Eucaristia, amore che diventa missione

Associazione “Figli della Chiesa”
Domus Aurea
Roma – 19 ottobre 2003

Da qualunque parte noi osserviamo l’Eucarestia e riflettiamo sulla missione della chiesa, il punto di partenza non può essere diverso dal seguente: la natura della chiesa è quella di prolungare nel tempo la missione salvifica del Signore Gesù. Con questa semplice espressione in realtà noi esprimiamo 4 concetti legati tra loro:

  1. il Signore Gesù ha realizzato una volta per tutte la salvezza dell’uomo, di ogni uomo di ogni tempo di ogni luogo; ha, cioè, ristabilito l’uomo nel giusto rapporto con Dio, con se stesso e con il mondo, ha abbattuto i disastrosi e disperati effetti del peccato, ha reso possibile l’amore universale;
  2. la chiesa si presenta non come una sorta di “paradiso terrestre” ma come un corpo vitale che si estende nel tempo e nello spazio e che è intimamente legato al Redentore dell’uomo, Gesù di Nazaret, agli obiettivi che egli intendeva perseguire con la sua incarnazione, morte e resurrezione, ai compiti che aveva ricevuti dal Padre; quindi una chiesa non chiusa tra le sue certezze, che pure vi sono, bensì proiettata verso la graduale realizzazione dell’obiettivo finale della missione di Gesù;
  3. l’associazione, da parte del Redentore, di alcuni uomini alla sua missione comporta una condivisione di responsabilità, di successi, di insuccessi, di grazia, di gloria e di onore; il Signore Gesù non può fare a meno di dotare i suoi collaboratori di tutti gli strumenti necessari al conseguimento dell’obiettivo comune, la salvezza dell’uomo; d’altra parte ogni opera degli uomini appartenenti alla chiesa, dei fedeli in Cristo, ha un riflesso sulla missione di Cristo, in qualche modo la realizza, ma in qualche modo la rallenta o può addirittura vanificarla;
  4. la temporalità dell’azione della chiesa insieme con Cristo (= azione immersa nel tempo) presuppone l’attenzione forte, intelligente, partecipata dei fedeli alla storia dell’umanità; la temporaneità dell’azione della chiesa insieme con Cristo (= proiezione verso l’eternità) presuppone la coscienza che ogni opera è effettivamente provvisoria in vista della condizione finale della beatitudine eterna (natura escatologica della chiesa).

Il tema del ritiro

Il tema che mi è stato proposto riunisce insieme tre elementi che entrano di diritto nella riflessione su quel che dobbiamo fare e quel che non dobbiamo fare per riuscire ad essere fedeli al mandato che il Signore Gesù ha lasciato alla sua chiesa: l’eucarestia, l’amore e la missione. Gli autori sacri sono rimasti fortemente impressionati dal tenore delle parole del Signore, al punto di trasmettercele con un vigore inusuale:

  1. Io infatti ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver resto grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: ”Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me” (1Cor 11,23-25)
  2. Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: “Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Cosa vi leggi?”. Costui rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso”. E Gesù: “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai” (Lc 10,25-28). Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri (Gv 13,34). Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici… Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga… Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri (Gv 15,12-17)
  3. Gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. E Gesù, avvicinatosi, disse loro: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,13).

Quattro testi mettono in evidenza i punti cardinali che Gesù indica ai credenti in lui per non vanificare la sua opera, anzi per realizzarla al meglio. Emergono pure concetti come “alleanza” e “memoria”; “eredità” e “vita eterna”; “dono della vita” e “amicizia”; “onnipotenza del Signore” e “ammaestramento”. Tutti elementi di non trascurabile importanza proprio perché la missione di Cristo sia fedelmente adempiuta. Cerchiamo ora di vedere un po’ più da vicino gli argomenti che stiamo esaminando.

Eucarestia tra ringraziamento, memoria e dono da trasmettere

Il citato testo di Paolo ci riporta ad una delle più antiche comunità cristiane, quella di Corinto, che non pochi problemi ha dato all’apostolo. La prima delle tre lettere che Paolo scrive a quei nostri fratelli (ma ce ne sono giunte solo due) resta nella storia come testimonianza che il cammino dei credenti non è mai un cammino lineare, piano, ma è un cammino che a volte si presenta tortuoso, in salita. Pare che i credenti di Corinto non si trovassero esattamente in linea con il pensiero del loro evangelizzatore. Dice Paolo: “Non posso lodarvi per il fatto che le vostre riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio. Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo… Quando vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore” (11,17-20). A questo rimprovero Paolo fa seguire con grande forza il richiamo all’imperativo ricevuto dal Signore di celebrare l’eucarestia come ringraziamento, memoria e dono da trasmettere.

