Un mare di cristallo e fuoco

Questo articolo rappresenta l’adattamento dell’Introduzione del Rapporto statistico sul clero diocesano di Roma – 2017, reso pubblico dal 1° settembre 2017

Chi ne esce meglio dal Rapporto statistico sul clero diocesano di Roma – 2017 è l’ordine dei diaconi permanenti, più per il fatto di risie­dere nel territorio delle Parrocchie – in gran parte inserite in un contesto sociale problematico – dove prestano servizio che per il fatto di non ricoprire ruoli di responsabilità né incarichi precisi. Chi ne esce peggio è il sito del Vicariato di Roma e in generale il servizio comunicativo degli enti della Diocesi.

Leggere un Rapporto del genere probabilmente può aiutare ad interrogarsi ancora più a fondo sul senso della contrazione numeri­ca dei presbiteri della Chiesa di Roma. Probabilmente può aiutare a interpretare in che modo evolve la consapevolezza di essere Chiesa a Roma. Probabilmente, perché si sta assistendo al pas­saggio (epocale) di una Chiesa cristiana da un modello prevalentemente presbiterale ad un modello più diaconale e laicale.

Crisi vocazionale: le strategie conservative

Fonte: Wikipedia

Gli stratagemmi conservativi della popolazione del clero diocesano di Roma hanno conosciuto diverse stagioni. A fronte della crisi vocazionale abbattutasi sulla Diocesi nel periodo post conciliare si è cercata una soluzione attraverso le incardinazioni. Numeri crescenti di preti sono stati importati per arginare l’emorragia di seminaristi e di defezioni. Concretamente la Diocesi non ha mai sofferto la mancanza di clero. A tamponare le pressanti esigenze ci ha pensato in parte anche il clero religioso residente per varie ragioni nella Capitale, come pure il clero di altre Diocesi al servi­zio della Santa Sede.

Dagli inizi degli anni ’90 sul panorama diocesano si affaccia un nuovo fenomeno, un numero crescente di ordinazioni di chierici di nazionalità non italiana. In taluni casi si è rivelato un espediente temporaneo per soccorrere soprattutto Parrocchie a corto di clero. Fenomeno non privo di ambiguità, come del resto per vari aspetti pure quello delle incardinazioni. Cosa spinge un giova­ne in formazione a scegliere di mettere tra la propria terra di origine, la propria famiglia, la Chiesa dove è stato battezzato, comu­nicato, cresimato e quella dove diventare prete ed esercitare il ministe­ro sacerdotale un oceano intero? Non si vuole minimamente adombrare il sospetto di cattive inten­zioni; si vuole però com­prendere se alla base le motivazioni fossero abbastanza solide. Probabil­mente non in tutti i casi è stato così.

Ma queste strategie si sono rivelate davvero efficaci ed efficienti? Sotto il profilo del mero ri­sultato immediato si direbbe che erano l’unica alternativa a drammatici e imprevedibili esiti di penu­ria di preti. Considerando tutto con il senno del poi hanno solo rimandato il problema di qualche de­cennio. Le comunità cristiane si sono trovate belli e scodellati i preti che andavano a dire messa, spupazzavano i loro figli, preparavano i sacramenti, gestivano Parrocchie ed oratori. Non hanno mai trovato la porta di una Parrocchia chiusa e forse anche per questo non hanno mai fatto i conti della serva per stabilire da dove venissero tutti quei preti, dal momento che dalla Parrocchia non uscivano vocazioni.

Roma, una città cristiana che non dà i figli migliori alla Chiesa

Lo stesso Santo Papa Paolo VI aveva ben chiaro il significato di una Chiesa costituita da una “popolazione nuova e ancora instabile, senza radici nella storia, nella tradizione del luogo” frutto del nomadismo italiano postbellico e della forte immigrazione degli anni ’50 e ’60. Ad essa si appellava Paolo VI perché desse “i figli migliori, i suoi rappresentanti più preziosi alla Chiesa di Roma”; ad essi si rivolgeva perché fossero “portatori di una virtù sovrumana che si chiama la fedeltà”, alla vocazione e alla Diocesi stessa (fonte). Progetto e auspicio che il Papa non vide mai compiutamente realizzati, nella stagnazione vocazionale in cui si trovò la sua Diocesi.

