L’esperienza di un prete in psichiatria, tra identità e missione

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Intervento di Ugo Quinzi in “Cosa ci fa don Ugo in Samadi? Ovvero riflessioni sulla presenza di un assistente spirituale in una residenza psichiatrica” – Roma, 25 gennaio 2017

Sintesi
Don Ugo in Samadi, un ritorno al futuro. Agli albori della mia vocazione ritrovo l’incontro con persone tossicodipendenti e con disturbi mentali (1980-1982). Nell’esperienza Samadi (2013-oggi) scopro il compimento della vocazione ecclesiale di obbedienza, servizio, costruzione di famiglia.

 

Mi è stato chiesto di dare un contributo a questa bella iniziativa. Non avendo la preparazione degli altri intervenuti né potendo con sufficiente distacco valutare la mia presenza in Samadi, ho pensato che raccontar-mi – quasi come sul divano di uno psichiatra – potesse se non altro incuriosire e offrire nuove ermeneutiche.

Un passato che riaffiora

Tornando con la memoria agli albori della mia vocazione (stiamo parlando degli inizi degli anni ’80 del secolo scorso) non posso trascurare il ricordo di quel gruppo di amici, della comitiva che frequentavo. Come può accadere ancora oggi tra giovani adolescenti, la scoperta delle canne e poi dell’eroina fu lo spartiacque che divise la nostra vita. Io da una parte, che mai ne ho fatto uso, loro dall’altra, pian piano disintegrati umanamente da quella chimica perversa.

Fu l’occasione in cui conobbi don Mario Picchi. Il suo “Progetto Uomo”, diventato ormai anche facoltà di studio, mi aprì gli occhi sulle sofferenze di centinaia di giovani che tentavano di uscire dall’incubo della droga e delle loro famiglie, alle quali il progetto restituiva almeno un pizzico di speranza. Furono anni di impegno e di conoscenza di una novità che mi ha segnato molto; il nucleo dell’intuizione di don Mario mi è chiaro ancora oggi. E che in un momento di smarrimento sociale, per un’altra volta, era un prete a indicare la rotta.

Contemporaneamente ebbi l’incontro con il disagio e la malattia mentale. S. Maria della Pietà “cominciò a chiudere” nel 1978 e ricordo alcune famiglie nelle quali ripiombarono all’improvviso i parenti, figli, fratelli, famiglie disorientate, a volte disperate. Un’esperienza in particolare mi ritorna in mente, quella di Franco, uomo geniale, programmatore informatico di alto livello, affetto da schizofrenia, autolesionista. Le ore passate con lui a chiacchierare. La famiglia distrutta dal dolore e dalla preoccupazione per i suoi improvvisi scatti di violenza. Io non avevo nemmeno 20 anni. Fu Franco ad introdurmi nel mondo della programmazione informatica, prima che il suo cervello cedesse al delirio dal quale non è mai più tornato.

La mia vocazione di prete si è consolidata attraverso la conoscenza della sofferenza psichica. Io credo nella Grazia di Dio e so che quanto sperimentato durante la mia adolescenza è stato un grande dono per il resto della mia vita.

“Tu credi nella psicologia?”

Un caro psichiatra seduto tra noi mi ha chiesto qualche giorno fa: “Tu credi nella psicologia?”. È curioso che questa domanda giunga solo ora, nel quarto anno della mia permanenza in Samadi. È curioso pure che nessuno mi abbia mai chiesto che tipo di studi io abbia affrontato, se non genericamente per parlare di “teologia”. Non c’è tuttavia molto da stupirsene, perché credo che né i Cardinali che si sono succeduti alla guida della Diocesi di Roma né i Vescovi loro ausiliari sappiano che studi ho fatto; o almeno neanche loro me lo hanno mai chiesto.

