Mettere insieme vita e speranza

Questo post è stato pubblicato come articolo nel magazine Vivi Vejo, numero di marzo/aprile 2015

La parola Samadi ha origini sanscrite. Significa “mettere insieme, unire” e rivela una natura religiosa. Infatti nell’induismo e soprattutto nel buddismo Samadi rappresenta la concentrazione in un solo punto, il momento in cui il meditante e l’oggetto meditato si fondono insieme. Si tratta dell’ultimo stadio dell’Ottuplice sentiero prima del nirvana.

Quando i miei superiori mi assegnarono in servizio alla clinica Samadi (Via di Grottarossa Km 2,200) non mi sono tanto soffermato a riflettere sul fatto che da cattolico avrei varcato la soglia di un concetto buddista, ma se da prete sarei stato all’altezza di un compito così delicato. Alla Samadi (oggi non più “clinica” ma “Residenza psichiatrica”) avrei incontrato donne e uomini con sofferenze e disturbi che di solito vengono stigmatizzati dalla società. Spesso mal tollerati persino dalle famiglie di origine, straziate dal dolore e dalla sensazione di impotenza di fronte ad un familiare malato psichiatrico. O depressivo. O che ha sviluppato qualche forma di dipendenza.

Ricordo il mio primo giorno, il primo ospite della struttura che ho incontrato. Quel giovane si presentò come Gesù di Nazaret. Il primo ospite che ho conosciuto credeva di essere Gesù.

Ho ripensato spesso a quell’incontro. Gesù nella sua buona notizia si è identificato con i malati: “Ero malato e siete venuti a trovarmi”. Insomma, quel giovane, presentandosi come “Gesù”, non era andato troppo lontano dalla verità: se Gesù si è immedesimato con i malati, allora vuol dire che i malati si possono presentare come Gesù. E a me aveva ricordato, involontariamente, che la buona notizia di Gesù si preoccupa di indicare ai discepoli il modo in cui devono comportarsi: “Strada facendo, prendetevi cura dei malati”.

Quelli in Samadi non sono malati come tanti altri. Oddio, nessun malato è come tutti gli altri. Ma quelli psichiatrici sono certamente particolari. Non tutti, per esempio, sono romanticamente amabili come a volte vorrebbe l’immaginario dei sani. Un malato oncologico strappa il cuore più di un malato mentale che manifesta segni di violenza sugli altri. Un bambino operato di appendicite fa più tenerezza di un giovane alcolista o tossicomane in crisi maniacale. E non tutti i malati psichiatrici danno soddisfazione come si attenderebbe chi li assiste. Per esempio non tutti si ricordano il tuo nome o non tutti si fanno stringere la mano. E non tutti ti ringraziano di un’attenzione, anzi ne pretendono un’altra e un’altra ancora, sempre di più. Strada facendo si incontrano anche loro, di cui prendersi cura.

In Samadi il prendersi cura dei malati è assicurato dall’eccellente personale sanitario e amministrativo. Ovviamente ciascuno per la sua competenza fa il possibile per andare incontro agli ospiti della struttura. In quel “prendersi cura” non c’è solo il senso del lavoro da svolgere e delle attività che si è addestrati a fare per risolvere certi casi. Dentro il “prendersi cura” c’è scritto anzitutto l’attenzione per le persone e i loro bisogni, la solidarietà umana, la com-passione (nel suo significato etimologico di soffrire insieme), il desiderio di vincere la solitudine e di rendere dignitosa la vita di persone in difficoltà.

Poi vengo io, il Cappellano, che si chiede in che modo prendersi cura degli ospiti della Samadi. E non solo degli ospiti, perché davanti ai miei occhi vi sono anche i loro familiari e il personale che li assiste. Sono partito da un semplice impegno: esserci. Essere presente durante il giorno in quel contesto umano dove si infrangono sogni e si creano speranze, dove tornano brutti ricordi e si aspettano buone notizie, dove si brancola nel buio e si cerca una luce. A ben pensarci con poche differenze rispetto alla vita, quella di tutti.

Grazie a quell’esserci tutti i giorni, a pregare con loro, ad ascoltare le loro confidenze e a sorridere insieme delle piccole gioie quotidiane ho potuto imparare due cose. La prima è che per chi è sano (o si ritiene tale) il rapporto equilibrato e cordiale con chi è malato è una terapia. I malati guariscono i sani. I ritmi della vita, le conquiste, le attese, i bisogni: tutto ritorna nella sua essenzialità, i malati aiutano i sani a riscoprire ciò che è essenziale, e non intendo banalmente l’importanza della salute.

La seconda cosa che ho imparato è che per la malattia mentale si fa molto e si fa poco. Si fa molto perché, rispetto al passato, l’assistenza che la società assicura alle persone con disagio mentale è davvero migliorata in termini quantitativi (con centri di salute mentale, residenze, case-famiglia, comunità, volontariato…) e in termini qualitativi (pensiamo solo ai farmaci di nuova generazione…). Ma si fa ancora poco: manca una reale rete di prevenzione per i soggetti deboli e a rischio (penso per esempio a chi cade nell’abuso di stupefacenti e nella ludopatia), mancano centri territoriali per il sostegno dei familiari (a volte lasciati drammaticamente soli e disorientati), mancano eventi formativi e informativi perché la corretta conoscenza del problema della malattia mentale aiuti a vincere lo stigma che la circonda, si deve ancora costruire bene l’attenzione sociale sufficiente a far apparire normale svolgere il volontariato anche tra i malati di mente (oltre che tra i giovani o nei paesi in via di sviluppo).

Questo vale ancora di più per i credenti. Tutti sappiamo il generoso impegno che nelle comunità cristiane laici, religiosi e sacerdoti riversano in mille rivoli, dalla catechesi alla carità. Giustamente occorre avere riguardo per le sensibilità proprie di ciascuno. Ma non è un atto meno religioso o meno impegnato quello di chi dedicasse una parte del suo tempo a prendersi cura dei malati psichiatrici con semplici e feriali attività: passeggiare, giocare, mangiare, pregare, cantare e vedere le partite di pallone. Insieme. Perché sappiano che non sono soli. Che la loro malattia non è una maledizione e che pur nella sofferenza ci sono altre persone che gratuitamente vogliono condividere un tratto di cammino con loro. Che possono contare su un amico per un abbraccio (qualcuno non ne ha mai ricevuto uno) o per l’acquisto delle mutande. Penso che sarebbe davvero molto evangelico per una comunità cristiana offrire le proprie migliori energie nel prendersi cura dei malati psichiatrici (e dei loro familiari, che meritano un capitolo tutto per loro)

Samadi: riprendo il suo concetto e ci gioco un po’. Samadi: un luogo che serve ad unire, a mettere insieme. Malati e sani. Ospiti e volontari. Non credenti e credenti.

Vita e speranza.