Il cammino di conversione secondo Ignazio: verso la comunione

[ testo: scarica pdf ] [ spunti di riflessione: scarica pdf ]

1. Il cammino di conversione secondo Ignazio: verso la comunione

Anima di Cristo, santificami. Corpo di Cristo, salvami. Sangue di Cristo, inebriami. Acqua del costato di Cristo, lavami. Passione di Cristo, confortami. O buon Gesù, esaudiscimi. Nelle tue piaghe, nascondimi.
Non permettere che io mi separi da te. Dal nemico maligno difendimi. Nell’ora della mia morte chiamami e comandami di venire a te a lodarti con i tuoi santi nei secoli dei secoli.
S. Ignazio

1.1 La vita di Ignazio

Come d’uso approfitto della prima meditazione per ricordare che gli Esercizi Spirituali sono una “invenzione” di Sant’Ignazio di Loyola. O se preferiamo Ignazio di Loyola è stato scelto dallo Spirito Santo come veicolo per introdurre il dono degli ES nella Chiesa.

Ignazio nasce nel 1491; la sua conversione si colloca nel 1521. Nel 1537 viene ordinato sacerdote a Venezia e tre anni dopo fonda la Compagnia di Gesù (Gesuiti). Muore nel 1556 e viene proclamato santo nel 1622. Dalla conversione alla morte trascorrono 35 anni straordinariamente ricchi di frutti pastorali e spirituali sia per lui sia per i suoi compagni. E di conseguenza per la chiesa intera.

L’esperienza di vita di Ignazio è contrassegnata da episodi che assumono un valore simbolico: la ferita del soldato, la vocazione improntata ad uno spirito francescano, la visita in Terra Santa. Quel che si può leggere dietro tale esperienza è un cammino di conversione; non un momento isolato, ma un processo grazie al quale Ignazio prende sempre più consapevolezza di come la grazia di Dio opera in lui. Questa grazia di Dio consente a Ignazio di “mettere ordine” nella propria vita.

Come Ignazio scrive fin dal principio dei suoi ES, il loro fine è quello di liberare l’anima dagli “affetti disordinati” per giungere a conoscere la volontà divina nell’”organizzare la propria vita per la salvezza dell’anima”.

Il significato dell’espressione “affetti disordinati” è un po’ differente da quello che ordinariamente viene in mente pensando ai sentimenti. “Affetto” può essere interpretato come “attrazione”, “desiderio”, “inclinazione”. In questo senso ciascuno di noi può scoprire di subire l’attrazione e il desiderio verso qualcosa o verso qualcuno che non è Dio: tale è per Ignazio un “affetto disordinato”.

Ecco dunque che “organizzare la propria vita per la salvezza dell’anima” significa “mettere ordine” negli affetti. Restituire alle proprie priorità quell’ordine giusto che apre all’anima il respiro della salvezza. Quasi a dire: l’anima non si salva nel disordine, ma nell’organizzazione delle priorità.

Ignazio intuisce il valore spirituale della sua esperienza; seguendo l’esortazione di S. Paolo in 2Cor 12,5: “esaminate voi stessi, fate la prova su voi stessi” arriva a produrre il capolavoro che consegnerà alla storia della spiritualità, grazie al quale anche noi oggi possiamo ripetere l’esperienza del mettere ordine nella nostra vita.

1.2 Dall’esperienza alla pedagogia

L’esperienza riveste per Ignazio un ruolo davvero straordinario. Ignazio non è un teorico. È un contemplativo e allo stesso tempo un attivo. Non deduce i suoi insegnamenti da principi astratti, ma impara dall’esperienza dello spirito la pedagogia di Dio.

Penso che il primo importante valore di Ignazio si trovi qui: aver imparato a leggere tra le righe della propria storia l’azione amorevole di Dio. Esattamente questo è ciò che lui insegnerà ai suoi figli e trasmetterà alla Chiesa intera. Il passaggio importante è avvenuto quando Ignazio ha realizzato il trasferimento dalla sua esperienza alla sua pedagogia. Ignazio è stato attento a non prendere come modello la sua esperienza ma a riconoscere al suo interno i moduli che potevano diventare patrimonio comune perché strutture dello spirito.