Le strategie adottate in passato per risolvere tale stato emergenziale fanno sorgere molte doman­de proprio su come la comunità dei cre­denti di Roma sia stata coinvolta – ieri come oggi – in modo attivo e partecipativo nella cooptazione, selezione e formazione dei propri pastori. Contribui­sce a rafforzare la domanda l’elevato numero di escardina­zioni e di dimissioni dallo stato clericale, come anche di chierici che non risiedono più in Diocesi o non vi esercitano nessuna attività: dove erano le comunità cristiane quando questi preti arrivavano? E dove erano quando andavano via? Il primo soggetto da interpellare sul clero diocesano di Roma è proprio lei, la comunità cristiana.

Il prete che snocciola rosari e indossa sandali: criteri e mode

Fonte: Avud

Le previsioni sui numeri futuri non sono rassicuranti, per gli amanti delle grandi quantità. Ma puntare sulla quantità non è più verosimile oramai, tanto che persino Papa Francesco nel 2016 ai partecipanti al corso di formazione per i nuovi Vescovi (ebbene sì, c’è un corso per ogni cosa…) ha detto esplicitamente: “Non lasciatevi tentare dai numeri e dalla quantità delle vocazioni, ma cer­cate piuttosto la qualità del discepolato. Né numeri né quantità: soltanto qualità” (fonte). Certo, più facile soppesare quantità che darsi criteri qualitativi per determinare se uno è buono o cattivo prete.

Si trova il prete che trascorre ore davanti al Tabernacolo a snocciolare rosari e porta al collo una croce francescana di legno e se ne deduce una formidabile santità. Se il criterio è snocciolare rosari e portare al collo una croce francescana di legno. Si trova il prete che indossa sandali e va in giro con un’automobile vecchia e se ne deduce che ha abbracciato povertà e umiltà. Se il criterio è indossare sandali e andare in giro con un’automobile vecchia. Si trova il prete che frequenta i so­cial e regge botta ad ogni polemica sulla fede e si può dire che non ha capito nulla di spiritualità sacer­dotale. Se il criterio è snocciolare rosari, portare al collo una croce francescana di legno, indossare sandali e andare in giro con un’automobile vecchia. Tutto è abbastanza opinabile in questo campo e rispecchia in parte le mode del tempo, alle quali comunque non si può rinunciare completamen­te.

Chi è il sacerdote diocesano secolare?

Fonte: Lio Site

Un criterio indiscutibile invece si trova nella natura stessa del prete di cui si parla: prete dioce­sano, un tempo si sarebbe detto secolare. Un prete che ha deciso di votare la sua vita ad una Chiesa locale, particolare, una Diocesi – in questo caso Roma – e di vivere nel saeculum, nel mondo e nel tempo presenti. Quindi, in negati­vo, non un prete “religioso”, che segua una “regola”, non un prete che viva ritirato in convento o in mona­stero. La confusione, introdotta da una spiritualità sa­cerdotale che ha uniformato la preziosa varietà dei carismi del popolo di Dio, c’è, permane.

A di­spetto dei ten­tativi di recuperarla sotto forma di “carità pastorale” (Pastores dabo vobis, 23; fonte), senza però fornire a quest’ulti­ma una tipiciz­zazione la confusione è destinata ad assumere forme nuove: nella formazione semina­ristica è stato detto all’aspirante sacerdote dioce­sano-secolare che entrando al servizio di una Chiesa particolare avrebbe dovuto pagare le bollette della Parrocchia? Senza nessuna differenza rispetto a quanto fa un padre di famiglia… All’aspirante sacerdote diocesano-secolare è stato detto che sceglie­re di non sposarsi e di non vivere in una comunità reli­giosa comporta che presto o tardi si resta soli? Senza nessuna dif­ferenza da un uomo separato, di­vorziato o vedovo… All’aspirante sacerdote dioce­sano-secolare è stato detto che la sua vita di “regolare” non avrà nulla, né come orari né come spazi né come rela­zioni interper­sonali? Perché la sua spiritualità è diversa da quella di un francesca­no o di un carmeli­tano o di un missionario della Consolata che gira il mondo…

Dal seminario, meno preti da altare e più preti vicini alla gente

Si lamenta che molti aspiranti al sacra­mento dell’ordine fatichino “a stabilire relazioni con le persone” e si richiedono meno “preti da alta­re” e più “preti tra le persone” (fonte); si sen­te l’esigenza di un prete che sia “vicino alla gen­te” convinti che sia molto meglio puntare sulla “quali­tà” di un “presbiterio non clericale” (fonte): in altre parole si sta – forse – finalmente ri­trovando il fil rouge di un’autentica spiritualità del sacerdote secolare. Che poi ciascun prete saprà declinare nella propria sensibilità e nelle personali scelte di vita, ma senza mai più ricadere in for­me di sacer­dozio criptomonacali o pseudocongregazioniste o peggio ancora neoangelizzate fino al rigore manicheo e rifiutando improbabili nostalgie veteroseminaristiche. Il secondo sogget­to da in­terpellare sul cle­ro dioce­sano di Roma, quindi, sono pro­prio loro, i formatori, probabil­mente i su­periori del semina­rio, ma an­che gli studiosi e i pastori che de­vono dare l’imprinting che rimar­rà per tutto il ministe­ro del presbitero.

