sì, sono don Ugo”. “Piacere, io Giuseppe. Eh adesso non vi si riconosce più, andate vestiti da civili!”. Scoppiai in una risata: “Bhè, ma non siamo mica militari!”. “Sì, ma una volta era più facile riconoscere un prete con la tonaca. Adesso sembrate come tutti!”. Fece una pausa, forse temendo di aver fatto una gaffe e riprese quasi a giustificarsi: “Però basta che siete preti e che ci siete.” “Sì, sì, quello sì” risposi sorridendo.


scatole

“È solo in negozio?”; cercavo di informarmi sulla presenza di qualche altra persona che potesse unirsi nella preghiera. “Non è un negozio!”; la precisazione fu immediata; “È una bottega: «La bottega del celeste scatolaio»”. Si spostò di due passi verso la porta di ingresso alle mie spalle. “Vede?”. Mi voltai. Con la mano indicava uno striscione di carta sul quale in rosso erano vergati alcuni simboli, che ad un ignorante come me potevano sembrare cinese, giapponese o cambogiano. “È cinese. C’è scritto proprio questo: «La bottega del celeste scatolaio»”. “Lei conosce il cinese?” domandai incuriosito. Quel signore era chiaramente di origine europea e parlava perfettamente italiano.

“No no – sorrise – di cinese so solo questo. Me l’ha regalata un cliente, un cliente affezionato, lui era cinese. Prima questa era una semplice «Cartoleria», vendevo un po’ di tutto: penne, carta, inchiostri, quaderni. Poi un giorno l’ho trasformata”. “E ora? Cosa vende?” lo incalzai. “L’ho trasformata. Qui io non vendo nulla, qui io rifaccio scatole”.

Mi stavo incuriosendo sempre di più. Mentre l’ometto parlava gettai uno sguardo attorno. La bottega, illuminata male da una lampadina appesa ad un filo dal soffitto, non era particolarmente grande; il bancone, come quello di un calzolaio, la tagliava a un terzo della sua lunghezza lasciando poco spazio di movimento al cliente. La tenda nascondeva allo sguardo il retrobottega, mentre sul bancone e su qualche mensola impolverata appesa alle pareti si vedevano scatole di tutte le dimensioni e forme. Un calendario dell’anno precedente era appeso vicino al bancone, sulla sinistra, e tra il chiodo e il foro un ramoscello di ulivo.

“Giuseppe, mi spieghi meglio, non riesco a capire!”. Giuseppe si spostò dietro il bancone e cominciò a toccare le scatole che vi stavano sopra, a scoperchiarle a richiuderle una ad una: “Semplice! Raccolgo il cartone che la gente butta… O meglio, all’inizio lo raccoglievo… Ora me lo portano loro… Mi portano le scatole, quelle vecchie e rotte… O quelle che non servono più… Io prendo le scatole, le taglio, le incollo, le coloro, le ricopro di carta… Io do una seconda chance alle scatole, un’altra opportunità, un’altra vita… Il mio amico cinese… (qui si fermò un secondo e sorrise) quasi non ci credeva… Disse che era troppo poco che questo fosse un negozio di cartoleria… I cinesi ci tengono molto alla carta, sa?, don Ugo, l’hanno inventata loro… E un giorno mi portò quello striscione e mi disse: questa si dovrà chiamare «La bottega del celeste scatolaio», perché quello che fai è come una cosa del cielo”. L’ometto si interruppe un momento. Lasciò la scatola che aveva in mano. Sollevò lo sguardo su di me da sopra gli occhiali e con una voce divenuta quasi solenne aggiunse: “Io faccio nuove tutte le scatole”.

