Il coraggio di essere uomini nuovi

  1. il cammino del riconciliato: strade che si incontrano…Vi mostrerò una via migliore di tutte (1Cor 12,31):

    I sacri pastori sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della missione salvifica della Chiesa verso il mondo, ma che il loro eccelso ufficio è di pascere i fedeli e di riconoscere i loro ministeri e carismi, in modo che tutti concordemente cooperino, nella loro misura, al bene comune (LG, 30).

  2. … in una comunità che prega…Pregando, non sprecate le parole come i pagani, i quali credono di venire accettati a forza di parole (Mt 6,7):span>

    La sacra Liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa (SC, 9)… Nondimeno essa è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e insieme la fonte da cui promana tutta la sua virtù (SC, 10)… La vita spirituale tuttavia non si esaurisce nella partecipazione alla sola Liturgia… Il cristiano è tenuto a pregare incessantemente… Nel sacrificio della Messa preghiamo il Signore che “accettando l’offerta del sacrificio spirituale” faccia “di noi stessi un’offerta eterna” (SC, 12).
  3. … per aprirsi ad un mondo che attende…Come tu, Padre, mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo (Gv 17,18):

    La Chiesa sa perfettamente che il suo messaggio è in armonia con le aspirazioni più segrete del cuore umano, quando difende la causa della dignità della vocazione umana, e così ridona la speranza a quanti disperano ormai di un destino più alto. Il suo messaggio non toglie alcunché all’uomo, infonde invece luce, vita, e libertà per il suo progresso e all’infuori di esso niente può soddisfare il cuore dell’uomo: “Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è senza pace finché non riposa in te” (GS, 21).
  4. … il giorno che non finisce.In quel giorno chiederete nel mio nome e io non vi dico che pregherò il Padre per voi:
    il Padre stesso vi ama perché voi mi avete amato (Gv 16,26):
    La chiesa, alla quale tutti sono chiamati in Cristo e nella quale per mezzo della grazia di Dio acquistiamo la santità, non avrà il suo compimento se non nella gloria del Cielo, quando verrà il tempo della restaurazione di tutte le cose, e con il genere umano anche tutto il mondo, il quale è intimamente congiunto con l’uomo e per mezzo di lui arriva al suo fine, sarà perfettamente restaurato in Cristo (LG, 48).

Un itinerario spirituale per non accogliere invano la grazia di Dio

Nella meditazione conclusiva non occorre ripetere e nemmeno sintetizzare le riflessioni precedenti, Abbiamo ricevuto molti inputs diversi. Abbiamo verificato di essere i destinatari di un annunzio che salva e converte di continui la chiesa, facendole assumere i lineamenti del volto di Cristo, necessari per questa generazione. Abbiamo anche constatato che il Signore Gesù dichiara di essere pronto a fare nuove tutte le cose. Da parte nostra certamente dovremo prestare attenzione perché la grande quantità di grazia che abbiamo ricevuto non sia accolta invano (cfr 2Cor 6,1). Con quest’ultima parte dei nostri ES vorrei che tracciassimo un vero itinerario spirituale che parta dalla novità che in questi giorni abbiamo avuto modo di meditare, la novità che siamo noi, per consentirci di prolungare nel tempo e di far fruttificare i doni ricevuti.

Nessuno di noi, infatti, torna a casa a mani vuote, uguale a come è venuto qui. Nessuno di noi si è “perduto”, ma dall’incontro vitale con Cristo tutti noi ne siamo usciti trasformati, con nuovi orizzonti, nuove disposizioni interiori, con nuove prospettive di impegno pastorale e di impegno ecclesiale.

Cosa accadrà lasciando gli ES? Che torneremo alle nostre rispettive realtà e tutto ci sembrerà troppo uguale a prima. Torneremo con slanci che forse gli altri non capiranno, con entusiasmi o convinzioni maturate che potranno non essere condivise da tutti, con l’attenzione affinata per scorgere nei piccoli segni di cui è intessuto il nostro quotidiano, i segni della volontà del Padre.

Eppure tutto ci sembrerà troppo uguale a prima. Noi siamo cambiati, ma la realtà no, non è cambiata: troverai il solito parroco, i soliti parrocchiani, le solite occupazioni e le solite timide scelte pastorali; troverai gli impegni e le faccende di sempre che depauperano il nostro tempo restringendo entro limiti angusti quello che vorremmo destinare a ciò che ci piace.

Due tentazioni da vincere

E’ a questo punto che si impone fin d’ora la determinazione ad una progettualità del proprio spirito per evitare nel modo più assoluto di disperdere le ricchezze donateci dal Signore in questi giorni: “Vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio”.

Infatti si profilano già all’orizzonte due tentazioni con le quali il maligno si propone lo scopo di vanificare i giorni vissuti insieme.