Preparandomi a diventare prete ho frequentato la filosofia e la teologia. Al momento di scegliere l’indirizzo di specializzazione mi sono deciso per la spiritualità, la branca della teologia più prossima alla psicologia. Feci la specializzazione in Gregoriana, dai gesuiti. Presentai il mio piano di studi e l’allora preside, il compianto padre Charles André Bernard, mi disse con il suo marcato accento francese: “Ma non sarà un po’ psicologista?”: aveva notato che il numero di esami di psicologia non era proprio marginale… Durante gli studi tradussi per il corso di Psicologia della Vocazione un documento dei Vescovi nordamericani dall’eloquente titolo “The priest and stress”, il prete e lo stress, per la pubblicazione in Italia. Il documento non fu pubblicato (del resto stiamo pur sempre parlando di Italia…), ma lo sforzo mi conquistò una buona valutazione e la simpatia dei docenti di psicologia.

Era il tempo del Secondo Sinodo di Roma e mi piaceva l’idea di poter offrire uno spunto di riflessione ai suoi lavori. La mia tesi perciò fu sui laici e la loro formazione con una metodologia ispirata alla logoterapia di Viktor Frankl e alla Psicologia Umanistica di Carl Rogers. So di dare un duro colpo a tutti i cultori della prima scuola viennese di psicoterapia. Ma rispetto al genio un po’ algido della prima scuola la domanda di senso cui cercava di rispondere la terza, puntando a potenziare le risorse dell’uomo piuttosto che a ricercarne le patologie, mi sembrava maggiormente strumentale al progetto ecclesiale di quei tempi che si lambiccava su come formare gli adulti. Rogers invece mi appassionò per le sue profonde intuizioni su non direttività e cliente al centro; in tempi in cui la “direzione” spirituale rasentava i confini del plagio, il metodo della psicologia umanistica poteva rendere un prezioso supporto al rinnovamento del counseling spirituale.

Tutto finì più o meno lì, perché a livello pastorale un tale progetto avrebbe richiesto uno staff con una preparazione specifica e la condivisione di precisi obiettivi teologici e metodologici. Il Secondo Sinodo di Roma mise una pietra tombale sul rinnovamento del metodo nella formazione di un laicato adulto (cfr Libro Secondo Sinodo, pp. 136-138) e ancora oggi sostanzialmente non ci sono progetti diocesani di valore e si procede un po’ a vista, lasciando che ad occuparsi della formazione dei laici siano le solite emozioni gestite nei gruppi e nei movimenti.

Venni inviato a fare il viceparroco e continuai per lunghi anni ad occuparmi di formazione di giovani. Sentii da una parte l’esigenza di trovare strumenti efficaci per le relazioni d’aiuto ai giovani e trassi ispirazione dagli studi di Ferdinando Montuschi (analisi transazionale, competenza affettiva, apprendimento); dall’altra avvertii la necessità di completare la formazione sociopedagogica e trovai il filone giusto nel metodo di apprendimento cooperativo di Elizabeth Cohen conosciuto attraverso Mario Comoglio. Devo dire che l’esperienza maturata in parrocchia si è rivelata molto utile anche nella parentesi di insegnamento a scuola (dove peraltro attinsi a piene mani pure dal pensiero di Abraham Maslow) dalla quale fui strappato per essere proiettato in Samadi. Come ben sa il Vescovo presente, che per anni ha seguito da vicino le mie attività nella pastorale giovanile ed universitaria, per grazia di Dio i frutti non mancarono.

Non so se il raccontar-mi ha risposto a sufficienza alla domanda del caro psichiatra seduto tra noi. Io credo in Dio e non nella psicologia, ma come ogni utile buon strumento benvenuta la psicologia a prendersi cura delle creature di Dio.

Perché proprio don Ugo e proprio in Samadi?

Ma la domanda vera è: perché proprio don Ugo e proprio in Samadi?

Qui si aprirebbe un filone fin troppo interessante sulla responsabilità dei Direttori Sanitari ad accogliere tra il personale operativo di una struttura sanitaria chiunque venga loro proposto. Il Direttore Sanitario che ha accolto don Ugo perché lo ha fatto? Forse perché dopo aver preso visione del suo curriculum e aver avuto con lui un colloquio sulla sua formazione e sulle sue esperienze precedenti ha ritenuto che fosse il migliore sulla piazza? Perché un Direttore Sanitario dovrebbe essere tenuto all’oscuro di competenze, capacità e precedenti professionali di chi collaborerà con il personale della struttura al benessere degli assistiti? Perché il Direttore Sanitario sarebbe esonerato dall’esprimere un parere di idoneità, sulla base di criteri condivisi e valutabili, rispetto a un ruolo tanto delicato come quello di un assistente spirituale? Ci sono colleghi cappellani che a parere di molti si sono rivelati privi di competenze professionali e financo umane per esercitare quel loro incarico; perché non vi è modo di esprimere un giudizio, per esempio periodico, sull’operato di persone alle quali, tra superficialità e scarsa voglia di compromettersi da parte delle istituzioni, viene consentito quotidianamente di destabilizzare i pazienti, in totale contraddizione con le finalità della loro missione?