Più o meno è noto a tutti che il termine “eucarestia” proviene dal greco e significa “ringraziamento”. Essendo un termine che potremmo definire “tecnico” i nostri fratelli nella fede dei secoli passati hanno preferito non tradurlo. L’eucarestia è così diventato il modo usuale di indicare il sacramento del sacrificio, della comunione, della lode di Dio. In quanto sacramento l’eucarestia non si differenzia dagli altri sacramenti. Richiede un sistema di simboli, di riti e di azioni per essere compiuto: il pane e il vino, simboli forti di alimentazione del corpo, diventano simboli efficaci di nutrimento dello spirito; l’assemblea convocata, il perdono richiesto, la parola ascoltata e storicizzata, la professione di fede, la preghiera solenne, lo scambio della pace, il pasto comune diventano riti di una vita comunitaria e personale resa possibile dalla presenza dello stesso Spirito di Gesù. Tutto appare proiettato non verso l’intimizzazione dei contenuti della fede, ma verso la pubblicità delle opere di Dio che agisce nell’intimo di ciascun uomo.

Da queste considerazioni sorge in modo quasi spontaneo la necessità di avere un cuore colmo di gratitudine verso Dio. L’eucarestia è sacramento (cioè segno efficace) del dono della salvezza accolto nel cuore dei credenti e reso pubblico. Prima ancora di essere un nutrimento dell’anima è contemplazione del desiderio divino di realizzare la felicità, la realizzazione e la redenzione della creatura. Un desiderio effettivamente diventato storia nella persona di Gesù, nel suo corpo “che è per voi” e nel suo sangue che è “nuova alleanza”. Attorno a questo desiderio diventato storia si radunano gli uomini e le donne che lo Spirito di Gesù raduna come “fratelli e sorelle” per annunziare l’amore del Padre. Perciò il ringraziamento: grazie, o Padre, per averci donato il tuo Figlio come Salvatore; grazie, o Gesù, per averci manifestato l’amore del Padre, grazie, o Spirito Santo, per averci convocati in un solo corpo; grazie a voi, fratelli e sorelle, per aver risposto alla chiamata del Signore che ci fa uscire dalla solitudine per appartenerci gli uni agli altri.

Come è evidente il segno del ringraziamento non può prescindere dalla memoria. Chi ringrazia è una persona che ricorda. Una persona che con attenzione ha osservato gli eventi, non li ha distrattamente relegati nell’oblio, ha interiorizzato nel proprio vissuto tutto ciò che è stato fatto in suo favore. Il segno del ringraziamento poggia le sue basi sulla memoria dei benefici ricevuti. Il Padre è il primo beneficatore dell’umanità. La liturgia eucaristica ci impone di non dimenticare. Ripete nelle sue parole la storia dell’umanità, la creazione, la redenzione. Afferma con suggestiva evocazione che il Padre è colui che per mezzo di Gesù suo Figlio dona al mondo ogni bene. La memoria dei benefici ricevuti, ritualizzata nella preghiera di ringraziamento, è parte integrante del segno del ringraziamento. Non c’è ringraziamento senza memoria, non c’è eucarestia senza ricordare il bene ricevuto da Dio, dai fratelli, dall’umanità. Nella celebrazione dell’eucarestia la chiesa rende pubblica questa memoria che porta racchiusa nelle profondità del suo cuore.

Ringraziamento e memoria sono proiettati verso il futuro. La memoria (passato) rende possibile il ringraziamento (presente) e lo fa diventare dono da trasmettere (futuro). Da un parte potrebbe sembrare strano che un dono ricevuto sia offerto non per essere trattenuto ma per essere negoziato. Dall’altra il segno del ringraziamento porta con sé l’esigenza che il contenuto fondamentale del dono (la salvezza del genere umano) sia gelosamente e integralmente custodito da ciascuno per essere goduto da tutti. In realtà proprio questo pensiero ci consente di accostarci in modo corretto al segno del ringraziamento. L’eucarestia non è una “cosa” di cui siamo possessori, ma una rivelazione di amore di cui siamo fruitori, di cui godiamo i benefici e di cui siamo quasi obbligati a fare una infinita moltiplicazione. Nel segno della frazione del pane (fractio panis è l’antico nome dell’eucarestia) ritroviamo espresso il desiderio di Gesù che il segno del ringraziamento diventi annuncio di condivisione del medesimo amore di cui noi stessi siamo i primi e onorati testimoni.