  1. La tentazione del giudizio. Il Signore ci ha fatto intendere molte cose, e sono certo che nella chiesa di Roma vi sono molti fedeli che sono andati avanti e hanno già intravisto la terra promessa. Ma come i profeti che erano le punte avanzate del popolo si Israele, così le punte avanzate della chiesa di Roma non hanno il compito di “giudicare” i propri fratelli. Hanno semmai il compito di avvertirli, di sollecitarli, di incoraggiarli o di scomodarli a seconda dei casi. Il profeta è una sentinella (cfr Ez 33,1-9: “Io ti ho costituito sentinella per gli israeliti”), che deve guardare lontano rimanendo vicino, rallegrarsi di ciò che attende il popolo e vivere la sofferenza di ciò che il popolo solo faticosamente sta cercando di conquistare. La sentinella, il profeta, che è andato avanti diventa così “custode” (“Padre, li ho custoditi nel tuo nome”) e non giudice dei propri fratelli.
  2. Esiste una seconda tentazione: quella del non cambierà nulla. Ciascuno di noi è consapevole delle forti resistenze che ogni comunità incontra nell’accettare che qualcosa (o tutto!) cambi. Sono resistenze non tanto alla novità in sé, quanto a Cristo che fa nuove tutte le cose. Sono resistenze in parte dovute alle debolezze e alle incapacità umane di pastori e fedeli; in parte sono resistenze causate dal peccato – nostro e altrui-. Facile, troppo facile per il nemico aggredirci con lo sconforto di vedere noi animati da tante buone intenzioni, e mentre la chiesa di Dio langue, i nostri fratelli agire e muoversi baldanzosamente inconsapevoli dei tanti e gravi motivi che dovrebbero spingerci alla conversione. Troppo facile per lui, il nemico, troppo facile per noi, le vittime, dire: “Non cambierà nulla”. Ma il tentatore, in questo modo si arrischia – e lui lo sa bene – a compiere un furto sacrilego. Come un ladro egli vorrebbe appropriarsi di quello che sa costituire per un cristiano il cuore stesso della sua fede: la speranza. La speranza cristiana non è la vaga nostalgia per un futuro migliore, la speranza cristiana è virtù teologale, cioè virtù fondata in Dio, perché Dio stesso è speranza. Dio è speranza lungimirante che attende con pazienza l’uomo ai crocevia della storia, è speranza che l’uomo capisca, è speranza infinita che riempie di certezze. Dio si è fatto speranza in Cristo, uomo nuovo che rende nuovi: se Cristo è tale anche noi abbiamo speranza di essere come lui. E non fu Cristo, la speranza, a dichiarare a Pietro che sulla chiesa mai e poi mai avrebbero prevalso le porte degli inferi (cfr Mt 16,18)? Cambierà, cambierà questa situazione, cambierà rispondendo alla voce ruggente, tuonante, di fuoco del Signore. Il cristiano sarà l’artefice di questo cambiamento, perché il cristiano è l’unico uomo nuovo la cui speranza è certezza e non utopia.

Per lottare

Ma nella prospettiva di affrontare queste due tentazioni, del giudizio dei fratelli e della chiesa e dello sconforto per la lentezza dei cambiamenti, è importante predisporsi alla lotta e predisporre un piano di lotta. Un itinerario spirituale altro non è che un piano di lotta contro le tentazioni al fine di “non accogliere invano la grazia di Dio”, salvaguardando i doni del Signore. Un itinerario spirituale prolunga nel tempo la grazia di un momento, la fa crescere e fruttificare, la porta a compimento, ci rende partecipi e co-protagonisti della divina avventura della salvezza.

Uscendo da questi esercizi come uomini nuovi troviamo la necessità di assumente consapevolmente e coraggiosamente il ruolo che il Signore vuole darci nella storia della chiesa mentre si apre il nuovo millennio cristiano (il coraggio di essere uomini nuovi). Potremmo intitolare questi itinerario spirituale: Il cammino del riconciliato: strade che si incontrano in una comunità che prega per aprirsi a un mondo che attende il giorno che non finisce. Si tratta di un percorso che suddividiamo in quattro tappe, sapendo che oggi è solo il giorno della partenza, mentre ciò che ci attende è la fatica del cammino quotidiano.

Il cammino del riconciliato: strade che si incontrano

Sappiamo che ciascun uomo si trova su una via che è la sua. Una via che le situazioni della vita, le esperienze, il Signore hanno gradualmente tracciato. Le vie degli uomini sono tante quanti sono gli uomini (e i popoli, cfr At 14,16: “Dio ha lasciato, nelle generazioni passate che ogni popolo seguisse la sua strada”). E’ sorprendente scoprire che queste vie vanno tutte nella stessa direzione. L’uomo ricerca l’infinito, l’eterno naturalmente. Eppure, nonostante tale comunanza di intenti, spesso le strade degli uomini procedono parallele; vanno nella stessa direzione, ma tra loro non si incrociano mai. L’uno accanto all’altro, ma ciascuno per conto suo. La chiesa è un tentativo di far convergere queste strade, di convogliarle in un’unica grande strada, una via di salvezza.

E’ l’uomo riconciliato l’artefice di tale prodigio. Di fatto nell’antichità cristiana non a caso la dottrina di Cristo seguita dalla comunità dei riconciliati veniva chiamata “la via”. Negli Atti leggiamo che Saulo “chiede lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne seguaci della dottrina di Cristo [alla lettera: della via di Cristo] che avesse trovati” (At 9,2). La chiesa è il tentativo di far convergere popoli, culture, persone diverse, ciascuno con il proprio cammino, in una via univa, che in ultima analisi è Cristo stesso: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), la via per andare al Padre, la via per andare all’uomo.

Anche Paolo, dopo aver cambiato direzione (= conversione) ha accettato di praticare la via; e non ha esitato a parlarne ai suoi fratelli. Egli era molto consapevole della diversità e della ricchezza delle vie di ciascun credente. Anzi sapeva che ogni credente convertito alla via del Signore apporta a quella via quanto di migliore si trova nella sua via personale.

Questa dialettica tra la grande via di Cristo e della chiesa, e le piccole vie di ciascun credente esige di non tralasciare una menzione particolare ai carismi. Di fatto in una comunità cristiana ciascuno, nella sua misura, è portatore di carismi. Il carisma è una piccola via attraverso la quale il Signore rende unico e irripetibile il cammino di ciascun uomo e contemporaneamente arricchisce la chiesa di novità continua.

S. Paolo questo lo ha compreso bene, e ha compreso anche chi è l’artefice di tale multiforme e dinamica vitalità della chiesa: “A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune” (1Cor 12,7). Lo Spirito si fa carico, nella Chiesa, del bene comune, che essenzialmente consiste nel dirigere il corpo di Cristo perché ogni membro trovi la sua giusta realizzazione, l’occhio come occhio, la mano coma mano, e così via… Fuor di metafora, allo Spirito preme che l’uomo, affidato alle mani dell’uomo, diventi capace non solo di custodirlo, ma anche di aiutarlo a crescere, ad esprimersi, a diventare se stesso. Se vogliamo, i doni che ciascuno di noi sa di aver ricevuto dallo Spirito non servono a se stesso, ma agli altri. Lo Spirito individua una necessità e fa dono ad una persona dei mezzi per andare incontro a quella necessità. Sulle spalle del credente pesa allora la grave responsabilità del servizio.

