Misericordia: introduzione al Giubileo

Testo della Conferenza tenuta presso la Parrocchia dei Santi Protomartiri Romani in Roma il 21 febbraio 2016

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Dio Padre di misericordia,
il tuo unico Figlio, morente sulla croce,
ha dato a noi come madre nostra
la sua stessa madre, la beata Vergine Maria;
fa’ che, sorretta dal suo amore, la tua Chiesa,
sempre più feconda nello Spirito,
esulti per la santità dei suoi figli
e riunisca tutti i popoli del mondo in un’unica famiglia.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.

Dio e misericordia nelle grandi religioni

Questa preghiera è la colletta della Messa dedicata a Maria Vergine Immagine e Madre della Chiesa.

Mi piace iniziare con la preghiera della Chiesa in onore di Maria. Sapete che c’è un adagio, nella teologia, che recita in latino: “Lex orandi, lex credendi”. La traduzione letterale (“Legge del pregare, legge del credere”) non fa giustizia al senso: l’espressione vuol ricordare che la preghiera dimostra la fede che uno ha (“dimmi come preghi e ti dirò chi sei”) e che non può esserci una fede che non si basi sulla e non generi la preghiera (“se preghi credi, se credi preghi”).

Nella preghiera che abbiamo appena adesso recitato, Dio viene chiamato “Padre di misericordia”. D’ora innanzi fateci caso: quante volte nella preghiera liturgica della Chiesa compare il concetto di “misericordia” in relazione a Dio. Ne resterete sorpresi. Oggi (II domenica di quaresima anno C), per esempio, la preghiera super oblata ha invocato il “Signore misericordioso”. Seguendo la “lex orandi” dobbiamo allora concludere che la nostra fede è davvero nel Dio Tutto Misericordioso.

I Vangeli ci mostrano spesso Gesù in preghiera. Qualcuno si meraviglia che lui, pur essendo Dio, fosse immerso in quel gesto: che bisogno aveva di pregare? Potrei rispondere che la preghiera è un comportamento virtuoso. Chi prega fa una cosa buona per sé e per gli altri. E siccome in Dio noi riconosciamo esservi tutto il bene possibile alla massima potenza, allora questo vuol dire che anche Dio prega. Ebbene sì. Vi è una tradizione talmudica ebraica secondo la quale anche “il Santo, – che sia benedetto il suo nome – prega“. La tradizione fa riferimento ad Isaia 56,7 così tradotto dalla Bibbia: “Li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera. I loro olocausti e i loro sacrifici saranno graditi sul mio altare, perché la mia casa si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli“. In realtà chi conosce l’ebraico dice che la traduzione non è precisa, perché in effetti in ebraico si legge “nella casa della mia preghiera“. Così i rabbini concludono che anche Dio prega!

Poi un rabbino in particolare, Rabbi Zotra ben Tobiah, si è spinto oltre e ha cercato di ipotizzare, sulla base della Scrittura e della Tradizione, il contenuto della preghiera di Dio e ha sostenuto che il Santo – sia benedetto – prega così: “Sia Mio Volere che la Mia Misericordia prevalga sulla Mia Ira e sia Mio Volere che la Mia Pietà prevalga sulla Mia Giustizia, affinché Io possa trattare i miei figli con pietà e intervenire in loro favore oltre i limiti della stretta giustizia“. In questo modo la tradizione ebraica ha voluto da una parte riaffermare la dignità della preghiera (“anche il Santo prega”) e dall’altra che la sua volontà, in una preghiera eterna, è che misericordia e pietà siano sempre prevalenti in lui. Per questo si può invocare Dio come “Padre di misericordia”: egli ha scelto di generare sempre misericordia. Lex orandi, lex credendi.

In pochi passaggi abbiamo potuto osservare che due grandi religioni “sorelle”, l’Ebraismo e il Cristianesimo, che affondano le comuni radici nella storia della salvezza, anzi la seconda è innestata sulla prima, hanno in comune la fede nel Dio ricco di misericordia. C’è una terza grande religione sorella che attinge dalla tradizione di entrambe, l’Islam, nella quale Dio (Allah) continua a definirsi “misericordioso”. Fin dalle parole iniziali del Corano così prega e crede l’Islam:
1. In nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso
2. La lode [appartiene] ad Allah, Signore dei mondi
3. il Compassionevole, il Misericordioso,
4. Re del Giorno del Giudizio.
5. Te noi adoriamo e a Te chiediamo aiuto.
6. Guidaci sulla retta via,
7. la via di coloro che hai colmato di grazia, non di coloro che [sono incorsi] nella [Tua] ira, né degli sviati” (Sura I).