Accertato che il Direttore Sanitario della Samadi non ha avuto voce in capitolo riguardo alla presenza di don Ugo in Samadi, e quindi non ha colpe in merito, resta da chiedersi perché: se per esempio don Ugo non sia la cavia di un crudele esperimento della consueta incompetenza delle gerarchie ecclesiastiche oppure più banalmente non sia vittima della petulanza della Direzione Generale della Samadi e di conseguenti scelte affidate al caso.

Penso che non possa esistere un Vescovo capace di dire ad un suo prete: siccome non so cosa farti fare ti mando lì, dove insistono tanto per avere un prete, ci stai un anno e dopo magari ti do un ospedale più grande. Sarebbe una soluzione demenziale, se non dal punto di vista operativo di sicuro sotto il profilo umano e cristiano.

Però io credo nella Provvidenza e quindi so che non esistono scelte tanto incompetenti, casuali o demenziali che nelle mani di Dio non possano trasformarsi in benedizione. Ecco quindi perché don Ugo è arrivato in Samadi: perché Dio, nel suo disegno provvidente, ha voluto benedire don Ugo.

Anzitutto offrendogli l’occasione di obbedire ai suoi superiori. Non ho mai scelto un incarico e quando si è trattato di darmene uno nel 2013 non mi è stata sottoposta la lista delle strutture libere. Perciò posso esprimermi in Samadi liberamente ed esclusivamente come prete: è stato richiesto un prete, sono stato inviato io. Altri hanno scelto: è il principio del servizio. Se il Direttore Sanitario ricorda, quando sono arrivato gli dissi: “Sono qui per mettermi al servizio e non per creare problemi. Mi consideri a disposizione per quello che ritiene utile e che io possa fare.” (allora gli davo ancora rispettosamente del lei). E lo stesso dissi al Direttore Generale. Laddove servire va inteso dall’accompagnare un ospite che ne ha bisogno a preparare un piatto di pasta; dallo spazzare una sala al celebrare la Messa; dall’ascolto di uno sfogo al preparare un progetto.

Mettersi al servizio, con il proprio vissuto, con la propria esperienza, con la propria personalità, significa per me un’opportunità di crescita come prete e – spero – una risorsa utile alla Samadi. Non sterili antagonismi o competizioni tra professionalità diverse, che anche volendo non riuscirebbero a contrapporsi o invadere i rispettivi campi di azione, ma collaborazioni, sinergie a beneficio di tutti.

C’è un altro aspetto della missione di prete che ho sempre considerato prioritario (ovviamente devo dare qualche spunto a chi mi seguirà per parlare di transfert e controtransfert). Mi piace pensare al prete come ad un costruttore di famiglia. La famiglia dei figli di Dio. L’umanità come unica famiglia di Dio. Con tutti i limiti dell’essere famiglia, delle relazioni che in essa si instaurano, dei conflitti e del sostegno che la rappresentano.

Vi chiedo di osservare una cosa, un difetto che volontariamente o involontariamente si è andato a intrufolare nella locandina che è passata per le vostre mani. Tutti i relatori sono stati citati con il loro nome puntato e il loro cognome. Pure il Vescovo. Solo l’assistente spirituale, il Cappellano, è semplicemente don Ugo. Come se tutti sapessero chi sia e cosa fa. Come se fosse tanto familiare a tutti da potersene impossessare (il nostro Cappellano) e chiamarlo solo per nome.

Volontario o involontario che sia (c’è chi con i lapsus ci vive…), a me questo difetto piace. Lo trovo la migliore conferma del mio essere tra voi, con voi e per voi. Grazie.