Essa va intesa come il vincolo di chi soggiace liberamente alle necessità. Se le parole hanno ancora un significato, servire significa essenzialmente fare ciò che un altro chiede che si faccia. Ha meno importanza quel che io penso sia giusto o ciò che io penso riguardo alla richiesta che mi giunge. La necessità del servizio non la determino io, ma la determina sempre un altro; in caso contrario non saresti tu il servo, ma saresti il padrone. In molti casi, soprattutto nella chiesa dove tutto deve essere chiamato e considerato servizio, si incontrano persone che pur di essere padroni sono disposti a passare la vita a servire i fratelli laddove sono certi che potranno ottenere il maggior prestigio, o ottenere i risultati migliori o più appariscenti – senza chiedersi per niente se quello è il servizio di cui la chiesa aveva obiettivamente bisogno.

La responsabilità del servizio obbliga a domandarci di continuo quali sono le effettive esigenze della comunità dei credenti e come è possibile andare incontro ad esse, obbliga a sotto-metterci gli uni agli altri (cfr Ef 5,21). Lo spirito di servizio è dunque un dono tipico dello Spirito Santo, ed è il dono che consente di armonizzare nella chiesa la molteplicità delle vie degli uomini. Esso è talmente importante che riceve addirittura una sua struttura sacramentale: il diaconato è il primo, indispensabile gradino dell’ordine sacro – sacramento in quanto realizza, pone in essere, ciò che significa, e cioè servizio nella chiesa, della chiesa, per la chiesa.

Tale struttura sacramentale dell’ordine sacro – il servizio – rivela la sua importanza e decisività per la chiesa e la sua missione proprio quando, all’interno della comunità dei credenti si impegna a “fare unità”, a fare che tutti sentano con un cuore solo (con-cordia), a fare che in tutti prevalga l’attenzione al bene comune. Così il CVII può affermare: I sacri pastori sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della missione salvifica della Chiesa verso il mondo, ma che il loro eccelso ufficio è di pascere i fedeli e di riconoscere i loro ministeri e carismi, in modo che tutti concordemente cooperino, nella loro misura, al bene comune (LG, 30).
La cooperazione al bene comune a cui tutti i fedeli sono chiamati, secondo la loro misura, trova perciò la sua dimensione fontale nei ministri e nei carismi elargiti dallo Spirito, e contemporaneamente nel riconoscimento che i legittimi pastori ne fanno, come assunzione nella struttura organica sacramentale (= corpo di Cristo) del servizio che essi rendono.

Ma Paolo non si contenta di verificare che nella chiesa esiste una molteplicità di vie orientate al bene comune, al servizio e all’apostolato nel mondo. “io vi mostrerò – dice l’apostolo – una via migliore di tutte”.

Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli [è il caso di un grande predicatore], ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montane [potrebbe trattarsi dei catechisti], ma non avessi la carità, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato [gli operatori della carità, volontari, i ministri straordinari dell’eucarestia], ma non avessi la carità, niente mi giova. La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto sopporta (1Cor 13,1-7).

Le molteplici strade degli uomini, i loro carismi, le loro disposizioni a servire si incontrano nella chiesa e in Cristo solo lungo la via maestra della carità. In un itinerario spirituale veramente profondo e proficuo non potremo evitare di domandarci su quale via stiamo esercitando i nostri ministeri, i nostri carismi, la nostra missione. Credo che nella prospettiva di essere operatori autenticamente pastorali, di quella pastoralità tipica del cristiano (che spetta ecclesialmente ai ministri ordinati, ma che vede coinvolto ogni battezzato nei confronti del mondo) il Signore ci esorti a provare gli stessi sentimenti suoi verso il gregge affidatoci. La carità è la via, migliore di tutte, lungo la quale, dunque, la nostra azione pastorale riceve consistenza e conferma, nell’armonizzazione delle vie di tutti i credenti.

In una comunità che prega

Parlando di pluralità di strade, parlando ti “tutti i credenti” abbiamo messo anche in luce contemporaneamente il nesso profondo che esiste all’interno della chiesa-comunità tra tutti i suoi membri. Vi è una solidarietà all’interno della chiesa che trascende, non dico supere, ma trascende, cioè viene dall’alto, trascende ogni nostra capacità di essere solidali.

La comunità dei credenti assume una sua precisa identità nel possesso di “legami donati”: siamo figli perché Dio ci ha fatto dono della sua paternità; siamo fratelli perché Cristo ci ha fatto don della sua fraternità; siamo “sposi” perché lo Spirito ci ha fatto dono della sua nuzialità. L’azione della chiesa, perciò, è al tempo stesso umana e divina. Impossibile concepire la chiesa come una realtà costituita da legami improntati alla funzionalità, alla esteriorità, all’efficienza. Tale convinzione, che certamente è abbastanza diffusa, trova una puntuale conferma in un brano del vangelo sul quale non si è sempre sufficientemente riflettuto.

Sono le parole con le quali Gesù introduce la consegna della sua preghiera: “Pregando, non sprecare le parole come i pagani, che credono di venire accettati a forza di parole” (Mt 6,7). Cristo sa che non sta dando semplicemente un buon consiglio. Egli si aggancia senza dubbio alla tradizione sapienziale israelita (che invece amava dare consigli) espressa, p.e., in Qo 5,1-2: “Non essere precipitoso con la bocca e il tuo cuore non si affretti a proferir parola davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sei sulla terra; perciò le tue parole siano poche, perché dalle molte preoccupazioni vengono si sogni, e dalle molte chiacchiere il discorso dello stolto”; oppure e forse più da Sir 7,14: “Non parlare troppo nell’assemblea degli anziani e non ripetere le parole della tua preghiera”.