Perché i preti diocesani-secolari sono poco interessanti?

La Chiesa di Roma, appena entrata in una nuova stagione rispetto al suo clero diocesano, sembra essere spinta nel III millennio cristiano a ricercare una maggiore trasparenza, l’abbandono del formalismo attraverso l’adesione alla realtà storica, la revisione radicale dei modelli formativi dei chierici, sia come formazione iniziale sia come formazione permanente.

Preti trasparenti

Fonte: Avvenire

In relazione alla trasparenza bisognerebbe chiedersi perché, nonostante la capillare presenza di clero diocesano in tutta la Città, nonostante la copertura di centinaia di attività, nonostante la martellante richiesta di “spiritualità”, la figura, l’immagine del prete diocesano non sia appetibile. Tutta colpa dei cattivi? O la creatura è incompresa, poverina? O la verità è più forte: che realmente non ci sia nulla di appetibile nelle forme di preti diocesani-secolari storicamente incontrate? Qui tra­sparenza allora assume diversi significati. Vale per la persona in se stessa, il prete diocesano-secola­re, trasparente, senza secondi fini di carriere o arricchimenti, senza intenzioni subdole e meschine, senza affettazioni, trasparente persino nelle passioni umane, nelle rabbie e nelle risate, “come bimbo svezzato in braccio a sua madre”. Tutto sommato si potrebbe concludere: vero uomo. E vale per il comportamento ecclesiale in generale: dalla traspa­renza economica (sancita per Roma dal Secondo Sinodo e confermata per la Chiesa italiana dalla 69a Assemblea Generale CEI, fonte) alla tra­sparenza dei problemi della Diocesi, dalla trasparenza su incarichi e attività alla trasparenza delle informazioni. La Chiesa deve diventare quel mare trasparente di cristallo mi­sto a fuoco sul quale stavano ritti i vincitori dell’Apocalisse cantando il cantico di Mosè (15,2-3).

Preti non formalisti, diaconi nelle parrocchie diaconali

Più difficile debellare il formalismo, perché richiede una buona dose di conversione alla verità at­traverso l’adesione alla realtà storica, adaequatio rei et intellectus. Per esempio, la realtà è che i diaconi permanenti del clero romano sono poco valorizzati, ai limiti del fraintendimento della loro identità, se – come è accaduto almeno in un caso – uno ha potuto fare da “rappresentante dei laici” di una Prefettura ecclesiastica nel Consiglio Pastorale Diocesano. La verità, si voglia o no, è che i dia­coni permanenti non sono laici, fanno parte a tutti gli effetti del clero romano e la Chiesa di Roma deve avvalersi del loro servizio, eventualmente anche a tempo pieno. Senza escludere quindi la possibilità di giungere a creare “Parrocchie diaconali”, diaconie di Prefettura con compiti pasto­rali di assistenza dei pove­ri e dei malati.

I Padri Cardinali non rappresentano il clero di Roma, i Prefetti sì

L’adesione alla realtà storica impone che si prenda atto di cambiamenti irreversibili che modificano radicalmente il significato delle cose. Si prenda per esem­pio il caso dei Padri Cardi­nali. Le loro principali attività sono l’aiuto al Papa nel governo della Chie­sa uni­versale e la funzione di grandi elettori per la successione del Vescovo di Roma, in rappresen­tanza del clero ro­mano. Ma nes­suno dei Padri Cardinali attualmente proviene dal clero romano né è stato scelto dal clero romano, tutti sono stati nominati titolari di una chiesa di Roma e per tale mera fin­zione giuridica rappresenterebbero il clero romano. La verità da accettare qui è che ormai da de­cenni i Padri Cardinali non rappresentano più il clero di Roma se non fittiziamente. Semplice.

