Fidanzati sulla fiducia

La mia amica tuittera @CostanzaRdO, divertita e per nulla banale osservatrice di costume e contemporaneità, ha tuittato il suo colonnino amoroso:

Ne è seguita una conversazione, che potete leggere scorrendo il tweet, nella quale mi rammaricavo della prematura scomparsa del vocabolo, ricordandone il suo significato etimologico:

Fino a un tweet che mi ha profondamente colpito:

Le promesse non hanno valore. Nessuno le rispetta

Penso che proprio questo atto di sfiducia riveli la crisi di un modello antropologico.

La “promessa” è uno sguardo fiducioso sul futuro. Un seme gettato nel solco è una promessa. Il contadino rinuncia a nutrirsene o a venderlo oggi perché quel seme gli ha promesso un futuro migliore.

Il seme, nel suo atto di promettere, è determinato, non libero. A meno di eventi avversi, catastrofici o di natura tecnica, manterrà la sua promessa.

L’essere umano, che è libero, può anche autodeterminarsi nel non adempiere alla promessa. L’essere umano si scopre non solo in balia di eventi avversi, catastrofici o di natura tecnica, ma persino in balia di se stesso, della sua volubilità, del suo capriccio.

È questa libertà che spaventa? La libertà che rende imponderabile il futuro, che può realizzare una promessa di miglioramento del presente o può distruggere la speranza?

Ma allora quale modello antropologico stiamo proponendo? Un modello chiuso nel presente e nel temporaneo, che preferisce l’uovo oggi perché la gallina domani potrebbe scappare dal pollaio, che non fa più progetti sull’essere umano perché scommettere su di lui dà risultati troppo aleatori.

E ovviamente tutto ciò chiama in causa, in un rimando bidirezionale costante, il grande tema della “fede”, espressa a livello religioso non meno che come atto tipicamente umano (qui ho parlato della struttura antropologica dell’atto di fede). Un essere umano incapace di fiducia, di promessa, autocentrato, alla ricerca del proprio utile, stordito nel proprio estemporaneo universo emozionale, non può che guardare con sospetto ogni riferimento alla trascendenza, dove Dio appare inafferrabile, matematicamente indimostrato e indimostrabile, portatore di promesse future più che di realizzazioni presenti, garante di responsabilità assunte fino al sacrificio di sé.

Non a caso la tradizione ebraica del profeta Osea (2,21-22) mostra Dio come fosse un fidanzato innamorato del suo popolo Israele al quale promette un futuro sponsale, portandogli in dote giustizia (santità), diritto (legalità), benevolenza (misericordia, perdono), amore e fedeltà:

Ti farò mia sposa per sempre,
ti farò mia sposa
nella giustizia e nel diritto,
nella benevolenza e nell’amore,
ti fidanzerò con me nella fedeltà
e tu conoscerai il Signore.

Come uscire da questo impasse antropologico, nel quale discutiamo se liberarci della parola “fidanzata”, “fidanzato” perché quel che significa sembra non trovare più posto nella relazionalità umana?

Non saprei, al momento. So di certo che mi rifiuto di pensare che il destino dell’essere umano sia la sfiducia, il timore della sua libertà, la prigione del suo presente, l’inabilità ad alzare lo sguardo verso il futuro.

Quel primo uomo e quella prima donna che hanno dato inizio al miracolo del genere umano non possono diventare una promessa non mantenuta.