Ma il significato di quella tradizione deve essere ben esplorato. Da una parte essa tende a sottolineare la trascendenza di Dio (Dio è in cielo e tu sei sulla terra), da cui il rispetto dell’uomo verso Dio. Da un’altra parte questa tradizione giudaica è consapevole che gli uomini molto spesso cominciano a sognare, ad estraniarsi dalla realtà, a fuggirla, e perciò a moltiplicare le parole di una preghiera che sa troppo di “umano” e poco di divino. Infine la tradizione ebraica cerca sempre di attribuire un valore primario a tutto ciò che salvaguarda il perpetuarsi della tradizione stessa: chi parla troppo nell’assemblea degli anziani potrebbe intralciare il passo della tradizione.

Eppure Cristo non sembra dare semplicemente un buon consiglio, recepibile da qualsiasi pio ebreo. Nella sua espressione risultano tre elementi che sono di certo portatori di novità.

I elemento: non sprecate come i pagani

Nelle comunità cristiane non attente al valore trascendente dei propri legami interni, vi è una tendenza a “sprecare”, in un senso o nell’altro: o perché sia ha troppo e non si sa come impegnarlo, o perché quello che viene impegnato viene utilizzato male – dunque si prega. La consapevolezza che i legami di solidarietà all’interno di una comunità sono legami di tipo trascendente porta i cristiani, chiunque, pastori e laici, a metterne in risalto il valore, la straordinarietà, l’importanza: essi non sono frutto di “funzioni” ben assolte, ma vengono da Dio, da Dio personalmente. Perciò non si può sprecare, all’interno di una comunità cristiana, nulla: sarebbe un atteggiamento da pagani.

II elemento: i pagani credono di venire accettati

L’accettazione che Dio riserva ai credenti in Cristo costituisce quei legami di solidarietà come legami che rimangono indipendentemente, se potessimo dire così, indipendentemente dalle persone. Tu sei accettato da Dio perché sei suo. reciprocamente nelle nostre comunità l’accettazione dell’altro, così come egli è, parte dal presupposto che l’altro – in qualche maniera – è tuo, è parte di te e dunque ti appartiene. Il legame di solidarietà così costituito non solo ci impegna a non respingere nessuno di quelli che il Signore ha accolto, anche se non in linea con la nostra sensibilità e le nostre scelte, ma addirittura esige che io mi faccia accogliente nei suoi confronti lamento quanto Dio lo è nei miei. La comunità cristiana si rivela capace, così, di superare tutte le barriere dell’esteriorità e dell’apparenza, andando al fondo dell’essere umano e riconoscendosi accolti reciprocamente per la comune appartenenza al Padre.

III elemento: a forza di parole

Le parole hanno senza dubbio una loro forza naturale. La parola ha una sua (onni-) potenza. Ma i legami che esistono all’interno della comunità cristiana sono legami che non conoscono “forzature” di nessun genere. Anzi i cristiani si distinguono perché nella fede superano persino realtà che hanno forza in ragione del fatto che ci sono: pensate per un momento a come la fede tenda ad annullare distanze incolmabili di ceto, di censo, di età, di sesso, di cultura. Se noi apparteniamo ad una comunità non è a forza di qualcosa, come se noi siamo accettati dal Padre non è a forza di parole. Dunque il tipo di solidarietà che si sviluppa all’interno della chiesa ci obbliga a rivedere i nostri rapporto, se questi sono improntati ad accezioni di persona, a scelte, preferenziali o esclusive, a discriminazioni – di qualsiasi genere verso chiunque, pastori e laici – e a riordinarli assumendo lo schema del “donare”, al di là di ogni visione efficientista a cui si appella chi forza gli altri a qualcosa.

Ma il fatto che i legami siano di origine trascendente, e non quindi di tipo funzionale, esteriore, efficiente, implica che tale comunità sia impegnata a costruire legami solidamente ancorati alla trascendenza. Non è un caso che l’apostolo Giacomo, come del resto anche Giovanni, trovi nella preghiera il modo più corretto per superare ostacoli e difficoltà e ricostruire il tessuto cristiano di una comunità. “pregate gli uni per gli altri (per essere guariti)” (Gc 5,16). “Se uno vede il proprio fratello commettere un peccato… preghi e Dio gli darà la vita” (1Gv 5,16).

L’azione principale della comunità cristiana, allora, come azione di un popolo verso Dio e l’azione di un Dio verso il popolo, non si può esaurire all’interno di un cerchio ristretto di elementi prefissati. I rapporti esistenti tra cristiani vanno effettivamente nella direzione di rapporti troppo anonimi nel momento in cui essi subiscono un continuo filtro da parte di azioni collettive fortemente standardizzate. Pensiamo per un attimo alla liturgia, nella quale la chiesa celebra la sua fede, ma che rischia di rimanere essa stessa morta se pretende di esaurire l’azione della chiesa e la vita dello Spirito. Bene osserva il CVII: La sacra Liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa (SC, 9)… Nondimeno essa è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e insieme la fonte da cui promana tutta la sua virtù (SC, 10)… La vita spirituale tuttavia non si esaurisce nella partecipazione alla sola Liturgia… Il cristiano è tenuto a pregare incessantemente… Nel sacrificio della Messa preghiamo il Signore che “accettando l’offerta del sacrificio spirituale” faccia “di noi stessi un’offerta eterna” (SC, 12).

In una comunità che prega, e i cui membri pregano gli uni per gli altri, occorre rivalutare due elementi decisivi, per evitare che le nostre parole vadano sprecate come fossimo pagani.

