Rapporto sul clero di Roma 2017: luci di speranza e qualche ombra da correggere

Questo articolo rappresenta l’adattamento delle Considerazioni finali del Rapporto statistico sul clero diocesano di Roma – 2017, reso pubblico dal 1° settembre 2017

Preti luminosi

Una qualche luce nel Rapporto statistico sul clero diocesano di Roma – 2017 giunge anzitutto dai chierici “anziani”, con 75 anni e ol­tre, ancora in attività. Ma anche da quelli leggermente più “giovani”, che in contesti diversi penserebbero solo alla pensione. Tutti loro potrebbero godersi il meritato riposo, pensare agli ac­ciacchi che inevitabilmente l’età porta con sé, ritirarsi nella preghiera o in qualche luogo ameno. In­vece molti sono ancora in servizio. Una Diocesi che veleggia con decisione verso un numero consi­derevole di preti (e diaconi) anziani dovrebbe aprire un focus sulle prospettive che si spalancano sia per coloro che ancora in forze possono spendersi pastoralmente sia per coloro che a causa della ma­lattia e della vecchiaia richiedono assistenza fraterna. Incarichi appropriati all’età, né troppo gra­vosi né troppi, calibrati sulle caratteristiche individuali, che possano valorizzare la dignità umana e mini­steriale di chi ha già dato tanto per il bene della Chiesa. E insieme strutture accoglienti e gioio­se dove trascorrere protetti e coccolati i tempi non facili del tramonto, accompagnati da persone com­petenti che sappiano creare un clima di rispetto e di benessere.

Luci diffuse vengono anche dalle tante attività pastorali nelle quali è coinvolto il clero diocesano di Roma. Non bisogna dimenticare che anche quando si tratta di assolvere un solo incarico esercitato a tempo pieno essere preti implica tempi riservati alla celebrazione comunitaria, alla pre­ghiera personale, alla meditazione, all’aggiornamento. Esistono senza dubbio persone iperattive e poliedriche anche tra i preti, capaci di pianificare e ottimizzare tempi e risorse personali e quindi di svolgere più attività contemporaneamente. Sarà indispensabile, guardando ad un futuro di contra­zione numerica delle vocazioni, ripensare al modo di essere prete con tutti gli impegni da assolvere per evitare di trasformare i chierici in manager clericali o di farli soccombere sotto il peso delle responsabilità.

Ovviamente le tante luci devono essere considerate al netto di qualche ambiguità derivante, per esempio, dalla non sempre chiara consapevolezza che un soggetto dimostra intorno alle sue concrete possibilità o all’opportunità di esercitare certi ruoli. È il caso di alcuni chierici che non sembrano rassegnarsi all’idea che l’anzianità porta con sé anche il dovere di lasciare spazio alle nuove generazioni o che saturare la propria giornata di attività potrebbe rivelare l’esigenza di riem­pire un vuoto caratteriale o spirituale. La virtù della discrezione, che insegna anche a dire qualche no a se stessi e agli altri, mai fu tanto necessaria come in questi tempi. Sarà eventualmente compito dei superiori, coadiuvati da esperti, gestire il rebound della mancanza di ruolo, sempre in agguato se non si è stati addestrati fin dalla giovinezza a riconoscersi servi inutili.

Il futuro? Diaconi permanenti che facciano i diaconi

Il Rapporto evidenzia anche alcune penombre. La principale giunge dai diaconi permanenti. Di loro non si sa quasi nulla e in diversi casi non si comprende quali siano le effettive attività, oltre all’applicazione ad una determinata Parrocchia. Potrebbero fare di più e non viene consentito loro? O si vorrebbe che fossero impegnati maggiormente nella Chiesa ma impegni familiari e lavorativi li trattengono? Sembrerebbe che la Diocesi di Roma non abbia ancora recepito in pieno le potenzialità insite in una comunità diaconale con proprie specificità, che non sono esattamente quelle di fare da stampella ai Parroci né quelle tipiche dell’ordine presbiterale. Viene da chiedersi come mai nessuno dei diaconi permanenti, pur essendo a pieno titolo parte del clero romano, eserciti ruoli di responsa­bilità in Diocesi, per esempio nell’ambito Caritas, che sarebbe quello più congeniale all’ordine dia­conale. O perché, trattandosi per la totalità di diaconi coniugati, i diaconi permanenti e le loro con­sorti non siano più organicamente inseriti nella pastorale familiare. Infine, avendo tutti un’attività la­vorativa svolta o in corso di svolgimento, se non sia il caso di affidare proprio a loro qualche re­sponsabilità nella pastorale sociale e del lavoro.