Esiste infatti nell’esperienza un valore universale che va riconosciuto e coltivato. Così è accaduto per il popolo di Israele, così è accaduto per i patriarchi, come Abramo, così è accaduto per i primi testimoni della chiesa, come gli apostoli. Le strutture teoriche non si adattano bene a spiegare i movimenti dello spirito. Mentre invece pare proprio che lo Spirito di Dio si trovi a suo agio nelle strutture esistenziali dell’uomo.

Si spiega così anche la convinzione della chiesa e del suo magistero, che cioè l’uomo contemporaneo è più propenso ad ascoltare i testimoni che i maestri e se ascolta i maestri è perché prima di tutto sono stati testimoni.
Nel percorso degli ES spirituali noi ci mettiamo alla scuola dei testimoni della fede, di coloro che possono trasmetterci un’esperienza qualificata dello spirito, grazie alla quale impariamo a riconoscere le operazioni benevole di Dio. Gli ES sono una pedagogia dell’esperienza di Dio.
Memore della sua esperienza, Ignazio segue una traccia ben precisa nel dare gli ES, traccia contraddistinta da tre momenti che sono strutture dello spirito:

  1. il bisogno: la radicale insoddisfazione provata da Ignazio nella sua esperienza precedente alla conversione manifestava il bisogno estremo che la creatura avverte in relazione al Dio trascendente. Parlare di bisogno impone di ripensare alla nostra condizione come ad una condizione di povertà. Senza l’amicizia di Dio l’uomo è strutturalmente povero, mentre l’alleanza con Dio dona completezza e respiro all’uomo. Gli ES fanno leva su questo bisogno di completezza per condurre al desiderio.
  2. il desiderio: non si tratta di desiderio di qualcosa di più né di qualcosa di meglio. Il desiderio che nasce dall’esperienza consolante dell’anima che sente di essere amata e sostenuta da Dio è un’esplosione di creatività. Il desiderio a cui gli ES vogliono condurre si caratterizza come risposta all’incontro del bisogno umano con l’atto divino di benevolenza. All’uomo povero che incontra il Dio misericordioso sorge il desiderio di essere per lui e con lui sempre, nel superamento delle proprie incapacità.
  3. la capacità: la capacità di essere riflesso dell’amore di Dio è l’ultimo dei momenti degli ES, secondo Ignazio. Nella sua visione la vocazione dell’uomo è data dall’incontro tra la condizione della creatura e l’attività del Creatore, dall’incontro di due volontà che convergono. Grazie a questo incontro la creatura diventa capace di un nuovo sguardo su se stessa e sulla storia, prendendolo a prestito da Dio medesimo. Tale sguardo non supera le capacità della creatura, ma le completa e le realizza: l’uomo realizzato, il santo, è colui che attraverso la fede in Dio giunge a costruire una relazione positiva con sé e la storia, è colui che attraverso l’amore si scopre salvato e voluto da Dio come suo partner, è colui che attraverso la speranza ri-costruisce identità, relazioni, comunione orientate alla vita eterna.

Negli ES ci mettiamo nel solco tracciato da Ignazio attraverso il riconoscimento della nostra povertà e del bisogno che abbiamo dell’amicizia con Dio (“Signore, le cose e le persone che mi circondano non hanno soddisfatto la mia sete di pienezza e di realizzazione, come avrei voluto: <Se tu non ci sei, anche le mucche dichiarano di essere Dio>”, Viaggio in India, 2007) per imparare a gestire il nostro desiderio (“Signore, cosa devo fare, ora che ti ho incontrato? Cosa può sostenermi in questa nuova condizione? Cosa può evitare che io perda la ricchezza che mi hai dato?”) e giungere così a mettere in atto le nostre capacità (“Signore, io sono la tua radice in terra e tu sei il mio fiore in cielo”, Khalil Gibran).