Comandamento antico e comandamento nuovo

L‘insistenza di Gesù sul tema dell’amore è stata interpretata da sempre come il nodo centrale del suo messaggio di amore universale. Gesù parla poco dell’amore di Dio. Nel suo operato, però, noi leggiamo come in un libro quello che il nostro cuore ci suggerisce con un infallibile intuito: Dio ama sul serio ogni uomo. Nei gesti e nelle parole del Signore Gesù cogliamo questa costante: l’insegnamento, la guarigione, il perdono, l’attenzione ai poveri e ai peccatori, il nutrimento di folle ingenti, la rianimazione dei morti sono tutti segnali inequivocabili di un affetto per l’uomo, di una compassione per le sue debolezze, le sue povertà, le sue difficoltà. E al tempo stesso rappresentano la rivelazione di un amore che supera il momento contingente e giunge ad aprire all’uomo uno spiraglio di vita eterna, l’affermazione che il regno dei cieli è qui, è giunto in mezzo agli uomini, che il paradiso è aperto, che Dio è un filantropo.

Nel comando dell’amore lasciato all’uomo come suo impegno personale noi cogliamo un’indicazione precisa del Signore: è l’amore la chiave di volta dell’impalcatura delle relazioni umane, la “soluzione” dei problemi dell’uomo, il principio e il fine della realizzazione piena di questa creatura fatta ad immagine e somiglianza di Dio, che ama ogni essere. Così l’appello alla legge scritta nel cuore dell’uomo fin dalla creazione del mondo si fa evidente nella legge di Mosè. Il comandamento dell’amore è antico non solo perché è stato esplicitato sul Sinai, ma anche e soprattutto perché nella rivelazione del Sinai l’uomo prende coscienza della sua natura amabile e amante. La Beata Teresa di Calcutta può allora dire senza esitazione: “L’uomo è stato fatto per amare ed essere amato”.

Una novità importante viene introdotta da Gesù, quasi a completamento della rivelazione del Sinai e della presa di coscienza della legge scritta nelle fibre genetiche dell’uomo. È quel comando nuovo che il Signore lascia ai suoi discepoli durante la cena pasquale di commiato: amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati. Il comando è esplicitamente rivolto ai suoi discepoli. Non è per tutti, è solo per gli amici. Il termine di paragone è l’amore che Gesù ha dimostrato di avere nei loro confronti, ed ora possiamo aggiungere: il termine di paragone è l’amore divino del Padre che in Gesù si è fatto rivelazione ad ogni creatura. È impossibile dirsi autenticamente cristiani senza realizzare quotidianamente questo amore. Una fede in Dio intima per quanto forte non basta. L’identità cristiana si coglie dal fatto di amare i propri fratelli come Gesù li ha amati. Se è vero che in questo atteggiamento del Signore cogliamo una nota di riferimento alla sua cultura di provenienza (non dimentichiamoci che nell’ebraismo il “fratello” è esclusivamente il fratello ebreo), con la rivelazione di un amore universale rivolto ad ogni uomo sono superate le barriere religiose, culturali, etniche, geografiche in un abbraccio che comprende ogni uomo voluto da Dio a sua immagine e somiglianza. La verità della fede cristiana si gioca sul campo di un amore fraterno attivo, semplice e realistico: avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bene, ero nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, forestiero e mi avete ospitato, carcerato e siete venuti a trovarmi (Mt 25,35-36). A voi che mi ascoltate io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano (Lc 6,27-28). Parole che ci appaiono esigenti, ma allo stesso tempo perfettamente realizzate nel vissuto del Signore Gesù e contenute nel segno del ringraziamento, nell’eucarestia, come primo e indimenticabile dono di simpatia fatto all’intera umanità, anche alla più disperata e inamabile.