Alcune ambiguità in tema di ordinazioni e incardinazioni

Penombre si muovono anche sul fenomeno delle ordinazioni o incardinazioni di chierici di na­zionalità non italiana o non romani. Senza dubbio l’apporto di clero non indigeno è stato un grosso aiuto per la Diocesi di Roma, soprattutto in tempi di carestia vocazionale, endemica nell’Urbe. E bisogna onorare il coraggio di quanti hanno abbandonato le proprie terre di origine per mettersi al servizio di una Chiesa lontana. Pur apparendo in contrazione rispetto al passato il feno­meno però non è del tutto immune da qualche ambiguità di fondo. Indirettamente, perché ha contri­buito a falsare l’idea di una Roma autosufficiente in tema di vocazioni e a deresponsabilizzare le co­munità parrocchiali, cellule viventi della Diocesi, nella proposta vocazionale, nella selezione e nella formazione dei propri pastori. Direttamente, perché se l’apporto di culture e mentalità nuove e diffe­renti deve sempre essere ritenuto una risorsa non è sempre scontato che esso rientri nei fini dell’ordinato e dell’incardinato. Il Rapporto dimostra in modo inequivocabile la tendenza dei presbi­teri di nazionalità non italiana o non romani nel medio e lungo periodo di non permanere a Roma.

Quel tram chiamato Diocesi: una riflessione organica sulla missionarietà

Quest’ultimo accenno ci porta a prendere in considerazione le immancabili ombre, presenti anche in questo Rapporto. La prima viene gettata sulla missionarietà della Chiesa di Roma. I chierici in missione sembrano essere numericamente molti, anche un po’ forzando il concetto di missione ad gentes. La permanenza in missione di alcuni presbiteri rappresenta la quasi totalità della propria esperienza ministeriale. Alcuni missionari del clero romano sono semplicemente torna­ti nella propria terra di origine. Di molti si conosce pochissimo intorno alle attività svolte. La comu­nicazione istituzionale non risplende per aggiornamento né sui soggetti missionari né sui progetti missionari. L’invecchiamento dei presbiteri missionari da più lunga data pone non rinviabili questio­ni sul futuro del loro ministero e della missione da loro guidata. In realtà la sensazione che si ricava è che sia assente un’organica riflessione sulla missionarietà dei sacerdoti diocesani di Roma. Il pa­norama presentato nel Rapporto fa nascere almeno tre diversi interrogativi intorno alla missionarietà del clero diocesano di Roma.

La missione è frutto solo di una scelta personale, ancorché legata all’adesione ad una realtà aggregativa, o non anche di una proposta della Chiesa di Roma rivolta ad ogni sacerdote diocesano secondo la mente del Secondo Sinodo?

Dopo quanto tempo dall’invio del sacerdote diocesano, invio che formalmente viene rinnovato in modo periodico e concretamente si pro­lunga senza termine in alcuni casi per l’intero arco della vita, la missione può essere considerata come trasferimento di un chierico ad altra Diocesi (escardinazione di fatto)?

È ancora possibile par­lare di missione, nelle varie forme determinate dal Rapporto, per quei chierici di nazionalità non ita­liana che esercitano il ministero nel Paese della propria nazionalità?

Far luce su un aspetto tanto de­licato della vita ecclesiale non potrà che recare benefici sia alla missione in se stessa sia all’intera Chiesa di Roma, che deve assolutamente liberarsi dal sospetto di essere un tram su cui salire e da cui scendere a seconda delle proprie personali aspirazioni.

Fraternità sacerdotale non è l’ostello di un gruppo di amici

Un’ombra importante si rileva intorno al fenomeno che coinvolge diverse categorie di sacerdoti: escardinati, senza attività note, non residenti, dimessi dallo stato clericale, sospesi a divinis… Non tanto per l’apparente silenzio di cui sembra circondato il fenomeno, cosa che potrebbe giustifi­carsi con lo zelo per la privacy dei chierici che tuttavia non devono mai dimenticare di essere figure “pubbliche”, quanto per la mancanza di condivisione fraterna degli aspetti pure più drammatici del­la vita della famiglia diocesana. Come non è pensabile che in una famiglia umana possano mancare momenti di tensione, di crisi e di conflitto, che tuttavia vengono assunti da tutti i membri cia­scuno a modo pro­prio, così non è affatto imprevedibile che nella più articolata famiglia diocesana si possa­no verifica­re eventi tra i suoi membri che – lungi dal diventare oggetto di morbosa curiosità o di chiacchieric­cio – richiedano la solidarietà nella preghiera, nella fraternità, nell’assistenza morale dei confratelli e nell’assistenza materiale, se necessaria. La fraternità sacerdotale è certamente aspirazio­ne insita nell’appartenenza ad un unico presbiterio. Ma lo è a giro d’orizzonte, sotto ogni aspet­to, nel bene e nel male; altrimenti finisce per diventare il rassicurante ostello di un gruppo di amici.