Le due qualità (attributi) con le quali viene definito Allah sono “ar-Rahmân, ar-Rahîm” (il Compassionevole, il Misericordioso). Entrambe nascono dallo stesso verbo che significa “fare misericordia”. Sono stati scritti fiumi di inchiostro da parte dei maestri musulmani per cogliere la differenza tra le due parole arabe e la traduzione italiana, come accade in questi casi, risulta un compromesso. L’interpretazione che va per la maggiore è che il primo aggettivo (il Compassionevole) indichi la caratteristica divina di aver compassione per il creato e che questo moto di compassione generi la seconda caratteristica, di avere misericordia per il creato stesso (perciò il Misericordioso).

Però bisogna dire che in realtà il Corano ci mostra la misericordia di Allah in relazione soprattutto al perdono delle mancanze. Fin dalla Sura II,37 Allah è definito il Misericordioso perché egli è colui che accetta il pentimento (in relazione all’episodio di Adamo), è il Perdonatore (II,118). Le due qualità (il Misericordioso e il Perdonatore) faranno da sfondo alle sure successive, mostrando un Dio attento alle mancanze degli uomini ma pronto a perdonarli. Tale caratteristica di Dio ispira persino la giustizia umana. I colpevoli, che vengono perdonati dalle vittime ad imitazione di Allah, saranno perseguiti in maniera più dolce (II,178).

Fino alla Sura LX Allah compare come il Misericordioso e perciò il Perdonatore, o anche il Caritatevole (LII,28). Mentre nelle prime 20 Sure il rapporto di Allah con la misericordia viene evidenziato con grande frequenza, gradualmente tale frequenza diminuisce al punto che dalla Sura LX alla Sura CXIV i riferimenti alla misericordia di Allah si fanno quasi del tutto assenti, per riapparire infine nella Sura (XC,13-17) che si chiede cosa sia la via che ascende: “È riscattare uno schiavo, o nutrire, in un giorno di carestia, un parente orfano o un povero prostrato [dalla miseria], ed essere tra coloro che credono e vicendevolmente si invitano alla costanza e vicendevolmente si invitano alla misericordia”.

La potenza benefica del Dio Padre di Misericordia sembra fare da pietra di paragone per le azioni e i comportamenti degli uomini. Dall’oriente induista, culla della spiritualità umana, ci provengono suggestioni ed echi di mondi lontani che cercano come tra le ombre di decifrare questa potenza benefica. La grande mole di scritti e di tradizioni non rende per niente facile il compito di un occidentale che voglia accostarsi alla conoscenza di tali mondi: basti pensare alla Sruti, la dottrina rivelata, di cui fanno parte libri sacri come i Veda, i Brahmana, gli Aranyaka e le Upanishad; o anche alla Baghavad Gita, dove Sri Krishna rivela i fondamenti della fede a Arjuna che deve combattere.

Mi soffermo proprio sulla Baghavad Gita, il Canto del Divino o il Canto dell’Adorabile. Sicuramente più recente dei Veda, che risalgono a 20 secoli prima di Cristo, la Baghavad Gita si può datare forse intorno al III secolo avanti Cristo. Le traduzioni rendono difficoltoso districarsi nel testo. Però trovo significativo ricordare un episodio in cui Arjuna prega Krishna, incarnazione di Vishnu, di mostrarsi nella sua “forma divina”. Così dice: “Tu sei il Padre di tutto, di ciò che si muove e di ciò che non si muove. Nessun altro che Te è degno di essere adorato, o Guru Sublime! Non esiste un altro uguale a Te nei tre mondi. Chi Ti può superare, Signore dalla potenza incomparabile?
Perciò, Signore Adorabile, mi getto ai Tuoi piedi implorando il Tuo perdono. O Signore, perdonami come un padre suo figlio, come un amico un caro amico, come un amante la sua amata!
Colmo di gioia per aver contemplato una visione mai vista prima, la mia mente non è però libera dalla paura. Sii misericordioso con me, o Signore degli dèi, Rifugio dei mondi! Mostrami soltanto la Tua forma divina (del benevolo Vishnu)” (BG XI, 43-45). La sensibilità di chi scrive percepisce nella divinità adorata le caratteristiche che finalmente conosciamo: la sua paternità, la sua potenza e il suo perdono e anche la sua misericordia, implorata per ottenere quanto richiesto.