1.3 Dove si sente Dio?

Se avessimo posto questa domanda ad Ignazio senza scomporsi avrebbe risposto che certamente Dio NON si sente con l’intelligenza, ma con la volontà. All’inizio degli ES lui precisa che “non il molto sapere sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e gustare le cose internamente“ (ES 2). Peraltro, dice Ignazio, il predicatore deve sempre fare un passo indietro; a lui spetta raccontare una storia, senza andare troppo dentro nei particolari. C’è più gusto e frutto spirituale, dice Ignazio, per la persona che contempla se riflette e contempla da sola, perché “o con il proprio ragionamento o perché l’intelligenza è illuminata dalla divina potenza” riceve più “di quanto non ne troverebbe se chi dà gli esercizi avesse molto spiegato e sviluppato il senso della storia” (ES 2).

Nella sua visione antropologica Ignazio segue una tradizione classica, quella della distinzione tra intelligenza e volontà, la prima dedicata al ragionamento la seconda destinata a “muovere gli affetti”. Ma sull’uso di queste due facoltà Ignazio si sente in dovere di dare un’avvertenza.

[3] 1 La terza (annotazione). Siccome in tutti gli esercizi spirituali che seguono ci serviamo degli atti dell’intelligenza per ragionare e di quelli della volontà per muovere gli affetti,

2 avvertiamo che negli atti della volontà, quando parliamo vocalmente o mentalmente con Dio nostro Signore o con i suoi santi,

3 si richiede da parte nostra maggiore riverenza di quando ci serviamo dell’intelligenza per capire.

Abbiamo già detto che “affetti” non sono sentimenti, Ignazio intende per “affetti” desideri, inclinazioni, attrazioni. La volontà, quindi, muove il desiderio, l’attrazione, l’inclinazione. Di sicuro Ignazio non avrebbe avuto molto seguito se fosse vissuto nella nostra epoca, dove spesso il sentimento, l’emozione, la spontaneità vengono considerati valori imprescindibili persino nell’ambito dell’esperienza religiosa. Con queste basi un uomo moderno, alla domanda “Dove si sente Dio?” risponderebbe: nel cuore, utilizzando questo termine come immagine dell’interiorità più intima e ineffabile della persona, fatta di sensazioni sottili e inesplicabili.

Ignazio si troverebbe distante da questo tipo di messaggio. Non tanto per disprezzo di una componente umana importante come quella dell’emotività, ma nella consapevolezza che l’emotività rischia di nascondere Dio piuttosto che manifestarlo. Infatti con l’emotività il centro dell’attenzione ricade sul soggetto che prova l’emozione. Il classico esempio è quello di Pietro che, in preda allo stupore e ammaliato dalla bellezza del Signore trasfigurato, espone la sua richiesta: “Facciamo tre tende” (cfr Mt 17,1-8; Mc 9,1-8; Lc 9,28-36).

Ignazio vuole insegnare a riconoscere e “sentire” Dio a partire da un “decentramento” dell’uomo. Gli ES insegnano a ripristinare l’ordine di priorità, a rimettere ordine nella propria vita, negli “affetti”. Siccome – dice Ignazio – per muovere gli affetti ci serviamo di atti di volontà, negli “atti di volontà” è richiesta una “riverenza” maggiore di quegli atti di intelligenza che servono a muovere la comprensione. Cosa significa “riverenza”? Lo stesso Ignazio spiega che lui, per riverenza, intende “quando, nel nominare il proprio Creatore e Signore, si è attenti a rendergli l’onore e la riverenza dovuti” (ES 38).

Dio si “sente” anzitutto nell’avvertire la propria dimensione creaturale e nel voler rimanere all’interno di questo orizzonte. Si possono rileggere con questa ottica due episodi della scrittura.

Nel primo episodio l’uomo e la madre di tutti i viventi, Adamo ed Eva, cedono alla tentazione di abbandonare la propria condizione occupando il posto di Dio; la conseguenza di questo cedimento non è l’elevazione della creatura, bensì la perdita della condizione paradisiaca, nella quale l’uomo e la donna “sentivano” Dio presente e operante (cfr. Gn 3,1-13).

Nel secondo episodio Abramo riannoda il rapporto con il Signore fin dal momento della sua vocazione (cfr Gn 12,1-9). Ma ciò che fin dal principio colpisce gli autori sacri è l’obbedienza di Abramo, che crede alla parola di Dio, il quale glielo “accredita” come giustizia (Gn 15,6; Rm 4,3-9; Gal 3,6; Gc 2,22-23). Abramo consapevole del suo bisogno presta a Dio “onore e riverenza” e di conseguenza “sente” Dio e ne sperimenta l’amichevole alleanza di comunione.