Oggi a rap­presentare il clero di Roma sono, meglio dei Padri Cardinali, i Prefetti, quella quarantina di sa­cerdoti eletti dai loro confratelli per consigliare il Vicario Ge­nerale sugli affari pastorali più impor­tanti della Diocesi di Roma. La Diocesi del Vescovo di Roma, del Papa. Presto o tar­di potrebbero essere loro ad affiancare i Pa­dri Cardinali, che resterebbero elettori in rap­presentanza del cle­ro di tutto il mondo presso Roma, nell’ele­zione del Vescovo di Roma, del loro Vescovo: i Prefetti come i veri rappresen­tanti del clero romano. Adaequatio rei et intellectus.

Basta ecclesiastichese, tra 30 anni saranno digital priest

Fonte: Genova24

Aderire alla realtà storica significa anche anda­re contro la propria sensibilità maturata in un contesto storico diverso, a volte. Un clero nato in un altro millennio, formato con metodi più o meno ottocenteschi (basti pensare semplicemente all’ecclesiastichese che riesuma dal medioevo funzioni come “Primicerio” o “Camerlengo” o “Priore dell’Ordine Equestre”), congenitamente sospettoso verso le novità mondane deve confron­tarsi con la velocità delle trasformazioni sociali imposte dalla tecnologia. Non si può dimenticare che la generazione di preti che tra 25-30 anni entrerà a far parte di un clero romano nella china di­scendente sarà quella che a scuola ha studiato sugli ebook con i tablet e ha navigato su internet dove con le app è riuscita a conoscere la Bibbia e a pregare. Rifiutare oggi di consentire, per esempio, l’uso dei lezionari, dei rituali o del messale digitalizzati è un po’ come voler arginare il mare.

… e Cappellani del web

Mentre la verità è che grazie alla tecnologia internet il web è diventato un ambiente dove l’umanità, in un modo o nell’altro, si incontra, comunica, si conosce, scambia idee, costruisce tendenze e mentalità, crea oc­casioni. Un ambiente che richiede una pastorale specifica e di certo non sarebbe bislacco se una Dio­cesi decidesse di creare un nuovo incarico apposito, il Cappellano del web. Adaequatio rei et intellectus.

Il prodotto finale: imparare a fare il prete a Roma andando fuori Roma

La revisione dei modelli formativi dei chierici segue la sete di trasparenza e di verità della Chiesa di Roma nel III millennio cristiano. Se la Chiesa di Roma ha operato una svolta missio­naria nella prospettiva della nuova evangelizzazione, non sarebbe importante per esempio che tutti i candidati all’ordine sacro della Diocesi di Roma trascorressero un biennio in missione? Magari pro­seguendo gli studi in un seminario di qualche sperduta regione? Si tratta di esempi, beninteso, per­ché il mo­dello formativo è un mezzo al fine, presuppone che si abbia chiaro quale prodotto finale si voglia raggiungere, che tipo di prete si desidera realizzare.

Chiesa come ospedale da campo

Fonte: Canicattì

In realtà appare molto evidente che la contra­zione numerica dei preti nel medio periodo delinea anche a Roma un modello di prete già in atto in quei luoghi dove la penuria di clero si lamenta da più tempo. È il modello di un prete mobile, itine­rante, trasversale negli ambienti piuttosto che stabile in un edificio, animatore di comunità piut­tosto che factotum ecclesiale. In questo senso, fintanto che i numeri ancora lo permettono, sarebbe signi­ficativo poter contare su preti che pongano a servizio di più Parrocchie le loro competenze. In tal modo si inizia ad educare ed abituare le comunità ad un prete – per esempio – non più viceparroco di una sola Parrocchia ma responsabile dei giovani di una intera Prefettura, soprattutto pren­dendosi cura dei più diffi­cili e di quelli che devono trovare nella Chiesa un “ospedale da campo”. Al tempo stesso un prete in grado di costruire un tessuto di responsabilità che tenga conto dell’apporto di laici e di religiose.

Spazio alla sperimentazione pastorale

Non si tratta di semplici revisioni organizzative, ma del cambia­mento del modello di comunità, nel­la quale la figura del presbitero, prolungamento della presenza del Vescovo, agisce più come fattore di comunione fraterna e di nutrimento sacramentale che come manager clericale. Non essendovi precedenti del genere nella Chiesa di Roma ma avendo ancora tempo per preparare il futuro, sareb­be indispensabile iniziare una sperimentazione pastorale per ac­quisire esperienza, creare mentalità e selezionare i migliori obiettivi possibili.