  1. recuperare la dimensione sociale dell’azione della chiesa, per cui non è mai il singolo, con le sue bravure e le sue capacità, a muoversi e ad agire, ma è il corpo mistico di Cristo nel suo complesso, in virtù di quei legami trascendenti di cui parlavamo. Sei catechista? Non lo sei per te, non lo sei da solo, non lo sei perché più formato o meglio formato di altri. Semplicemente tu rifletti una comunità, che per te prega, che con te catechizza. Per questa ragione, se vogliamo recuperare il senso sociale dell’azione ecclesiale, non possiamo servire una comunità se non nella più completa disponibilità a rappresentarla completamente, con le sue luci e le sue ombre, facendoci carico persino dei suoi sbagli: “Se qualcuno vede il suo fratello commettere un peccato… preghi”.
  2. recuperare il senso della vita dello spirito come vita ecclesiale. L’esortazione alla preghiera incessante raccomandata da Paolo (1Ts 5,17) è inserita in un contesto da cui, troppo spesso svincolata, perde ogni incisività. Il contesto offre senza ombra di dubbio lo spunto per chiarire il modo in cui la mia vita spirituale, diventando in Cristo offerto sull’altare essa stessa offerta (“Cristo faccia di noi un sacrificio perenne a te, Padre, gradito”, III preghiera eucaristica), viene impegnata nella sua dimensione di vita ecclesiale. Per essere realmente uomini nuovi nella chiesa, e compiere un corretto itinerario spirituale credo dovremo seguire con fedeltà le indicazioni di questa parola di Dio, anzi farne per il nostro futuro pastorale un vero testo guida di riferimento, con il quale confrontarci al termine, o all’inizio di ogni settimana di lavoro.

Vi preghiamo fratelli di aver riguardo per quelli che faticano tra voi, che vi sono preposti nel Signore e vi ammoniscono; trattateli con molto rispetto e carità, a motivo del loro lavoro. Vivete in pace tra voi. Vi esortiamo, fratelli: correggete gli indisciplinati, confortate i pusillanimi, sostenete i deboli, siate pazienti con tutti. Guardate dal rendere male per male ad alcuno; ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti. State sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie; questa infatti è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi. Non spegnete lo Spirito, non disprezzare le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male (1Ts 5,12-22).

Un impegno che richiede un grande coraggio

Essere uomini nuovi è un impegno che richiede un grande coraggio. Ma parlare di coraggio potrebbe, in un certo senso, indurre in confusione. “Il coraggio – dice il povero don Abbondio nei Promessi Sposi del Manzoni – se uno non ce l’ha non se lo può dare”. E lui sapeva bene quale coraggio occorresse per opporsi a viso aperto a d. Rodrigo, rischiando di finire tra le mani dei “Bravi”.

Il coraggio cristiano, però, non è un atto temerario, con il quale noi ci poniamo in una situazione difficile fidando che ce la faremo a cavarcela. A nessun cristiano viene chiesto di porsi in pericolo, mettendo alla prova Dio – in sostanza. Né il coraggio cristiano può chiamarsi il tentativo di contestare o contrastare l’azione dei più, anche se erronea, o le disposizioni dei superiori, anche se ingiuste.
Se cercassimo nel NT uno spunto per parlare di coraggio difficilmente troveremmo che questo concetto corrisponde ad un certo significato corrente, di valore, di sfida, di intraprendenza. Il termine con il quale il NT introduce il concetto che intendiamo come “coraggio” è parresia e in questo senso possiamo anche rileggere il titolo di questo capitolo: la parresia di essere uomini nuovi.
Si tratta di un termine ricco di sfumature, che incontriamo di rado nei vangeli (1 Mc, 9 Gv), e decisamente più spesso nelle lettere del corpus paolino (8) e del restante corpus (8). Anche gli Atti ci mostrano con una certa frequenza questo termine (5). Da qui ricaviamo una prima indicazione: la parresia è una qualità tipica della chiesa. Cristo non sembra, almeno da questi dati numerici, interessato ad un discorso di parresia.

La parresia nel Nuovo Testamento

Nel vangelo, di fatto, parresia ha un senso di pubblicità più che di coraggio come lo intendiamo noi: Gesù fa o dice le cose apertamente (cfr Gv 7,4.13.26) e si fa vedere in pubblico (cfr Gv 11,54) ed infine dichiara a Pilato: “Io ho parlato al mondo apertamente” (Gv 18,20) cioè con parresia. Per Cristo la parresia è non nascondersi.

Ma già a partire dagli atti si coglie una sfumatura differente: la parresia diventa franchezza nel kerygma apostolico (“Mi sia lecito dirvi francamente riguardo al patriarca Davide che egli morì e fu sepolto e la sua tomba è ancora oggi fra noi”, 2,29); o davanti al sinedrio (“Vedendo la franchezza di Pietro e Giovanni e considerando che erano senza istruzione e popolani, rimanevano stupefatti riconoscendoli per coloro che erano stati con Gesù”, 4,13); o nella preghiera (“Signore, concedi ai tuoi servi di annunziare con tutta franchezza la tua parola… E tutti furono pieni di Spirito Santo e annunziarono la Parola di Dio con franchezza”, 4,29.31). Infine è proprio con un riferimento alla parresia che si chiudono gli atti su Paolo a Roma in prigione, dove trascorre due anni “annunziando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo con tutta franchezza e senza impedimenti” (28,30-31).

Di fatto è proprio nelle lettere di Paolo che la parresia viene collegata all’annuncio evangelico in modo univoco, come “coraggio” dell’apostolo, del predicatore nel presentare la parola del Signore.
“Forti [della speranza del ministero apostolico] ci comportiamo con molta franchezza” (2Cor 3,12).

“Sono molto franco con voi e ho molto da vantarmi con voi. Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione” (2Cor 7,4)
“[Cristo] ci dà il coraggio di avvicinarci in piena fiducia a Dio per la fede in lui” (Ef 3,12).

