Concetto di anima nella tradizione giudaico-cristiana

“Anima” è un concetto tutt’altro che privo di problemi. Nella “storia teologica” della formazione di questo concetto all’interno del cristianesimo confluiscono tre grandi tradizioni, non facili da armonizzare tra di loro:

  • Tradizione ebraico-biblica
  • Tradizione filosofica platonica (e neoplatonica)
  • Tradizione filosofica aristotelico-scolastica

Nella prima (tradizione ebraico-biblica) possiamo osservare la sostanziale coincidenza tra l’anima e la fisicità dell’uomo. In particolare l’anima è considerata come la condizione vitale dell’essere vivente. Perciò il racconto della creazione dell’uomo ricorda che Dio, dopo aver impastato la terra in forma di uomo, soffiò nelle sue narici e l’uomo divenne un'”anima vivente” (ebr.: nefesh). Vita e anima sono in stretto rapporto tra loro. Al punto che la bibbia sostiene che il sangue di una creatura è la sede della sua vita, della sua anima (ebr.: nefesh). Ma vita e anima sono anche in stretto rapporto con Dio, come la fede ebraica-biblica sta a dimostrare. La difficoltà dell’ebraismo antico di concepire una “vita eterna”, quindi la possibilità della sopravvivenza dell’anima, è limitata esattamente dalla sua fisicità. Morendo il corpo muore anche l’anima, perchè l’uomo non ha ma è un’anima. Il concetto è complicato dal fatto che secondo l’ebraismo, la fisicità dell’uomo non è sempre positiva. La “carne” come principio materiale non è di aiuto all’uomo nel suo incontro con Dio. Riassumendo: nell’ebraismo biblico, il più antico ma anche quello che Gesù sostiene, è possibile constatare la convinzione che l’anima sia non tanto un principio a sé stante, etereo, impalpabile, immortale, quanto la vita stessa dell’uomo, purtroppo distrutta dalla morte.

Dalla seconda tradizione, quella filosofica di matrice platonica (e neoplatonica), la teologia cristiana attinge una serie importante di concetti. Platone ritiene di poter rappresentare l’anima come un divino prigioniero del corpo, guida e “auriga” di quest’ultimo. La visione estremamente positiva di questo mirabile principio destinato a godere della purezza dell’empireo dove hanno sede le idee innate si accompagna al corrispondente deprezzamento del principio carnale, materiale, colpevole di allontanare l’anima dalla bellezza della contemplazione. Non si può negare: il fascino esercitato da questa posizione filosofica sulle enerazioni cristiane è stato eccezionale. Del resto essa riusciva a dare senso a due grandi dilemmi: l’immortalità e la sopravvivenza dell’essere umano davanti all’incontestabile evidenza della morte e del disfacimento; il dubbio su cosa c’è nell’aldilà e quali sono le azioni che l’uomo vi compirà. Quanto più questa tradizione filosofica di matrice platonica si impone e impregna il cristianesimo tanto più quest’ultimo si allontana dalla tradizione biblica e mal riesce a conciliarsi con la visione redentiva di Gesù (per il quale persino il corpo ha una sua sacralità). Tuttavia la visione platonica dell’anima avrà il merito di semplificare notevolmente il problema e offrire alla massa gli strumenti intellettuali per comprendere una questione di difficile soluzione.

La terza tradizione discende da Aristotele e passa attraverso il tempo aureo della filosofia scolastica (per intenderci, quello del grande teologo San Tommaso d’Aquino). Le categorie che Aristotele offre al pensiero cristiano sono innovative e di straordinaria efficacia. Egli parte dalla distinzione, all’interno di qualsiasi essere, di due condizioni: quella della potenza e quella dell’atto, le quali possono garantire, nel tempo, la continuità dello stesso essere. Per capirci meglio: una gallina compiuta è un essere vivente “in atto”; la stessa gallina un tempo era un uovo: per Aristotele quell’uovo è una gallina “in potenza”. Un altro concetto estremamente efficace, ma abbastanza complesso, è quello della distinzione tra “materia” e “forma”. L’esempio che faccio tra breve è approssimativo, non perfetto, ma aiuta a comprendere. Ciascuno di noi ha in mente l’idea di sedia. Quella idea prescinde da qualunque sedia esistente al mondo. Non è necessario che voi vediate la sedia, mentre io ve ne parlo: è sufficiente il nome per evocarne il concetto. Nel momento in cui io volessi concretamente costruire la sedia che ho in mente, allora dovrei disporre della “materia” bruta (pietra, legno, metallo, plastica, vetro, tessuto…) alla quale dare la “forma” di sedia. Agli aristotelici puristi questo esempio non piacerà molto, ma dovranno darmi atto che si avvicina molto al pensiero del filosofo. San Tommaso applicò queste ed altre categorie aristoteliche alla teologia cristiana, dando un contributo sostanziale alla soluzione di molte questioni. In relazione all’anima la scolastica ci dirà che:

  • l’anima è la forma dell’uomo, e il corpo ne è la materia; forma e materia (anima e corpo) sono inscindibilmente legati a costituire la realtà unica (“sinolo”) che noi chiamiamo “persona umana”. L’uomo non può esistere come tale senza la presenza contemporanea dei due principi – forma e materia, anima e corpo -;
  • il rapporto che intercorre tra l’uomo nella sua condizione terrena e l’uomo nella sua condizione eterna è quello della potenza e dell’atto. L’uomo è immortale ed eterno “in potenza”, ma solo attraverso l’evento della morte egli lo diventa “in atto”.

Il pensiero aristotelico-scolastico pare aver dato una soluzione pressochè definitiva alla questione dell’anima, ricucendo il dato biblico con quello derivante dalla tradizione cristiana grazie al filo fornito da Aristotele. Ma lo stesso S. Tommaso si rese conto che qualcosa non funzionava, e questo qualcosa continuava ad essere l’evidenza irriducibile della morte come fisicità inerte e disfacimento del corpo. Se infatti solo l’anima immortale torna a Dio, si viola il principio dell’unione inscindibile di corpo e anima; se il corpo deve attendere la fine dei tempi per tornare ad unirsi in modo immortale all’anima eterna, si viola il principio del passaggio dalla potenza all’atto. S. Tommaso comprende che esiste un problema: quello delle cosiddette “anime separate” (sottointeso: dal corpo). In senso teologico esse non possono esistere, pena la contraddizione della stessa attività creativa di Dio, che ha costituito l’uomo come essere spirituale E materiale insieme. Tale dilemma non troverà in S. Tommaso adeguata risposta, e non la troverà nemmeno in teologi successivi, nonostante il succedersi di tentativi più o meno ortodossi. Con il passare degli anni (dei secoli) la questione delle anime separate ha perduto interesse, proprio per la difficoltà di soluzione e la mancanza di elementi decisivi, a favore di questioni meno speculative. Ed oggi non siamo in grado di fornire una adeguata armonizzazione tra le varie tradizioni e le soluzioni teologiche e filosofiche. In un suo intervento ufficiale il cardinal Ratzinger, prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede, ha affermato che la chiesa non ignora l’insufficienza delle categorie utilizzate fino ad oggi per spiegare la realtà dell’anima e addirittura il termine “anima” appare non del tutto idoneo a identificare il concetto che vuole rappresentare. Ma, aggiunge, fintantochè non ci sarà un termine e un concetto più validi degli attuali dovranno restare in vigore quelli che la tradizione teologica e spirituale ci hanno trasmessi.

Allo stato teologico attuale, quindi, stato che riflette la fede vissuta del popolo di Dio, la lezione cattolica riguardo all’anima riflette la lezione tradizionale, articolata in 3 punti.

  • L’anima personale esiste, è creata direttamente da Dio, è spirituale e immortale, è il principio vitale del corpo materiale.
  • Al momento della morte l’anima abbandona il corpo e viene ammessa al cospetto di Dio (vedi Gesù che dice al malfattore crocifisso accanto a lui: “Oggi sarai con me in paradiso”).
  • Il corpo, trascorso il tempo che Dio ha fissato, tornerà in vita nel giorno della risurrezione. In quel giorno la persona umana riprenderà la sua carne, non una carne diversa da quella avuta prima della morte, bensì la stessa però in una “condizione” differente dalla precedente (vedi il Gesù risorto che mangia con i suoi discepoli, ha ancora le piaghe della passione, però non ha fame, non soffre dolore, riesce a fermarsi dai suoi discepoli a porte chiuse).

Tale lezione tradizionale, mentre rende ragione di numerose istanze provenienti dalla rivelazione giudaico-cristiana, soddisfa anche l’evidenza del fenomeno della morte relativo alla fisicità, con il disfacimento della corpo. Tuttavia non si può nascondere il fatto che essa contraddica alcuni elementi non secondari, come quello – fondamentale – dell’unità inscindibile del corpo (principio materiale) e dell’anima (principio spirituale) della persona umana.