1.4 Verso una vita di comunione

Ignazio, come è noto, organizza gli ES in quattro settimane dando lui stesso l’avvertenza che non si devono considerare settimane in senso stretto (ES 4); tutto dipende dal progresso che l’esercitante compie, in considerazione del piano generale degli ES: la prima settimana mette a fuoco la condizione di peccato; la seconda settimana contempla la vita di Cristo; la terza settimana si concentra sulla Passione del Signore; la quarta settimana, infine, spinge alla considerazione della Risurrezione e Ascensione del Signore.

Se il percorso viene compiuto rettamente, gli ES portano ad amare Dio e alla sua luce a conoscere se stessi, ad abbandonare il peccato, a desiderare la virtù e a porsi al servizio della vocazione ricevuta. Fondamentale, in proposito, è la visione dell’amore posseduta da Ignazio.

[230] 2 Nota. Anzitutto conviene avvertire due cose. La prima è che l’amore si deve porre più nelle opere che nelle parole.

Anche Dio manifesta il suo amore più nelle opere che nelle parole. L’esercizio suggerito da Ignazio per “sentire e gustare” questa verità è emblematico. Immaginiamo di stare in Paradiso, davanti a Dio, agli angeli e ai santi che intercedono per noi e in questa condizione sprofondiamo in una preghiera chiedendo di poter riconoscere il bene che abbiamo ricevuto, perché riconoscendolo siamo spinti ad amare e servire Dio. Nell’esercizio, dice Ignazio, lasciamoci aiutare dalla memoria: portiamo alla mente i doni ricevuti nella creazione, nella redenzione e i doni particolari. Questo rivela l’instancabile azione amorosa di Dio nei confronti dell’uomo.

Ma non basta. Occorre osservare come Dio abita in tutte le creature: “negli elementi dando essere, nelle piante facendo vegetare, negli animali fornendoli di sensi, negli uomini dando l’intendere; e così in me dandomi essere, vita, sensi e facendomi intendere; così pure col fare di me un tempio, essendo io creato a somiglianza e immagine di sua divina maestà“[235]. Tale inabitazione di Dio, che non si deve confondere con una forma di panteismo, è sostenuta dalla sua azione; perciò Ignazio invita ad osservare come Dio “fatica e opera” per me.

Infine Ignazio suggerisce di ripensare al fatto che tutte le cose belle e buone che possediamo discendono da Dio. Se noi siamo giusti è perché lui è giusto, se noi siamo capaci di amare perché lui ama… e per evitare che qualcuno pensi di potersi sottrarre alla responsabilità fornisce anche un esempio: “così come dal sole discendono i raggi, dalla fonte le acque, ecc” [237].

Lo svolgimento dell’esercizio, secondo Ignazio, dovrebbe aiutare “a giungere ad amare”. E qui entra in gioco una seconda avvertenza:

[231] 1 La seconda è che l’amore consiste nella comunicazione reciproca, cioè nel dare e comunicare l’amante all’amato quello che ha, o di quello che ha o può, e così a sua volta l’amato all’amante;

2 di maniera che se l’uno ha scienza la dia a chi non l’ha, e così se onori, se ricchezze l’uno all’altro.

Non sono un esperto di Ignazio, ma ritengo di poter dire che in questo pensiero ritroviamo il nocciolo dell’intuizione del santo. L’amore è “comunicazione reciproca” tra amato ed amante “di quello che ha o di quello che ha e può”. Una comunione profonda di beni, che non sono semplicemente riconducibili ai beni materiali, che giungono al dono reciproco e irreversibile del proprio stesso essere.

In tal modo gli ES di Ignazio vogliono condurre l’esercitante alla comunione con Dio; quel Dio amante che opera amorevolmente e mette a disposizione dell’uomo i suoi bene e tutto se stesso si sente e si gusta nel gesto di comunicare e dare a lui quello che si ha e quello che si può, fino al totale abbandono di sé.