“Pregate… per me, perché quando apro la bocca mi sia data una parola franca per far conoscere il mistero del Vangelo” (Ef 6,19.20).
“]Purché Cristo venga annunziato sopporto le tribolazioni] nella piena fiducia che, come sempre, anche Cristo sarà glorificato nel mio corpo” (Fil 1,20).

“Coloro che avranno ben servito si acquisteranno un grado onorifico e una grande sicurezza nella fede in Cristo Gesù” (1Tm 3,13).

La parresia, allora, con Paolo diventa una qualità dell’agire dell’evangelizzatore cristiano. Nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle contrarietà, nella speranza di venire creduti è la parresia a spingere il predicatore verso l’annuncio integrale del vangelo. Il “nuovo fervore” dei nuovi evangelizzatori prende inizio dunque da un fervore antico che porta a non vergognarsi del vangelo, ma con tutta franchezza a predicarlo a viso aperto, con coraggio.

In effetti il problema fondamentale di ogni predicatore è che “il coraggio, se uno non ce l’ha, non se lo può dare”. Per questo dobbiamo riconoscere nella parresia una particolare, specifica azione dello Spirito Santo. Un’azione che parte da lontano, dal momento in cui Cristo, ad ogni apostolo che egli invia ad evangelizzare, annuncia ciò che lo attende: “Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi… non preoccupatevi di come o di cosa dovrete dire…: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi” (Mt 10,16-20). L’apostolo sa che è destinatario e latore di un messaggio coraggioso, del quale egli a peno titolo partecipa, ma che non è suo.
Non avrebbe senso, per un apostolo ricercare nelle sue sole forze umane il supporto per un annuncio che è tipicamente trascendente, divino. Sono certo che di questo si è avveduto anche Cristo, che infatti prega così:

Come tu, Padre, mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo (Gv 17,18).

Per aprirsi ad un mondo che attende

In queste parole di Cristo ritroviamo alcune preziose indicazioni circa le qualità della missione del Figlio di Dio, di un apostolo nuovo (eppure sempre antico), della ratio dell’invio.

  1. la missione del figlio di Dio

    Fin troppo spesso abbiamo sentito ripetere, anche dai preti, l’ipotesi di una presunta incompatibilità tra Dio e mondo. Se la cultura moderna, per certi aspetti, ha reagito affermando la legittimità dell’autonomia del mondo rispetto a Dio, non deve sorprendere. Questo mondo, questa vita sono decisamente belli, troppo belli (perché sono portatori di forti indizi della presenza di Dio che è il “BELLO”) al punto tale che lasciano abbagliato chi li osserva. A ragione, quindi, molti si sono chiesti come fosse possibile che Dio disprezzasse questo mondo, questa vita. Sì, va bene, il peccato, la deturpazione della bellezza originaria, tutto quello che vogliamo… Ma il mondo, questo mondo Dio lo ama: “Dio infatti, ha tanto amato il mondo”, la vita, l’esistenza che ha donato al mondo; e come l’ha dimostrato? “Ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16-17). “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui”.
    Ma se questo amore, che si spinge fino al punto del “dono” è vero, allora è pure vero che Dio e mondo non sono incompatibili. Anzi, se vogliamo, Dio e mondo sono da considerarsi l’uno in funzione dell’altro. Non si tratta di una bestemmia. Che il mondo dia in funzione di Dio è pacifico; un po’’ meno che Dio sia in funzione del mondo. Eppure dall’eternità Dio ha deciso che il mondo rappresentasse il suo modo di relazionarsi con la vita, con gli esseri che egli desidera creare. La missione del Figlio – nell’incarnazione – trova qui il suo più alto significato: Dio dimostra nel suo Verbo che la materialità del mondo, la “profanità” del mondo, la “laicità” del mondo non gli sono estranee. La carne, la terra, l’esilio gli sono congeniali.
    Ed è lo stesso Giovanni Paolo II a dare grande rilievo a questo concetto nell’enciclica sullo Spirito Santo: “L’incarnazione di Dio-Figlio significa l’assunzione all’unità con Dio non solo della natura umana, ma in essa, in un certo senso, tutto ciò che è carne: di tutta l’umanità, di tutto il mondo visibile e materiale. L’incarnazione dunque ha anche un suo significato cosmico, una sua cosmica dimensione” (DoVi, 50).
    La missione del Figlio diventa allora più chiara: prendere posto tra ciò che è suo e che andava alla deriva, riscattarlo, ricuperarlo, compiacersene. Si tratta di un enorme valore che siamo chiamati a ricuperare anche noi cristiani: il mondo- in tutta la sua complessità creaturale -è suo, di Dio; le persone, le situazioni sociali ed economiche, questa Italia, la città, tutto di Dio, che in Cristo ci ha dimostrato di amarle e volerle per sempre con sé.