Rendere conto come gesto di responsabilità

L’ombra persistente sulle questioni economiche legate alla Chiesa si allunga pure in questo Rapporto. Non è stato possibile reperire un solo bilancio pubblico, non una nota spese né un ringraziamento diretto ad eventuali donatori. Non è stato possibile determinare quanti sacerdoti del clero romano siano stipendiati dalla Diocesi e per quale cifra, da dove provengano le eventuali som­me utilizzate ed eventuali criteri di ripartizione, così come l’esistenza di difficoltà economiche che richiedessero una conoscenza almeno per condividere preoccupazioni. La percentuale elevatissi­ma di Confraternite commissariate dal clero romano (il Rapporto non ha approfondito il tema del commissariamento da parte di altri tipi di clero) pone seriamente la domanda intorno all’amministra­zione in forma esclusiva di beni materiali che non fanno direttamente capo alla Diocesi di Roma, te­nuto conto che in alcuni casi il commissariamento stesso si è protratto per decenni. E pone seria­mente la domanda se sia opportuno che tale servizio venga svolto da sacerdoti o non sia più oppor­tuno che venga svolto da laici prudenti e competenti o dagli stessi diaconi permanenti. Insomma, quello dell’economia resta un argomento che dovrebbe essere trattato in modo tale da non alimenta­re sospetti da parte dei più malevoli e da rendere un servizio all’intera comunità dei credenti, per in­formarla e responsabilizzarla su come sostenere materialmente la Chiesa di Roma.

Comunicazione istituzionale e nuovi strumenti

Ultima ombra che il Rapporto ha evidenziato riguarda la gestione della comunicazione istituzio­nale della Diocesi di Roma e degli enti che a lei afferiscono. In particolare si fa riferimento alla comunicazione pubblica via web, quella di più diffusa e pratica consultazione da parte di ogni utilizzatore di internet.

Pur volendo trascurare gli aspetti maggiormente legati all’estetica, che alcu­ni potrebbero ritenere non rilevanti per il sito istituzionale di una Diocesi, c’è da osservare che la dif­ficoltà di reperire contenuti istituzionali (peraltro non sempre disponibili) scoprendo successiva­mente che spesso nemmeno sono ag­giornati rende l’esperienza di navigazione faticosa ai limiti del fastidioso. Nella cultura moderna è abbastanza chiaro che un sito venga progettato anzitutto per l’utenza del web e non per assicurarsi banalmente la presenza sul web. La differenza è sostanziale: un atto comunicativo rispettoso delle persone e del­le loro richieste deve essere in grado di offrire ri­sposte precise, in tempi ragionevoli, con ridottissi­me frustrazioni della domanda ed un’esperienza di navigazione piacevole, che spinga a tornare a visitare il sito e a suggerire ad altri di fare altrettanto. Non basta per questo aver acquistato un nome a domi­nio e aver scritto una pagina html, asp o php.

Sono noti diversi sistemi per la misu­razione della qua­lità dei siti web, in generale riconducibili alla valutazione di vari parametri (archi­tettura e grafica, usabilità e user experience, coerenza e aggior­namento dei contenuti, compatibilità con dispositivi mobile, ec­cetera). Sarebbe importante che tali sistemi venissero utilizzati per moni­torare in modo costante la produzione di comunicazione da par­te dei siti istituzionali della Chiesa di Roma.

Un di­scorso colla­terale si rivolge alla comunicazione più o meno ufficiale attraverso i social (Facebook, Twitter, In­stagram, eccetera), praticamente as­sente nella Diocesi di Roma, se si eccettua la Caritas diocesana che ha tre canali social e possiede uno tra i migliori siti, se non il migliore, de­gli enti del­la Diocesi per qualità tecnica e accessibilità a contenuti e informazioni. Per una città come Roma considerata “una delle capitali della comuni­cazione sociale” (Libro del Sinodo [LS] 16) l’orientamento pastorale del Secondo Sinodo è stato la “cura competente e qualificata … riservata agli strumenti della comuni­cazione sociale, per far giungere agli adulti il messaggio evangelico e l’insegnamento della Chie­sa” (LS, Indicazioni Pastorali 12, Vie e linee di impegno n. 7). Il Sinodo aveva profetica­mente compreso l’importanza che i cristiani “si facciano attenti al linguaggio della comunicazione della fede, perché ogni cultura, oltre a porre alla fede dei proble­mi, le offre dei linguaggi e la solle­cita a riformularsi e a esprimere valenze prima inedite” (LS 96): comunicazione che oggi, a distan­za di 20 anni, non può sottrarsi dall’uso di strumenti nuo­vi, “inedi­ti”. Così sempre il Secondo Sino­do di Roma auspica: “Occorre … far crescere l’attenzione ai mezzi di comunicazione cristianamente ispirati, ai fini di una lettura della vita quotidiana alla luce della fede, di una maggior attenzione ai segni dei tempi e di una comunicazione che prepari le vie del Si­gnore. Vanno quindi promossi in concreto la loro dif­fusione e il loro potenziamento” (LS 97).