Avevo una benedizione libera. Indovinate a chi l’ho data?

Ospedale. Stanza di degenza con quattro posti letto.

Nel letto alla mia destra quasi settantenne, ne dimostra almeno dieci in più. È qui con un femore rotto, ma ascoltando inevitabilmente i dialoghi dei medici durante le visite ha un bel mazzetto di patologie.

Arriva dissociato e delirante, si capisce non più lucido. Nei giorni successivi un po’ si riprende e ci dice che è architetto. Ma si lamenta di tutto, è sgarbato con il personale, non l’ho sentito una sola volta chiedere qualcosa “per favore” e raramente sussurrare “grazie“. Parenti ad ogni orario di visite, prima moglie figlio e figlia, fratello, cognati, amici, conoscenti e l’immancabile giovane badante ucraina. E poi telefonate dal mattino alle 8:00 fino alla notte alle 23:00 a cui lui risponde rigorosamente in viva voce, facendoci conoscere affari sentimentali e finanziari suoi, della famiglia e di non so quanti altri.

La badante ucraina ci viene presentata come la sua nuova compagna. Lo chiama cicci, tesoretto, piccolotto, amore mio, gli chiede ogni dieci parole come stai, parla di cosa lui vuol mangiare, dei suoi appartamenti e uffici, soprattutto sparla della sua prima moglie e dei figli. È accudente fino all’esasperazione: ti ho portato succo di mirtillo 100%, vuoi il tablet per i film?, ti preparo i pomodori con il riso?, ti ha fatto male il clistere? Quando vieni a casa te lo faccio io come piace a te. E lui dice sì a tutto.

I suoi visitatori gli domandano chi è venuto a trovarlo, commentano “dopo 20 anni si rifà vivo“, ciascuno gli dà qualche suggerimento su chi può fidarsi e chi no, in quale dei tanti suoi terreni piantare il finocchio e come vanno le nocciuole, le ultime notizie sul Circolo Canottieri… Vengono a trovarlo persone che parlano delle loro aderenze col Vicariato e coi Vescovi che dovrebbero farlo ricoverare in qualche Struttura di maggiore gradimemto.

Letto davanti a me. Arriva novantenne in condizioni di conclamata demenza senile, femore rotto, per l’operazione cercano un parente ma non c’è nessuno. Ogni tanto delira, ma è gentile e sorridente. Si lascia assistere dal personale, lamentandosi dei dolori, ma poi ringrazia, sorride e ringrazia.

Ogni giorno sia al mattino che al pomeriggio viene a trovarlo lo stesso signore anziano, gli chiedo se è il fratello, mi risponde di no: “Sono il compagno. Stiamo insieme da 45 anni… È stato mio compagno, amico, confidente, maestro… Non ha mai detto una parolaccia… tra noi nemmeno uno «scemo», mai!“. Ha un attimo di commozione. “Ci sono periodi di magra… ma io gli sto vicino…“. Viene con l’autobus e una immancabile bustina di plastica in mano con dentro qualche ghiottoneria per il suo compagno. Lo accudisce con tenerezza, scherza con lui. Si guardano negli occhi e sorridono. Da lui il compagno malato si lascia far tutto, in quelle tre-quattro ore in cui rimane al suo capezzale è tranquillo e rilassato.

Nella notte invece il novantenne si agita, grida a gran voce il nome del compagno, gli chiede di aiutarlo, gli spieghiamo che il suo amico (lui lo definisce così) è andato via e tornerà l’indomani. Ma non si placa, fino alle due o alle tre del mattino invoca la presenza della persona che lo ama. Da 45 anni. Poi crolla e si addormenta.

Quando è venuto a trovarmi il Vescovo c’erano tutti: malati, parenti, amici, badanti e compagni. Indovinate chi è l’unico che ho voluto presentargli?

Sono stato dimesso. Avevo una benedizione libera. Indovinate a chi l’ho data?