  2. un apostolo nuovo

    Cristo, nei confronti dei suoi discepoli, di noi, si comporta come con lui si è comportato il Padre. Egli fu inviato, ora egli invia. Veramente debbo confessare che di fronte a questo immenso atto di fiducia che il Signore ripone in ciascuno di noi provo un senso di disagio, ma ancora di più di commozione. E’ come se per un attimo tutto passi in secondo piano, compreso il mio peccato, e io mi senta immensamente incredulo: in me? – domando – davvero ha riposto la sua fiducia in me? Tu poni le sorti di questo mondo che hai amato nelle mie mani? E chi sono io “disutile vermine” – diceva S. Francesco in una preghiera captata dal curioso fra’ Leone -?
    Il nuovo apostolato della nuova evangelizzazione richiede questa presa di coscienza dei cristiani: a me il Signore consegna le sorti di questo mondo, di questa generazione. Tutto passa in secondo piano, perché all’improvviso ti rendi conto che l’immenso, reale atto i fiducia del Signore nei tuoi confronti coincide anche con l’immenso atto di fiducia del mondo nei tuoi confronti. E’ accaduto così anche per Cristo, e ne siamo testimoni contemporanei noi. Il mondo che egli ha amato teme che Cristo sia una semplice storiellina, buona per i bambini e per gli anziani e qualche prete o suora un po’ più illusi degli altri. Teme questo, e mentre teme, segretamente spera che non sia vero. Sarebbe troppo bello, pensa il mondo, se fosse vero, e quante volte abbiamo sentito dagli scettici ripetere queste parole. Il messaggio di Cristo, la persona di Cristo rappresenta per il mondo un punto di riferimento, un punto di speranza, troppo bello per essere vero.
    Ma è vero! E di questo noi siamo testimoni. E Cristo ha pregato perché proprio noi fossimo consacrati in questa verità che è lui (cfr Gv 17,17. Il mondo verso Cristo ha avuto fiducia allora, e per secoli è stato così; oggi il mondo dice: sarebbe troppo bello se fosse vero. E chiede a no, ai cristiani, a me e a te, confidando nelle nostre risposte, nelle nostre forze, nelle nostre testimonianze: “Ma è vero?”. La segreta e intima aspirazione del cuore dell’uomo è quella indicibile nostalgia di Dio che tutti si portano dentro e che spinge a rivolgere ai cristiani questo interrogativo: “Ma allora è vero?”.
    La Chiesa sa perfettamente che il suo messaggio è in armonia con le aspirazioni più segrete del cuore umano, quando difende la causa della dignità della vocazione umana, e così ridona la speranza a quanti disperano ormai di un destino più alto. Il suo messaggio non toglie alcunché all’uomo, infonde invece luce, vita, e libertà per il suo progresso e all’infuori di esso niente può soddisfare il cuore dell’uomo: “Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è senza pace finché non riposa in te” (GS, 21).
    Un apostolato nuovo è un apostolato che deve essere capace di “ridare speranza”, di generare speranza, cioè di dire all’uomo di oggi che Dio esiste, ti ama e non disprezza nulla di ciò che ha creato. Se vogliamo compiere un itinerario di crescita nello spirito, non dobbiamo far altro che infondere speranza e in ogni azione e parola essere testimoni di speranza.

  3. la ratio dell’invio

    In quella sera in cui Gesù prega a mensa con i suoi (dell’importanza della preghiera per i fratelli abbiamo già accennato) egli è consapevole più di don Abbondio che se uno il coraggio non ce l’ha non se lo può dare. Lo è al punto da anticipare il comportamento degli apostoli: “Ecco verrà l’ora, anzi è già venuta in cui vi disperderete per conto proprio e mi lascerete solo” (Gv 16,32). Ne è talmente consapevole che tutto il cap. 17 che segue di un soffio quella dichiarazione, è una preghiera di intercessione perché il Padre doni a quegli uomini, e a quanti avrebbero creduto sulla loro parola, il coraggio, la parresia per mezzo dello Spirito. Si tratta di un gesto di enorme tenerezza del Cristo, come se dicesse: io non posso darvelo questo coraggio, vi do una missione che richiede coraggio, ma è solo il Padre che può donarvi la forza, per questo la chiedo a lui per voi. Ho amato il mondo nel quale il Padre mi ha mandato, amate il mondo nel quale ora io vi mando; e non abbiate timore, perché nella nostra unità avrete il mio coraggio da parte del Padre.
    La ratio ultima dell’invio è duplice: da una parte, per nostro mezzo, il Signore continua la sua unione e inabitazione nel creato; dall’altra il creato conosce, “tocca” Dio nel punto di contatto che rappresentiamo noi.
    Prolungare così il nostro itinerario dello spirito vuol dire non deludere quella fiducia che il mondo ha riposto nella nostra capacità di aprire gli uomini alla speranza alla fede e all’amore di Dio, di aprire un mondo che attende alla certezza dell’Atteso. In altre parole se per il Signore Gesù l’apostolato nel mondo ha rappresentato l’elevazione spirituale, la crescita, la glorificazione sua e del Padre, allo stesso modo per i cristiani: essi debbono andare per il mondo, percorrere le strade del mondo, inventare nuove forme di presenza tra gli uomini, soprattutto i disperati, le nuove forme di disperazione e di povertà (come le chiama anche il SR), perché i poveri sono i primi destinatari della buona novella: le vite attentate e stroncate (tossicodipendenze, aborti, omicidi…), le famiglie divise i figli dei separati, gli anziani, i soli, i malati… Aprire gli occhi sulle necessità reali, reali dei fratelli, prima ancora di essere un impegno pastorale è un impegno spirituale. Il mondo ci attende, il mondo attende la speranza del paradiso.

Il giorno che non finisce

E di fatto è così che giungiamo praticamente alla conclusione del nostro itinerario, della nostra proposta di itinerario spirituale. Riprendiamo le tre tappe percorse: la carità come via maestra per l’esercizio di ogni ministero e carisma; la preghiera come primo servizio alla comunità e ai fratelli; l’apertura al mondo che attende la rivelazione della speranza di Dio.

Siamo ora all’ultima tappa di questo piccolo progetto annuale: il coraggio di amare, il coraggio di affidare alla preghiera (considerata sempre troppo dimessa, sottovalutata a favore di lavori più gratificanti) le enormi esigenze della Chiesa a preferenza di attivismi ed efficientismi, il coraggio di aprirsi ad un mondo in attesa, devono essere completati dal coraggio di preparare il futuro dell’avvento definitivo del regno di Dio.

Sapete che da molto tempo il Papa sta parlando del Giubileo del 2000 e che per questo scopo ha pubblicato l’enciclica TMA. E’ lì che troviamo le seguenti parole: “I cristiani sono chiamati a prepararsi al grande Giubileo dell’inizio del terzo millennio rinnovando la loro speranza nell’avvento definitivo del Regno di Dio, preparandolo giorno dopo giorno nel loro intimo, nella comunità cristiana a cui appartengono, nel contesto sociale in cui sono inseriti e così anche nella storia del mondo” (n. 46).