L’ammaestramento delle genti

Al termine della sua vicenda terrena, poco prima di ascendere al cielo, il Signore Gesù avverte l’esigenza di dichiarare in forma solenne ed esplicita la volontà sua, del Padre e dello Spirito Santo che ogni uomo sia raggiunto dalla rivelazione del suo amore e possa essere aggregato al segno del ringraziamento. In modo impietoso l’evangelista Matteo rileva che di fronte al Gesù risorto e in procinto di tornare nel seno del Padre persino alcuni degli apostoli hanno avuto dei tentennamenti. La presenza di Gesù tra gli uomini dopo la morte è un fatto trasgressivo, non perfettamente integrabile nell’esperienza umana, ha un che di divino su cui l’intelligenza umana sembra non essere capace di ragionare in modo compiuto. L’evangelista non ci dice se le parole del Signore sono state capaci di fugare ogni dubbio. Probabilmente qualche dubbio è rimasto. Ma il percorso compiuto dagli apostoli, e del quale ci è rimasta una traccia nella storia che ha condotto fino alla nostra presenza qui oggi, ci conforta nella convinzione che, nonostante i dubbi, l’amore nutrito dagli apostoli per il loro Signore e per il genere umano è stato più forte di ogni tentennamento. Essi hanno avvertito nel loro intimo la certezza che quel messaggio di speranza e di salvezza codificato nell’amore universale e divenuto segno di ringraziamento nell’eucarestia non poteva essere trattenuto solo per loro. Quel messaggio era un deposito il cui erede era ed è e sarà il genere umano nel suo complesso.

Gli apostoli percepiscono senza esitazione che il ruolo che svolgeranno all’interno della comunità dei credenti è un ruolo di “inviati”, e che la comunità di coloro che il Signore Gesù ha voluto presso di sé condivide nel suo complesso quel loro ruolo. Non solo quindi essi sono consapevoli di aver ricevuto il segno del ringraziamento come dono da trasmettere, ma che in quel segno – nutrito di amore universale – era contenuto inscindibilmente il gesto tipicamente apostolico della condivisione dei beni spirituali e della rivelazione dell’amore del Padre. Gli apostoli si fanno interpreti e maestri della volontà del loro Signore.

L‘opera missionaria della chiesa nasce così. Dalla consapevolezza della missione di Cristo (rivelazione dell’amore del Padre come rivelazione salvifica dell’uomo) deriva la consapevolezza della missione apostolica (“Ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga”), e dalla consapevolezza della missione apostolica giunge la consapevolezza di una chiesa che per proseguire l’opera del Signore Gesù, per prolungarne nel tempo la memoria e l’efficacia si rende partecipe della missione degli apostoli perpetuando tutti quei segni di amore, di speranza, di fede che “contengono” l’annuncio di salvezza e lo realizzano. Primo tra tutti il segno del ringraziamento. In questo senso l’attività principale è quella tanto tipicamente umana della parola che insegna. Autentico maestro non è colui che siede in cattedra, ma colui che aiuta il suo discepolo ad affrancarsi dall’ignoranza, ad essere libero nella conoscenza e nell’appropriazione graduale della verità, a sviluppare le sue potenzialità, a realizzare la sua identità umana. Tutt’altro che una questione di nozioni da apprendere. L’ammaestramento della fede è anzitutto sapienza di vita.

Di questa sapienza il segno del ringraziamento costituisce il vertice. In qualche modo il maestro della fede vede l’esito del suo compito nel condurre il discepolo della fede a rendere grazie a Dio e ai fratelli, facendo memoria del bene ricevuto e spingendolo a farsene interprete presso gli altri uomini con l’amore tipico del Signore Gesù. Missione di Cristo, missione della chiesa, missione apostolica e missione dei credenti coincidono su questo punto. Non si tratta sempre di uscire “fisicamente” fuori dalle proprie condizioni abituali di vita, ma di portare nel cuore stesso della vita, nella quotidianità, nella ferialità, l’abbraccio di Dio per ogni creatura. La missione perciò “si nutre” dello stesso Spirito che fu di Gesù. Quel corpo dato “per voi” è l’alimento del credente che si dà “per gli uomini suoi fratelli”, che senza riserve vive la vita come un dono di cui non essere geloso possessore, ma generoso sacerdote. Quel sangue della “nuova ed eterna alleanza” è il refrigerio con cui il credente in Gesù brinda l’alleanza con ogni uomo voluto da Dio in Paradiso insieme con lui.