Sempre Arjuna è curioso di sapere chi è considerato un buon yogi (lo yoga è una serie di pratiche ascetiche e meditative). Sri Krishna risponde anzitutto ricordando che la saggezza conseguita con lo yoga è superiore alla sua pratica meccanica (BG XII,12): non è la ginnastica ciò che cerca la divinità ma la trasformazione interiore. Quindi prosegue: “Chi è libero dall’odio verso tutte le creature ed è amichevole e compassionevole verso tutti; chi è privo della coscienza di “Io e mio” e di possessività; chi è equanime nella sofferenza e nella gioia; paziente e misericordioso, sempre contento; chi pratica regolarmente yoga, sforzandosi costantemente di conoscere il Sé e unirsi allo Spirito; chi è in possesso di ferma determinazione, con la mente e la discriminazione abbandonate a Me questi è Mio devoto, e Mi è caro” (BG XII,13-14). Risuonano nei versi di questo canto i grandi temi della compassione e della misericordia e soprattutto della libertà dall’odio e dal possesso, nella vittoria per proprio egoismo.

Torniamo alla preghiera di apertura: abbiamo pregato affinché la Chiesa riunisca tutti i popoli in un’unica famiglia. Torniamo ad Isaia: la casa di preghiera del Signore sarà casa di tutti i popoli. Dopo aver appena toccato quattro grandi universi religiosi (cristiano, ebraico, musulmano e induista) ci rendiamo conto che quella casa di preghiera ha un nome ben preciso, ed è misericordia. E che Dio vi sta chiamando ed accogliendo tutti gli uomini e le donne di buona volontà, a qualunque popolo appartengano, senza preferenze di persone (cfr At 10,35).

Per cercare di capire qualcosa in più intorno alla misericordia dobbiamo ora percorrere le due direttrici che abbiamo individuato grazie ai testi: la persona e le azioni.

La misericordia al cuore della persona

Quel che accomuna i testi delle grandi religioni che abbiamo citato per parlare della misericordia è che la misericordia appare come la qualità di una persona. Per le considerazioni che seguono mi soffermo maggiormente sulla rivelazione e la tradizione cristiana e attingo abbondantemente ad un’enciclica di San Giovanni Paolo II, la Dives in misericordia. Sappiamo che essa fa parte di una trilogia che il santo papa voleva dedicare alla Trinità. La prima enciclica della trilogia fu la Redemptor hominis (1979) alla quale seguì appunto la Dives in misericordia (1980) e dopo sei anni la Dominum et Vivificantem (1986): Figlio, Padre e Spirito Santo.

Nell’enciclica il santo papa afferma che Cristo ci ha rivelato come Padre “Dio ricco di misericordia” facendosi egli stesso misericordia: “Egli stesso è, in un certo senso, la misericordia” (DM 2). Cioè una persona, Gesù, incarna la misericordia del Padre; attraverso Gesù, Dio si manifesta parlando all’umanità relativamente alla sua natura benevola e compassionevole. La ricchezza del termine misericordia spinge il santo papa ad approfondirne il significato nella lingua dell’Antico Testamento, l’ebraico, nella lunga nota 52 al n. 4.

Le parole che San Giovanni Paolo II prende in esame sono tre:

  • hesed: è l’amore fedele di Dio, che indica una profonda attitudine di bontà; si tratta di una “grazia” che parte dalla fedeltà a se stesso e alla sua promessa, alla parola data; non a caso compare spesso insieme ad un’altra parola, hesed we emet, quasi un’ediadi per “grazia e fedeltà”: “Non lo faccio per voi, casa di Israele, ma per amore del mio nome” (Ez 36, 22);
  • rah mim: mentre hesed parla più di fedeltà, di responsabilità del proprio amore, rah mim sono le viscere materne, il grembo della gestante; si può dire che è un amore gratuito, originario, non frutto di merito o di impegni, un’esigenza del cuore; la variante femminile della fedeltà a se stesso rappresentata da hesed; con un impegno psicologico notevole, fatto di bontà, tenerezza, pazienza, compassione, disposizione a perdonare: “Può una madre dimenticare il figlio?” (Is 49, 15);
  • hanan: in una rappresentazione di Dio che non può fare a meno di antropomorfizzarsi, la misericordia si fa palpitante e premurosa nel momento dell’errore e della caduta, manifestandosi con il perdono; il verbo hanan significa una costante manifestazione di grazia, una predisposizione magnanima, benevola, clemente; forse il termine misericodia si concentra bene in questo verbo che letteralmente significa “perdonare il nemico vinto”, ma anche “manifestare pietà e compassione” e come conseguenza, perdonare e rimettere la colpa.

