Emozionismo in azione

Siamo seri!

Questo articolo nasce come una sorta di “sfida” lanciatami dalla cara Francesca Ungaro che scrive l’intrigante articolo “Regala emozioni e troverai clienti” al quale ha fatto seguito il nostro dialogo su Twitter, che si può leggere da questo link. Come raccomandatomi da Francesca, cercherò di metterla sul serio! :)

Nel suo articolo, Francesca rimanda ad un post di Riccardo Scandellari (Lo stimolo emozionale che aiuta a vendere), anche lui, come la sorridente Francesca, esperto nel campo del marketing.

Il mio primo vulnus

E qui il mio primo vulnus. Io di marketing non so nulla. Se non quello che lessi, anni fa, in un testo di Gian Paolo Cesarani che mi ha molto illuminato, Persuasori & Persuasi (1983). A quel tempo l’autore cercava di esplorare il futuro del marketing e a distanza di 30 anni possiamo riconoscere in larga parte la sua forza profetica. Nella prima parte del suo volumetto, dedicata ai persuasori, egli ipotizza che il successo del marketing nel futuro sarebbe giunto da una creatività che avesse previsto il divertimento: “Il divertimento come «servizio» al consumatore, per venire incontro a quella che diviene sempre più un’esigenza del rapporto [con il prodotto]: evitare la stanchezza” (p. 107). Così nella seconda parte, dedicata ai persuasi (“Antropologia dei consumatori”), fonda il movimento del consumo contemporaneo in un “rituale primario” di cui nessuno “ha perduto la memoria storica. Questo rituale è la festa, l’antichissima festa che ha attraversato e connotato tutta la storia dell’uomo” (p. 143).

Verità (in-)comprese

Fin da allora utilizzai le nozioni che avevo appreso grazie a Cesarani, le quali mi aiutarono, e mi aiutano, a “leggere” il linguaggio della pubblicità; dietro-dentro ad esso ho potuto riconoscere la potenza dello studio approfondito, la creatività messa al servizio delle scienze umane, il non casuale né improvvisato costrutto dei messaggi. Semplificando assai la logica mi pare: raggiungere il consumatore (quel consumatore) con il prodotto (quel prodotto) che lo farà innamorare.

Ma dal testo di Cesarani appresi anche una verità fino ad allora per me incompresa: che l’anima del commercio non è la pubblicità (come fino ad allora avevo immaginato), bensì la felicità. Il (nuovo) marketing “così diverrebbe indagatore e fabbricatore non solo di strategie commerciali, ma di modelli culturali” (p.47). E grazie a questi modelli culturali si aprirebbero gli spazi dell'”individuo felice“. Per un esperto di marketing tutto ciò era ed è pane quotidiano. Per me fu, e resta, una rivelazione.

Il mio secondo vulnus

Il mio secondo vulnus è la mia formazione culturale. Non so nulla di psicologia, la formazione filosofica di fondo ha spaziato un po’ nel campo della psicologia, ma non a livelli tali da consentirmi di affrontare un argomento tanto intenso come quello delle “emozioni”. Quando, sul finire degli anni ’90, lessi Intelligenza emotiva (1996) di Daniel Goleman si dischiuse un altro mondo davanti ai miei occhi. Fino ad allora per me la definizione aristotelica di “uomo animale razionale” non poteva essere messa in dubbio. Ma alcune convinzioni ricevettero duri colpi da affermazioni come “L’intelligenza accademica non offre pressoché alcuna preparazione per superare i travagli e cogliere le opportunità che la vita porta con sé… Un Qi alto non è una garanzia di prosperità, prestigio o felicità” (p. 67); cosa – forse – molto chiara a tutti nell’esperienza quotidiana, ma gravida di conseguenze in un approccio antropologico.

E la pillola della felicità?

La scoperta che accanto ad una “intelligenza razionale” possa convivere un'”intelligenza emotiva” (“un insieme di tratti che qualcuno potrebbe definire carattere”), fino addirittura a poter parlare di “intelligenza multipla” fu al tempo stesso una liberazione e una preoccupazione. Quest’ultima dettata anche dalla visione “organicista” di Goleman, per il quale, pur con tutte le cautele del caso, sembra esistere uno stretto legame tra emozioni e biologia; e già mi immaginavo una felicità a base di pillole, fin quando non lessi il testo visionario, paradossale, parascientifico di Ray Kurzweil La singolarità è vicina (2008) che profetizza la fusione tra uomo e tecnologia, dove le emozioni verranno emulate dalle macchine piuttosto che dalla chimica. Peraltro abbastanza attiva nel campo, con molecole quali il propranololo (già usato per controllare l’ansia) o il metirapone (già ribattezzata “pillola della felicità”), entrambi forse capaci di cancellare o di schermare la memoria emozionale inducendo la guarigione per esempio del disturbo da stress post traumatico.