La speranza dell’avvento del Regno, dunque, lungi dall’essere un disimpegno nei confronti del secolo presente, diventa addirittura l’occasione per prepararlo a livello personale, ecclesiale e sociale. Per qusto motivo il papa invita i credenti a valorizzare ed approfondire i segni di speranza che ritroviamo ai nostri giorni e che in campo ecclesiale sono soprattutto tre:

  1. l’accoglienza dei carismi e la promozione del laicato”
  2. “l’intensa dedizione alla causa dell’unità di tutti i cristiani”
  3. “lo spazio dato al dialogo con le religioni e la cultura contemporanea”

Il misurarci con l’impegno di preparare l’avvento del Regno ci obbliga a sollevare lo sguardo dalle nostre miserie e dalle nostre piccole condizioni del vivere comune. Come un contadino che si trova in un campo da mietere, è importante che davanti ai nostri occhi si schiuda la vastità dei compiti che ci attendono. Ma sappiamo anche che se non ci rimettiamo subito al lavoro in quel piccolo pezzo di campo che ci è stato affidato , il lavoro sarà incompleto e ritardato.

L’aver citato il Giubileo del 2000 nella TMA fa tornare alla mente il momento in cui affiorò dal magistero pontificio per la prima volta solennemente questo pensiero. Giovanni Paolo II ne parlò a lungo nella terza parte dell’enciclica DoVi, intitolata “Lo Spirito che dà la vita”. Il papa, nel parlare dello Spirito come realizzatore dell’unione e della comunione tra Dio e uomo, affronta e inserisce doverosamente il discorso sulla chiesa.

La chiesa – dice – a buon diritto intende se stessa come “sacramento dell’unità di tutto il genere umano”. Essa sa di esserlo per la potenza dello Spirito Santo, della quale è segno e strumento dell’attuazione del piano salvifico di Dio. In questo modo si realizza la “condiscendenza” dell’infinito amore trinitario: l’avvicinarsi di Dio, Spirito invisibile, al mondo visibile. Dio uno e trino si comunica all’uomo nello Spirito Santo sin dall’inizio mediante la sua “immagine e somiglianza”. Sotto l’azione dello stesso Spirito l’uomo, e per suo mezzo, il mondo creato, redento da Cristo, si avvicinano ai loro definitivi destini in Dio. Di questo avvicinamento dei due poli della creazione e della redenzione, Dio e l’uomo, la chiesa è “sacramento, cioè segno e strumento”. Essa opera per ristabilire e rafforzare l’unità alle radici stesse del genere umano: nel rapporto di comunione che l’uomo ha con Dio come suo creatore, Signore e Redentore. E’ una verità che, n base all’insegnamento del Concilio, possiamo meditare, spiegare e applicare in tutta l’ampiezza del suo significato in questa fase di passaggio dal secondo al terzo millennio cristiano. E ci è caro prendere una coscienza sempre più viva del fatto che dentro l’azione svolta dalla a chiesa nella storia della salvezza, inscritta nella storia dell’umanità, è presente e operante lo Spirito Santo, colui che con soffio della vita divina, pervade il pellegrinaggio terreno dell’uomo e fa confluire tutta la creazione – tutta la storia – al suo termine ultimo, all’incontro definitivo con Dio” (n. 64).

Il coraggio di essere uomini nuovi ci impone di rappresentare fin ‘ora, e di preparare questo incontro degli uomini con Dio. Prepararlo negli appuntamenti del tempo, ivi compreso il giubileo del 2000; prepararlo nel nostro spirito, col nostro spirito, sapendo che l’uomo, ogni uomo, anche io, anche tu, incontrerà il Signore e vedrà Dio faccia a faccia; prepararlo nella consapevolezza che la nostra azione rimane sempre limitata nel tempo, e perciò se vogliamo che la chiesa proceda, guardi avanti, guardi al futuro, preparare il dopo-di-noi, incoraggiare, educare, coinvolgere cristiani che possano continuare anche senza di noi il cammino che abbiamo iniziato.

E’ questo un vero e proprio esercizio spirituale, che c’insegna a distaccarci da tutto, compresa la chiesa, che non ci appartiene, non è nostra, per tenere lo sguardo fisso solo su Gesù, autore e perfezionatore della fede (cfr Eb 12,2).

E per ultimo il coraggio di guardare in faccia, e di saper dare un senso anche alla fine, anche ala morte fisica che attende ogni creatura, anche me, anche voi. Proprio davanti alla morte molti uomini, troppi, disperatamente, si fermano, indietreggiano inorriditi e spaventati, perdendo la fede nel Dio buono. Riprendiamo a parlare della morte con quel tipico animo cristiano che vede nel momento del trapasso il raggiungimento della vita vera, e perciò lungi dal considerarlo un evento luttuoso, testimoniamo al mondo la nostra fede in una vita che non finisce.

Il coraggio di essere uomini nuovi che ascoltano le parole dello Spirito e della Sposa: “Lo Spirito e la Sposa dicono: Vieni, Signore Gesù!”. Maranà tha. E chi ascolta ripeta: Vieni! (cfr Ap 22,17).
Sì, o Signore Gesù, vieni, ti attendiamo, ti attendo. Vieni Signore Gesù a liberarmi da tutte le mie incompletezze; vieni Signore Gesù a donarmi l’oceano del tuo amore; vieni Signore Gesù a me che sono povero di cieli, vieni ad abbracciare la mia stanca vita che per te, solo per te ha valore. Vieni Signore Gesù a sposare la tua chiesa, l’amata, la vergine, la prediletta tra tutte; vieni Signore Gesù.
Vieni mio fine e compimento; vieni Signore Gesù: io sono il tuo ieri e tu sei il mio domani, io sono la tua radice in terra e tu sei il mio fiore in cielo (Khalil Gibran). Vieni Signore Gesù.
“Sì, verrò presto!” Amen. Vieni Signore Gesù. La grazia del Signore Gesù sia con tutti voi. Amen (Ap 22,21-22).