Dalla densità delle espressioni usate nell’Antico Testamento per definire il rapporto di Dio con il suo popolo comprendiamo anzitutto che la misericordia – fedeltà, amore viscerale, compassione – non è un atteggiamento che si improvvisa o peggio si scimmiotta in caricature, ma un senso di “divina umanità” che chiama in causa la responsabilità, la visceralità, la redenzione delle persone. Un modo di essere persona.

Mentre contempliamo la grandezza della misericordia di Dio, queste espressioni ci forniscono anche i criteri per intraprendere un itinerario di conversione personale alla misericordia.

Hesed, l’amore fedele, la grazia, richiama alla responsabilità, all’ “I care”, me ne prendo cura, come don Lorenzo Milani aveva scritto nella sua Lettera ai giudici (1965): “Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande : I CARE . E’ il motto intraducibile dei giovani americani migliori. Me ne importa, mi sta a cuore. E’ il contrario esatto del motto fascista -Me ne frego-”. Le parole di Caino: “Me ne frego, sono forse io il custode di mio fratello?” (cfr Gn 4,9). Voglio riverlarti un segreto: sì, sei il custode di tuo fratello! Sei anche il custode delle creature che insieme a te popolano la terra. E sei pure il custode della terra, dell’acqua e dell’aria. Quanto si richiede ai custodi è che ciascuno sia trovato fedele (cfr 1 Cor 4, 1s). La misericordia comincia da questa custodia fedele dell’altro. Se te ne freghi, non sei sulla “via che ascende”.

Rah mim, sono quelle sensazioni viscerali che prova solo chi ha generato. Nell’atto creativo femminile, e a suo modo in quello maschile, è iscritta una “genitorialità spirituale”, un’essere madre e padre, che fa sviluppare un senso diverso di accoglienza della creatura. Per tutti un drogato è un fallito, un malato di mente è un pazzo, un carcerato è un delinquente. Per una madre e un padre con i sentimenti a posto il figlio drogato, malato di mente, carcerato è un misto di dolore, commozione, senso di protezione, rabbia, affetto, speranza. La misericordia prosegue lungo la via della “genitorialità spirituale”, del diventare padri e madri spirituali di ogni creatura. Se vedi solo drogati, malati di mente e carcerati, ti mancano le sensazioni viscerali della misericordia.

Hanan fa dire che il più forte non è necessariamente quello che distrugge tutto; ci siamo abituati troppo alle immagini di devastazione dei film, dove non si è veri eroi se non si uccide qualcuno, almeno il colpevole. Fateci caso: raro vedere un film dove si incontra il perdono. L’uomo, lasciato da solo, in balia del suo senso di giustizia o di onnipotenza, sembra capace solo di desertificazione dei rapporti. Ma è umano cadere; più umano ancora è aiutare chi è caduto. La misericordia divina ci spinge a recuperare la nostra piena “umanità”. Vittorio “Vik” Arrigoni, reporter e attivista per i diritti umani morto a Gaza nel 2011, terminava ogni suo articolo con le parole: “Stay Human, Restiamo Umani”. Se non sei capace di dare la mano al nemico e di rialzare chi è caduto facendosi e facendoti del male, non preoccuparti, significa che bisogna ripetere con maggiore frequenza e intensità lo “yoga della misericordia”.

Raccontare misericordia, fare misericordia

Lo yoga della misericordia. Mi avvio rapidamente verso la terza parte di questo intervento, che in pratica potrebbe essere considerata la premessa delle prossime due conferenze, nelle quali prenderemo in considerazione le opere di misericordia corporale e quelle di misericordia spirituale.

La questione che mi agita sempre è quella di passare dalle parole ai fatti. Se guardassi me, così poco incline a prendermi cura dell’altro, così poco propenso a sentire il dolore, a compatire l’altro, e così poco capace di perdono, dovrei riconoscere che stasera questo non è il posto giusto dove trovarmi e io non sono la persona giusta per parlare di misericordia. Nonostante S. Tommaso dicesse che delle virtù se ne può parlare o perché si praticano o perché si studiano, la virtù della misericordia ci pone davanti ad un dilemma drammatico: “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro”, dice Gesù. Espressione che è la sintesi tematica del “discorso delle beatitudini” e ciò che il giudeo Matteo chiama “perfezione” (Mt 5, 8), il greco Luca chiama “misericordia”(Lc 6, 36) .