Emozioni: verso una definizione

Nel corso dei miei studi ho faticato a trovare una definizione di “emozione” che mi fosse utile e mi soddisfacesse. Ho capito, leggendo qua e là, che oggi prevale il senso dell’emozione come interazione con l’ambiente circostante. Paolo Bertrando nel suo recentissimo Il terapeuta e le emozioni (2014) abbraccia il modello proposto da Dumouchel nel 1995, secondo cui le emozioni sono “proprietà relazionali. Un individuo considerato isolatamente non può possederle”; e continua: “Ci vogliono (almeno) due persone perché, dalla relazione tra loro, emerga il sistema emotivo. E non è nemmeno necessario che la seconda persona si trovi in mia presenza: il «tra» può configurare la relazione tra ricordi, esperienze, storie, tutti aspetti cui partecipano diverse persone ma che possono «vivere» nella mia mente, interiorizzati, e comunque configurare una relazione” (p. 25). Forse in questa “descrizione” (più che definizione) si trascura troppo il fatto che persino un oggetto o un panorama o un animale possono determinare l’emersione di un’emozione. E persino l’oggettivazione di se stessi – mettersi davanti ad uno specchio in una sorta di “ambiente interiore” – produce emozioni, a volte tanto violente da diventare pericolose. Ma va’ là, l’aspetto relazionale (con l’altro, con l’ambiente, con se stessi) è salvo in ogni caso.

L’esperienza scolastica e le sensazioni intime profonde

Mi avventurai in una definizione delle emozioni quando cominciai ad insegnare nella scuola superiore e nel dialogo educativo con i miei amati studenti dovevo porre i fondamenti metodologici. Sviluppai uno schema sulle fonti della conoscenza che doveva aiutarmi a distinguere tra fatti, concetti, giudizi, opinioni, esperienze e – appunto – emozioni. Trovavo molto utile che i miei alunni possedessero strumenti, anche se rudimentali, per interpretare la realtà e comunque per non “credere a tutto” (“Chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente perché comincia a credere a tutto”, G. Chesterton), perché non tutto ha lo stesso peso “informativo” ai fini della conoscenza. Matematicamente parlando, infatti (dicevo loro), ha più rilevanza sapere che il triangolo è quella figura geometrica la somma dei cui angoli interni è pari a 180° (concetto) piuttosto che sapere che si tratta della figura geometrica che mi piace maggiormente (emozione).

Così giunsi a definire le emozioni come “sensazioni intime profonde“. Ricordavo qualcosa di Cartesio che vedeva nelle emozioni una sorta di sentimenti istintuali; e qualcosa di Darwin che pensava a manifestazioni esteriori di stati interiori. Ma non trascuravo nemmeno l’importanza che Ignazio di Loyola aveva attribuito nei suoi Esercizi Spirituali al “discernimento degli spiriti”, spiriti che secondo il santo spagnolo agiscono proprio attraverso le “emozioni”; grazie ad esse, seguendo alcune semplici regole, si può addirittura cogliere un riflesso della voce interiore di Dio. In tal modo sviluppai una serie di lezioni finalizzate ad approfondire il significato di “sensazione”, che per sua natura richiede l’esistenza di un “senso-sensore”; a riconoscere la natura fugace delle emozioni, che come tutte le sensazioni si possono “provare” solo in presenza dello stimolo che le produce, fosse pure uno stimolo mnemonico; infine a leggere il linguaggio emotivo della pubblicità imparando alcune semplici regole sintattiche.

Il modello culturale della felicità

Tra di esse le due principali che avevo imparato pure io: la pubblicità vende la felicità e la pubblicità parla con le emozioni. Se coniughiamo queste due regole della sintassi pubblicitaria troviamo finalmente il modello culturale preconizzato da Cesarani: provare emozioni rende felici. Si astrae dall'”oggetto” della relazione emozionale (il marketing può mettere qualsiasi cosa dentro l'”oggetto”: regala emozioni e troverai clienti vale per tutti) così come si astrae dall'”emozione” in sé (indifferente se è disgusto o gioia o rabbia o sofferenza, il provare emozioni “fa sentire vivi”). Quel che è importante è ciò che ormai costituisce uno “schema culturale”. Un cronista che intervista la vittima dell’affondamento di una nave deve chiedere non come è avvenuto ma “cosa ha provato”, altrimenti l’intervista non avrà mordente e lui sarà considerato un insensibile. Un esponente politico il cui partito di riferimento è stato battuto alle elezioni dichiara di “sentirsi male” quasi paralizzato nel formulare analisi razionali del suo insuccesso e destando così comprensione e condivisione (cfr il mio Emoticons politici. Lettera aperta ad Alessandro Di Battista).