“Di cosa vive, signor Giuseppe? Ha detto che non vende le scatole che rinnova…” il mio senso pratico ebbe il sopravvento su tutte le suggestioni che si stavano affastellando alla rinfusa nella mia testa. “Infatti io non le vendo… Io le restituisco. La gente ha sempre bisogno di qualche scatola, per qualsiasi cosa… Per un regalo, per conservare gli spaghi, per metterci i bottoni o per fare un salvadanaio per i bambini… La gente viene qui e prende una scatola… Magari ne aveva portata una tempo prima, e allora viene a riprendersela, nuova… O forse chi l’ha portata voleva semplicemente regalarla… E io la rendo a chi la chiede… Come vivo? Qualcuno prende una scatola e a volte mi lascia qualche centesimo… Oppure qualcuno a volte mi porta una scatola con del cibo o con qualche vestito dentro… E io vivo così… Perché quando si dà una vita nuova alle scatole, poi le scatole fanno vivere anche te…”

“Ha una famiglia, Giuseppe? Dove vive?”. “Qui, vivo qui da solo, dietro la tenda c’è quello che mi serve… Perché sa?, don Ugo… Per vivere basta poco… La gente però non si contenta mai… Per questo non riesce più a vivere, non vive più serena… Non si contenta mai…”. Aveva ripetuto la frase flettendo la parola “contenta” accompagnandosi con un gesto della testa; pareva dispiaciuto per quella “gente” che secondo lui non riesce più a vivere. “Anche loro avrebbero bisogno di una nuova vita” soggiunse.

“Sì lo credo anche io…” dissi banalmente. “Però un sistema ci sarebbe, anche per questa gente che non riesce più a vivere…” riprese. “Vuole sapere quale?”. “Certo! Non me ne andrò di qui finché non me lo avrà detto!”. Sorridemmo entrambi all’ironia, lui disse anche qualche altra cosa, ma non la compresi bene. Poi riprese. “La gente dovrebbe imparare a dare una seconda vita alle cose…”. I nostri sguardi si incrociarono; la sua voce si era addolcita; i suoi occhi sembravano trapassarmi, andare lontano, verso un orizzonte inafferrabile per me. Lui deve aver intuito il mio disorientamento.

“Sa?, don Ugo… Dovremmo essere tutti capaci di fare come lei…”. “Come me???” mi affrettai a chiedere basito. “Sì sì come lei… Lei è venuto qui senza conoscermi, ha chiacchierato con me, mi ha portato l’acquasanta, poi pregheremo e mi darà la benedizione… Oggi lei mi fa nuovo… L’acquasanta… Come l’acqua del battesimo… Mi fa nuovo…”. Ad ogni parola diventavo sempre più confuso. Io, abituato a fare catechesi e a ripetere spesso distrattamente quelle parole, ora me le trovavo dette da un ometto che ripara scatole. Mi chiedevo chi fosse realmente Giuseppe. “Bhè è il Signore che la rende nuovo, non certo io!” azzardai a ribattere.

“Giusto – riprese lui – ma senza di lei… Ecco, le faccio un esempio: pensi alle scatole… Io le faccio nuove, ma se non ci fossero colla, forbici, carta, colori… Eh, resterebbero così, poverette…” e si voltò verso un angolo dove riposavano un mucchio di scatole che ancora dovevano ricevere la seconda vita. “La gente non vive più serena perché non è più capace di dare una nuova vita alle cose… e neanche alle persone… e neanche a chiederla… a riceverla… A Pasqua lo dica ai suoi parrocchiani… Dica di provare a dare una nuova vita ad una scatola… o ad un maglione vecchio… o a una bottiglia… Pensi che bello se tutti dessero una nuova vita a qualche cosa… E magari la regalassero… O dessero una nuova vita a qualcuno, un’altra chance, un’altra possibilità… A Pasqua dica alla gente che se Qualcuno vuole dare una nuova vita a loro, una seconda opportunità, non si neghino, lo lascino fare, c’è tutto da guadagnare…”.

Devo farvi gli auguri e anche se a malavoglia il racconto finisce qui. Stavolta un racconto di fantasia.

Però tra l’invito e l’augurio, proviamo sul serio a dare una seconda vita a qualcosa, come Giuseppe ai suoi cartoni. Potrebbe essere un utile allenamento per capire qualcosa di più della mentalità del Celeste Scatolaio, quello che ha dato la sua vita per fare nuove tutte le cose. Compresi noi.

Buona Pasqua di risurrezione e buona vita nuova a tutti.