Santa Teresa d’Avila, nella sua autobiografia, ci aiuta a riflettere sul modo che possiamo adottare per perfezionarci nella misericordia. Avvicinandosi al Signore, meditandolo e accogliendolo, la santa scopre sempre più la sua piccolezza. Come se una luce potente venisse accesa in una stanza, la luce del Signore inondando l’anima del credente mostra persino i più piccoli granelli di polvere (“Oh, Gesù mio! Che spettacolo vedere come a un’anima caduta in peccato, dopo essere giunta qui, voi, per vostra misericordia, tornate a dar la mano sollevandola! Come si rende essa conto allora delle infinite vostre grandezze e misericordie e della propria miseria!” Aut. 19,5).

Perciò la santa si sente in dovere di raccontare, attraverso le sue miserie, le misericordie (al plurale) del Signore, e a lodarlo e a godere delle stesse. Così dice Teresa in un dialogo ininterrotto con Dio: “È possibile, Signore, che ci sia un’anima la quale, giunta a ricevere da voi simili grazie e doni, e a capire che voi godete di essa, torni ad offendervi, dopo tanti favori e così grandi prove del vostro amore, da non poter dubitare di esso, vedendone chiaramente le opere in sé? Sì, c’è sicuramente, e non una, ma molte volte l’ha fatto, e sono io. Piaccia alla vostra bontà, Signore, che sia io sola l’ingrata, quella che ha commesso così grande iniquità, che si è resa colpevole di così smisurata ingratitudine; anche da lei, però, la vostra infinita bontà ha già ricavato qualche bene: quanto maggiore è il male, tanto più risplende il bene delle vostre misericordie. E con quanta ragione io le posso cantare per sempre!” (Aut. 14,10).

Nel racconto, anzi nel canto delle misericordie del Signore, Teresa trova da una parte quel bene del Signore che risplende per aver sanato il tanto male della sua anima (“Basta già a far vedere le sue grandi misericordie il fatto che ha perdonato non una, ma molte volte tanta ingratitudine” Aut. 19,10); e dall’altra la ragione per cui lei può andare fiera di se stessa, sentendosi tanto amata da Dio.

La verità è che Dio non si stanca di usare misericordia. Dice Teresa: “Le nostre colpe lo inducono a perdonarci più presto, come gente di casa sua, che ha mangiato, come suol dirsi, il suo pane. Ricordino le sue parole e considerino ciò che ha fatto nei miei riguardi: mi sono stancata prima io d’offenderlo, che lui di perdonarmi” (Aut. 19,15).

Mentre rileggiamo le parole di questa gigante della spiritualità del ‘500, e di sempre, ci sentiamo intimamente consolati. L’esperienza di Teresa, pur partendo dalla base negativa delle sue colpe, parla di Dio. Ci dice che lui è misericordioso, che c’è un speranza per tutti, che persino i peccatori possono cambiare vita, diventare santi; e che lui non si stanca, non si stanca di perdonare.

Raccontare le misericordie del Signore è già fare misericordia. Richiede molta umiltà, perdere la faccia e la considerazione umana, ammettere le proprie miserie e le proprie infedeltà sulle quali ha avuto la meglio il Signore. Ma è il primo esercizio, se vogliamo chiamarlo così, la prima pratica dello yoga della misericordia, un’ascesi dell’anima che procura la saggezza per diventare realmente misericordiosi: riconoscere la propria piccolezza e la magnanimità di Dio, che mi onora con il suo amore.

Se fossi un Rabbi ebraico o un Sufi musulmano o un Guru indù vi suggerirei un compito da mettere in pratica fino alla prossima conferenza, in modo da entrare più pienamente nello spirito del Giubileo: riconoscere e ammettere le miserie personali, contemplare la perfezione del Signore e raccontare, cantare le sue misericordie.

Ma sono solo un Prete cattolico, perciò vi chiedo semplicemente di pregare per me, e con una fava prendo due piccioni: mi assicuro un po’ di intercessioni davanti a Dio e vi faccio fare un’opera di misericordia!