L’epoca storica dell’emozionismo

Tanto forte è questa cultura delle emozioni che mi sono spinto a definire i secoli XX e inizi del XXI come secoli dell’emozionismo. Non so se nella pendolarità delle epoche storiche che si inseguono l’emozionismo si debba considerare una reazione all’illuminismo settecentesco o allo scientismo arido degli inizi del novecento. Di sicuro né il modello “volontaristico” del medioevo cristiano, né quello “razionalistico” dal kantismo in poi (con la sua “fede” quasi religiosa nella “ragione”), né quello dell'”emozionismo” possono adeguatamente descrivere una compiuta antropologia.

L’unico dato di fatto certo è che l’emozionismo (con tutto l’approfondimento dello studio delle emozioni) trova applicazione ed espressione propria nel mondo degli scambi umani, primi tra essi quelli economici. Ma non sono esclusi altri scambi. Si cerchi la voce emozionismo su internet e si resterà sorpresi di trovarsi davanti a scuole di pensiero, movimenti artistici, addirittura rivendicazioni di copyright (cfr emozionismo.blogspot.it)!  Le emozioni abbracciano ogni ambito della vita sociale quotidiana; e fanno vendere ogni prodotto, sia esso un succo di frutta o un fenomeno religioso.

Infine, ma non come ultima cosa, si giunge ad attribuire alle emozioni un ruolo persino nella formazione dei valori morali, come sostiene Jesse Prinze nel suo The Emotional Construction of Morals (2009), la cui tesi principale è che i valori morali sono basati su risposte emozionali e che queste risposte emozionali sono inculcate dalla cultura. Secondo l’autore la moralità di un atto, giusto o sbagliato, consisterebbe nel fatto che la gente sia disposta a provare certe emozioni attraverso di lui. Con tali giudizi abbiamo sconfinato in un campo delicato e il fondamento del bene e del male, dell’atto buono e dell’atto cattivo, richiede sicuramente considerazioni molto meno approssimative.

Papi ed emozionismo

Credo utile concludere questo articolo proponendo una riflessione esattamente su Papa Francesco che appare l’esempio più calzante dell’emozionismo in azione.

Infatti è curioso osservare che Papa Francesco finora non ha né espresso verità teologiche particolarmente innovative rispetto a quelle invece estremamente profonde del suo predecessore, né assunto decisioni disciplinari molto diverse da quelle avviate da Benedetto XVI, ma rispetto a quest’ultimo sta ottenendo un successo personale più tangibile. Il suo linguaggio emozionale (cfr GMG, slogan, emozioni) fatto di slogan semplici, quasi infantili che colpiscono più l’emotività che l’intelligenza (e ricordano quelli di Giovanni Paolo II) ; i suoi gesti (cfr La teologia emozionale di Papa Francesco) che fanno “sentire” vicina una persona tanto lontana, avvolta di un simbolismo unico ma che piace proprio perché sgretola tale simbolismo (cfr Teologia degli slogan) sono solo due elementi, semplici ma efficaci, che hanno riportato in auge il “prodotto religione cattolica” tra i mass media (i quali finalmente hanno di nuovo qualcosa di cui parlare, dopo la parentesi ratzingeriana). Questo Papa “diverte” (cfr Cesarani), “assicura” relazioni (cfr Betrando), in definitiva – secondo lo schema culturale dell’emozionismo – “promette” felicità. La questione religiosa, in tal senso, è secondaria e per certi aspetti superflua.

Dubbi sulla felicità

In definitiva restano in piedi parecchi dubbi, e non piccoli, relativi alla felicità. Il modello culturale dell’emozionismo, pur non potendo adeguatamente esprimere una compiuta antropologia, riesce a mantenere però quello che promette? E cioè la felicità?

In altri termini: posto che una persona giunga al punto di governare il suo flusso di emozioni apprendendo come raggiungere l’eccellenza (Goleman, pp. 154-163), potremo finalmente sostenere che questo rappresenti il conseguimento della felicità?

E posto pure che il marketing diventi sempre più bravo a far “sentire” il clima di festa come rituale del consumo che vinca la noia e la stanchezza della ripetitività (cfr Cesarani), regalando emozioni, siamo certi che questo aiuterà il “cliente” a sentirsi persona (o sarebbe meglio esserlo?) “compresa nei suoi bisogni al di là del business e dei numeri” (cfr Ungaro)?

Ritengo che questo campo, in cui si sovrappongono filosofia e psicologia, insieme al campo del rapporto delle emozioni con la teologia e la spiritualità, meritino presto una seconda riflessione.